QUALI SONO LE CRITICITA’ DEL PIANO DI PACE DI TRUMP: INTERVISTA A GIUSEPPE DENTICE, ESPERTO ANALISTA DELL’OSMED: “PER I PALESTINESI E’ UN CALICE AVVELENATO”
“FORTEMENTE SBILANCIATO A FAVORE DI ISRAELE, NON RISOLVE LE CAUSE STRUTTURALI DEL CONFLITTO”… “NESSUN REALE MECCANISMO DI GARANZIA INTERNAZIONALE”
Un piano fortemente sbilanciato a favore di Israele, lacunoso in molti passaggi essenziali, che non tiene conto delle richieste dei palestinesi e non risolve le cause profonde del conflitto.
Il progetto presentato ieri sera da Donald Trump alla Casa Bianca – teoricamente volto a riportare stabilità e “pace” in tutto il Medio Oriente – si articola in 21 punti e promette una progressiva normalizzazione dell’area. Fin dalla sua diffusione, però, il cosiddetto “piano di pace” ha sollevato numerosi interrogativi ed è stato accolto con non poco scetticismo.
Il piano prevede la smilitarizzazione completa della Striscia, sviluppo economico, ricostruzione delle infrastrutture e l’istituzione di una nuova governance attraverso un “board di pace” internazionale guidato dallo stesso Trump e dall’ex premier inglese Tony Blair. Sulla carta, si tratta di obiettivi ambiziosi e apparentemente condivisibili.
Nella pratica, però, il documento lascia irrisolti nodi cruciali: chi gestirà concretamente il territorio? Quando le Forze di Difesa israeliane lasceranno Gaza? Quale futuro attende Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese? Come si garantirà che le annessioni in Cisgiordania non proseguiranno?
Per fare chiarezza su un’iniziativa che rischia di rivelarsi più un ricatto ai palestinesi che una soluzione giusta e sostenibile, abbiamo intervistato Giuseppe Dentice, analista esperto di Medio Oriente dell’Osservatorio sul Mediterraneo dell’Istituto di
Studi Politici “San Pio V”. Dentice ha esaminato attentamente il piano Trump, individuandone soprattutto le criticità strutturali che potrebbero condannarlo al fallimento.
Dalla questione della smilitarizzazione di Hamas all’esclusione strategica di Marwan Barghouti, dall’ambiguo ruolo dei Paesi arabi alle responsabilità storiche di Israele nel far naufragare precedenti accordi, ecco perché il “piano di pace” della Casa Bianca rischia di rivelarsi l’ennesimo flop.
Dottor Dentice, partiamo dal quadro generale. Ha avuto modo di esaminare il cosiddetto “piano di pace” proposto da Donald Trump ai palestinesi? Qual è la sua prima impressione?
Sì, ho avuto modo di leggere i venti punti del piano, e devo dire che la mia prima impressione è che si tratti più di un diktat che di un vero e proprio piano di pace. È come se ai palestinesi venisse presentato un “calice avvelenato”: apparentemente ci sono elementi positivi – sviluppo economico, ricostruzione della Striscia, riforme di governance – ma mancano completamente tempi, modalità e strumenti concreti per attuarli. Si chiede, ad esempio, la smilitarizzazione di Gaza, la ricostruzione economica e l’introduzione di un nuovo assetto amministrativo, ma non si specifica come e quando ciò dovrebbe avvenire. Sono lacune enormi, che rendono l’intero piano poco credibile sul piano operativo.
Uno degli aspetti più discussi è proprio quello della smilitarizzazione di Hamas e della Striscia di Gaza. Come viene affrontato nel piano?
Si afferma che Hamas deve essere smilitarizzato e che Gaza deve diventare una zona “pacificata” sotto una sorta di
supervisione internazionale, ma non si dice con quali strumenti, né in quali tempi. Inoltre, non è chiaro quando e in che modo le forze armate israeliane dovrebbero ritirarsi dalla Striscia. Si parla di un “board di pace” internazionale, gestito direttamente da Trump insieme ad attori terzi non ancora ben definiti, tra i quali ci sarebbe anche Tony Blair, una figura che nel mondo arabo non gode certo di particolare fiducia per la sua esperienza passata. Questa vaghezza alimenta sospetti: sembra un piano costruito per mettere Hamas di fronte a un aut-aut e, di conseguenza, scaricare su di loro ogni responsabilità di un eventuale fallimento.
E che ruolo è previsto per Hamas e per l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) in questo processo?
Qui emergono altre grandi ambiguità. Per Hamas si ipotizza una sorta di “amnistia” o salvacondotto per i leader, ma non è affatto chiaro quale ruolo politico possano avere in futuro. Per l’ANP non c’è chiarezza se verrà coinvolta fin dall’inizio o se entrerà in scena solo in una fase successiva.
Secondo lei, è realistico pensare che Hamas possa accettare una completa smilitarizzazione? I palestinesi possono rinunciare alla resistenza armata?
No, francamente non lo ritengo realistico. Alla luce della storia recente e dell’attuale contesto, è impensabile che Hamas rinunci alla propria ala militare.
Allo stesso modo, è difficile immaginare che Israele sia disposto ad abbandonare completamente Gaza, soprattutto dopo gli sviluppi degli ultimi anni e il progetto – mai archiviato – della cosiddetta “Riviera di Gaza”. Israele ha investito molto nel
controllo strategico dell’area e difficilmente lascerà campo libero. In più, il piano non affronta questioni fondamentali come le annessioni in Cisgiordania: un punto che per i Paesi arabi è una condizione imprescindibile.
Il piano prevede anche la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi. Si parla spesso di Marwan Barghouti. Che ruolo potrebbe avere?
Barghouti è una figura centrale. È probabilmente l’unico leader palestinese in grado di godere di una legittimità trasversale, sia tra i sostenitori di Fatah sia tra la popolazione più vicina ad Hamas. Tuttavia, il suo nome non compare tra quelli dei prigionieri che potrebbero essere liberati. Israele continua a negargli qualsiasi possibilità di riabilitazione politica, e anche Hamas e l’ANP lo vedono come un potenziale rivale pericoloso nei loro equilibri interni.
Il piano di Trump prevede la liberazione di 250 ergastolani e circa 1.700 civili detenuti senza processo, ma la questione Barghouti resta completamente irrisolta. Ed è un punto non secondario, perché la sua esclusione indebolisce la credibilità del piano agli occhi dei palestinesi.
Anche molti Paesi arabi hanno approvato il “piano di pace” di Trump. Come mai?
Trump ha presentato il piano come se fosse appoggiato da molti Paesi arabo-musulmani, ma la realtà è più sfumata. Molti governi arabi – penso a Qatar, Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Pakistan – hanno riconosciuto l’accordo solo perché riprende, in larga parte, la proposta avanzata dalla Lega Araba durante il vertice straordinario del Cairo di marzo. Dal
loro punto di vista, è già un successo diplomatico: riescono a riportare la questione palestinese al centro dell’agenda e a lanciare un messaggio chiaro a Israele e agli Stati Uniti. Tuttavia, questi Paesi pretendono garanzie serie: ribadiscono la necessità di uno Stato palestinese con confini riconosciuti su Gaza e Cisgiordania. L’annessione di questi territori rappresenta per loro una linea rossa invalicabile.
E Hamas, come pensa che potrebbe replicare a questo piano?
Immagino che Hamas voglia leggere specificatamente ogni singolo elemento di questo piano, che dovrà essere presentato dai mediatori egiziani e qatarini. Non credo però che il partito armato palestinese voglia tirare troppo la corda. Anche per loro ci sarebbe un vantaggio nell’accettare l’intesa: ogni volta che Hamas ha accettato un accordo ha ributtato la palla nel campo israeliano, e quindi ogni responsabilità ricadeva su Israele. In questo caso vedo difficile che Hamas possa accettare per intero l’impianto proposto da Trump, proprio perché vengono meno tanti elementi che riguardano la stessa identità di Hamas: la sua ala armata, la resistenza, l’impossibilità di gestire nel presente e nel futuro quote di potere dentro un presunto stato palestinese, ma anche dentro la stessa striscia di Gaza.
Quindi prevede una controproposta?
Immagino che Hamas possa replicare accettando magari con alcune riserve il piano e proponendo ai mediatori qualcosa che cerchi di garantire un po’ di più le loro prerogative. Da questo punto di vista, anche gli stessi Paesi arabi potrebbero venire incontro ad Hamas. È innegabile che dopo l’attacco di Israele a Doha, quasi tutti gli stati della regione sono molto scontenti
dell’atteggiamento israeliano e non condividono l’appiattimento statunitense nei confronti di Tel Aviv.
In conclusione, qual è il suo giudizio complessivo su questo piano?
Direi che si tratta di un piano ambizioso nelle intenzioni ma profondamente carente nella sostanza. Mancano i passaggi concreti per costruire una roadmap credibile. Non ci sono strumenti chiari, né tempistiche, né un reale meccanismo di garanzia internazionale. E soprattutto, non si affrontano le questioni strutturali che alimentano il conflitto da decenni. È un’operazione che, più che favorire la pace, sembra voler congelare la situazione a vantaggio di Israele e scaricare su Hamas l’onere di un eventuale rifiuto. Per parlare davvero di pace servirebbe ripartire da basi solide, ristabilire un minimo di fiducia reciproca e coinvolgere realmente tutte le parti. Al momento, purtroppo, questi elementi mancano del tutto.
(da Fanpage)
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