ROMANO IL PICCONATORE
DA MERKEL “MAESTRA SEVERA” A RENZI PREMIER “SENZA VOTO”, DAGLI SCONTRI CON D’ALEMA AL PD “MISSIONE INCOMPIUTA”
Romano Prodi si toglie un po’ di sassolini dalle scarpe.
Racconta aneddoti su decenni di rapporti personali e di storia d’Italia in un libro-intervista a cura di Marco Damilano dal titolo “Missione Incompiuta” e si concede giudizi tranchant, anche velenosi, su molti protagonisti della vita politica, e non solo.
Nelle anticipazioni diffuse oggi da Repubblica, Corriere della Sera e Fatto Quotidiano, dipinge anche un quadro piuttosto fosco del futuro economico nazionale ed europeo: “Le politiche europee del governo tedesco – spiega – meritano oggi ogni biasimo e probabilmente produrranno danni irreparabili. L’Italia non sarà la prima ad affondare, ma è solo questione di tempo: se non si cambia integralmente politica su scala europea, saremo travolti tutti”.
Per quanto riguarda l’Italia, Prodi afferma che “tre presidenti del Consiglio non eletti dal popolo sono certamente un intervallo troppo lungo del processo democratico”. Criticando il fatto che la legge elettorale in Italia non dica chiaramente chi vince e chi perde, il Professore parla di “grave anomalia di un sistema democratico”.
Perchè l’Italia “è un paese scalabile, ma la scala la devono fornire gli elettori”. Romano Prodi dice del Pd che “senza l’Ulivo non ci sarebbe stato. In questo senso si può dire che il Pd ne è il figlio”, ma il partito oggi guidato da Matteo Renzi “valorizza l’eredità dell’Ulivo a giorni alterni”.
Il Professore non sente una propria estraneità dal Pd, ma parla della “fine di una missione. Missione incompiuta”.
Altro passaggio inevitabile è quello della sua mancata elezione al Quirinale, quei 101 franchi tiratori che “in realtà sono stati quasi 120”.
Ricorda che “per due giorni nessuno del Pd mi ha difeso ed è stato per me il momento di massima amarezza. Solo una dichiarazione personale da parte di Rosy Bindi”. Secondo Prodi in quel voto c’era “il non volere un presidente della Repubblica difficilmente controllabile”.
Uno dei giudizi più severi di Romano Prodi riguarda la cancelliera tedesca Angela Merkel: “sono preoccupato per il futuro dell’Europa, governata da una leadership che è sempre più forte, ma ha perso il senso della solidarietà collettiva” afferma l’ex presidente del Consiglio, sottolineando che “tutti i paesi fanno a gara a ripararsi sotto l’ombrello tedesco, dove siede l’intelligente e severa maestra che, con la matita rossa e blu, ha sostanzialmente sostituito il ruolo delle società di rating, tra loro formalmente concorrenti ma, in pratica, ormai inascoltate sorelle gemelle”.
A proposito di leader forti, Prodi afferma con chiarezza di accordare la sua preferenza allo stile di governo di Enrico Letta, rappresentato dal “cacciavite” rispetto a quello di Matteo Renzi, rappresentato dal “trapano”.
“I poteri forti si sono profondamente indeboliti” afferma l’ex premier, secondo cui oggi Renzi “ha certamente più probabilità di costituire il potere dominante del Paese. Ma preferisco il cacciavite di Enrico al trapano di Matteo”.
Quello che non piace a Prodi è l’idea del Pd partito della nazione, “una contraddizione in termini. Nelle democrazie mature non vi può essere il partito della nazione. È incompatibile con il bipolarismo”.
Prodi racconta il suo ultimo incontro con Renzi, il 15 dicembre scorso: non gli parlò nè di Libia – molti facevano il suo nome come mediatore Onu – nè di Quirinale, ma “ha gentilmente fatto cenno a una mia possibile candidatura per la prossima segreteria delle Nazioni Unite”. Un obiettivo che il Professore non ritiene possibile.
Prodi si spiega così nel libro-intervista il successo conseguito negli anni da Silvio Berlusconi in politica:
“Ci sono momenti in cui l’Italia ha bisogno di un’auto-illusione ed è disposta a non guardare dentro a se stessa pur di continuare a illudersi. Attraversiamo spesso questi momenti nella nostra storia nazionale”.
Racconta poi il suo primo incontro con Umberto Bossi, quando la Lega muoveva i primi passi, a inizio anni 90
“Mi fece chiamare e mi offrì di entrare in politica con lui. Io dissi di no, ma fu un incontro molto divertente e istruttivo. Nei corridoi della modesta sede milanese i volontari della Lega mi chiedevano cosa sarebbe successo al prezzo delle case, ai titoli del debito pubblico. Quel giorno capii che la Lega attecchiva a radici popolari molto profonde. Non l’ho mai sottovalutata nè demonizzata”.
Più severo il giudizio che Romano Prodi riserva ad Antonio Di Pietro e al metodo di lavoro dell’indagine Mani Pulite.
“Fui ascoltato come testimone e tutto finì lì. Ma quello era il periodo in cui Di Pietro saliva velocemente gli scalini della politica. E diede all’incontro la massima risonanza possibile, al di là di ogni regola. Ogni tanti si alzava in piedi, si avvicinava alla porta e urlava: “E i soldi alla Dc?”. E tutti i giornalisti, di là dalla porta, lo potevano ascoltare”.
Secondo Prodi i metodi seguiti per Mani Pulite “pur inserendosi in una doverosa e lungamente attesa campagna di pulizia, segnarono anche l’inizio della stagione di un populismo senza freni”.
Il primo incontro con Beppe Grillo, invece, risale ai tempi dei primi spettacoli teatrali impegnati dell’attuale leader del M5S.
“Grillo venne a trovarmi e mi chiese di esaminare alcuni suoi copioni. Faceva bellissimi spettacoli sugli sprechi” ricorda il Professore, “poi non ci siamo incontrati più fino al 2006. Venne a Palazzo Chigi per consegnarmi il testo dei programmi usciti dai sondaggi, e mi fece una lunga intervista. Forse perchè questa intervista non conteneva argomenti che potesse utilizzare politicamente, o semplicemente perchè non lo aveva soddisfatto, dichiarò alla stampa che mi ero addormentato. Un comportamento davvero sconcertante”
Uno dei passaggi più velenosi del libro-intervista è riservato a Massimo D’Alema
“Da Gargonza” dove l’allora segretario del Pds criticò l’Ulivo “venimmo via sfilacciati, con un segno di desolazione”. Prodi fa riferimento a una “strategia precisa” di D’Alema che temeva di “perdere influenza sul governo” e che “si allontanasse la possibilità di avere alla presidenza del Consiglio una personalità proveniente dalla radice comunista. Se ci avesse lasciato governare per cinque anni, penso che sarebbe stato proprio D’Alema il naturale e duraturo successore”.
Gustoso poi l’aneddoto su quando cercò di portare Diego Armando Maradona a giocare in Cina, quando Prodi era presidente dell’Iri e venne a sapere che Deng Xiaping era pazzo del campione argentino, in quegli anni a Napoli
“Parlai subito con Ottavio Bianchi, l’allenatore del Napoli. Lui era entusiasta, ma dopo tre giorni mi richiamò mortificato. Maradona chiedeva per sè 300 milioni di lire, che moltiplicato per il resto della squadra faceva un miliardo. Bianchi era un uomo serio, mi spiegò come funzionava la testa di Maradona: in modo assai diverso dai suoi piedi. Io risposi che un’azienda pubblica come l’Iri non si poteva accollare una simile spesa. Da allora sono molto arrabbiato con Maradona”.
(da “Huffingtonpost“)
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