Destra di Popolo.net

L’ESTATE DELLA DUCETTA È MOLESTATA DA BRUTTI PENSIERI; SE PRENDE UNA SBERLA ALLE REGIONALI D’AUTUNNO, LA PREMIER TEME CHE UNA CADUTA POSSA TRASFORMARSI NELL’INIZIO DELLA FINE. COME È ACCADUTO AL PD DI RENZI, ALLA LEGA DI SALVINI, AL M5S DI DI MAIO. DI COLPO, DALL’ALTARE ALLA POLVERE

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

NERVOSISMO PER LE CONTINUE “STONATURE” DEL TROMBONISTA SALVINI, CHE VEDE LA SUA LEADERSHIP MESSA IN PERICOLO DAL GENERALISSIMO VANNACCI. OPPURE QUELLE VOCI DI UN CAMBIO DI LEADERSHIP DI FORZA ITALIA, STANCHI LOS BERLUSCONES DI VEDERE TAJANI COL TOVAGLIOLO SUL BRACCIO AL SERVIZIO DELLA SORA GIORGIA… OCCORRE UN NUOVO MARINAIO AL TIMONE PER CAMBIARE ROTTA: MATTEO PRANDINI, PRESIDENTE DELLA COLDIRETTI?

Sarà un’estate molestata da dubbi e brutti pensieri quella che ha davanti GiorgiaMeloni.
Se in campo europeo sta cercando di democristianizzarsi, puntando verso il centro di Ursula von der Leyen e di Fredrich Merz, traguardo il Partito Popolare Europeo, in casa la musica cambia.
Se prende una sberla alle regionali d’autunno, tipo un 4-1 con la perdita delle Marche, la Signorina premier teme che una caduta possa trasformarsi nell’inizio della fine.
Nel paese di Totti e Andreotti, di Ferragni e Barbara D’Urso, succede sempre così: basta uno schiocco di dita nella cabina elettorale e si finisce nel cono d’ombra. Di colpo, crolla rovinosamente tutto, dall’altare alla polvere, come è accaduto al Pd (che Renzi alle europee aveva portato il Pd al 40,8%), alla Lega (che nel 2019 all’epoca del governo gialloverde di Salvini veleggiava nei sondaggi al 34%), al M5s (con Di Maio vincitore indiscusso delle elezioni politiche 2018 con il 32% dei voti).
Ecco perché serpeggia un pesante nervosismo per le continue “stonature” del trombonista Matteo Salvini, tallonato com’è dal generalissimo Vannacci, che non si è accontentato di essere nominato vice segretario della Lega, trasformandosi nel vero avversario alla leadership del Capitone, già Capitano.
Il simpatico autore de “Il mondo al contrario”, tanto per distinguersi da Salvini e dai governatori leghisti, non si è fatto alcun problema di presentarsi in Veneto e proclamarsi contro il
terzo mandato spazzando via i sogni di Luca Zaia.
Secondo i calcoli dell’eurodeputato, dell’8,8% che oggi i sondaggi accreditano al Carroccio, la metà appartengono ai fanatici della Decima; e dei voti del Veneto, Lombardia, Friuli, regioni che esprimono un governatore leghista, frega poco: l’importante per Robertino è la conquista del voto nazionale del partito fondato da Umberto Bossi.
Dopodiché, avrà inizio la seconda tappa dell’ex comandante dei paracadutisti della “Folgore”: come strappare a Fratelli d’Italia quell’elettorato post-fascio che rappresenta lo zoccolo duro da cui decollò il trio Meloni-Crosetto-La Russa, all’indomani dalla scissione dal Partito delle Libertà di Berlusconi e Fini, che Giorgia Meloni ha gettato alle spalle durante i tanti compromessi e i continui voltafaccia al passato che hanno punteggiato la sua irresistibile ascesa al potere.
Dopo i primi tre anni di governo, la Statista della Garbatella si ritrova infatti intronizzata al 29% con zero opposizione all’interno di Fratelli d’Italia, essendo riuscita a zittire l’ala nostalgica dei reduci e combattenti col fez incorporato a suon di posti e prebende.
Ad oggi, un fatto è chiaro: azzoppato Salvini, alla Meloni l’unico pericolo all’interno della coalizione di governo può provenire solo dalle future mattane di Vannacci. Oppure da un cambio di leadership all’interno di Forza Italia. Che la Famiglia Berlusconi sia da tempo insofferente di vedere il ciociaro Tajani ridotto col tovagliolo sul braccio al servizio della Ducetta, è notorio.
Come è risaputo dei tentativi di Marina Berlusconi di scovare un sostituto: raccontano a Milano che avrebbe dato mandato alla sondaggista Alessandra Ghisleri di trovare sulla piazza un tipino capace di rinverdire i tempi gloriosi di Papi Silvio.
Soprattutto al Nord, dove gli elettori di Forza Italia ha del tutto
dimenticato il berlusconismo e alle ultime europee il partito di Tajani ha raccattato un risultato debolissimo: se in Lombardia, Liguria, Val d’Aosta e Piemonte ha toccato il 9,4%, in Veneto, Friuli, Trentino e Emilia-Romagna ha ottenuto la miseria del 7%.
Gli azzurri galleggiano grazie ai voti della Campania, della Calabria, della Sicilia. Ma i loro capoccioni, dal partenopeo Fulvio Martusciello al calabro Roberto Occhiuto, sono azzoppati da inchieste giudiziarie o problemi di salute.
Occorre un nuovo marinaio al timone per cambiare rotta. Oggi il nome più in ballo è quello di Matteo Prandini, presidente della Coldiretti che vanta un milione e seicentomila iscritti.
La prima uscita pubblica di Meloni appena insediatasi nel 2022 al governo del Paese fu a un evento Coldiretti a Milano. Ma il feeling fortissimo che legava l’associazione e il governo è pian piano scemato una volta che Francesco Lollobrigida è stato sbattuto fuori di casa con un’intervista a “Il Foglio” dalla coniuge Arianna Meloni.
La conseguente messa ai margini della Fiamma Magica di Palazzo Chigi del ministro dell’Agricoltura non poteva non avere contraccolpi sulla Coldiretti, che si ritrova con i suoi iscritti furenti per il dazismo trumpiano che potrebbe portare a una diminuzione delle esportazioni e del fatturato per le aziende italiane.
Ad aprile, quando sono entrate in vigore le tariffe aggiuntive sulle merci europee volute dal presidente Donald Trump (prima al 20%, poi dimezzate al 10%), la crescita delle esportazioni agroalimentari negli USA è drasticamente diminuita rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Se il dazio al 10% dovesse restare, comporterebbe un aggravio di spesa di quasi 800 milioni di euro per i cittadini USA, con ricadute sulle aziende italiane.
Il camaleontismo di tenere il piede in due staffe della Meloni nei confronti del Caligola della Casa Bianca, senza più un Lollo ad alzare la voce nel circolo della Fiamma Magica, ha spinto il potentissimo direttore generali di Coldiretti, Enzo Gesmundo, a lanciare nel salottino milanese di Marina Berlusconi la candidatura alla leadership di Forza Itala del suo baldo presidente Matteo Prandini. Il quale, a sua volta, ha incontrato più volte la Cavaliera ma, come il fratellino Pier Silvio, prima di prendere una decisione passano gli anni.
Questa è la cornice in cui si trova oggi il governo della Thatcher del Colle Oppio: tutto è in movimento, niente rimane statico ma ogni cosa è in continuo cambiamento. Come dicono quelli che hanno fatto il classico: “panta rhei”

(da Dagoreport)

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CIUFF CIUFF, È IN ARRIVO IL TAJANI-EXPRESS: IL MINISTRO DEGLI ESTERI HA DECISO CHE IL SUO PAESE D’ORIGINE, FERENTINO, IN PROVINCIA DI FROSINONE, DEVE AVERE UNA STAZIONE FERROVIARIA DELL’ALTA VELOCITÀ

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

UNA MOSSA CHE RICORDA LA COSIDDETTA “CURVA FANFANI” DELL’AUTOSTRADA DEL SOLE, IMPOSTA DAL POLITICO DEMOCRISTIANO DI AREZZO… L’ULTIMA PAROLA SPETTA AL MINISTRO DEI TRASPORTI: COSA FARÀ SALVINI, PERMETTERA’ A TAJANI DI INTESTARSI QUESTA VITTORIA?

L’autostrada del Sole viene ricordata per la cosiddetta “curva Fanfani”: il politico democristiano, ministro e presidente del Consiglio, era talmente legato al suo territorio, ossia Arezzo, da far modificare il percorso della strada che doveva unire l’Italia.
Ora sta accadendo la stessa storia con le ferrovie, e protagonista è il vicepresidente del Consiglio e ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, Antonio Tajani, che vuole dotare il territorio ciociaro di una fermata, con tanto di stazione ipermoderna, dell’alta velocità.
La stazione Tav a Ferentino, dicono dalle parte di Tajani, «rappresenta un’imperdibile opportunità di rilancio, non soltanto per la provincia di Frosinone, ma per tutto il Basso Lazio e, a catena, per le regioni limitrofe.
Non una semplice infrastruttura, ma un’opera capace di far recuperare terreno a tutta l’area non soltanto per quanto concerne la mobilità, che ne guadagnerebbe, evidentemente, in efficienza, ma anche in termini di rilancio economico, con una rafforzata attrazione industriale e turistica».
A promuovere un incontro sul tema è stata la Cisl, con un convegno intitolato “La rinascita del Basso Lazio – Il futuro della mobilità con la Tav”, presente Tajani e pure il presidente della Regione Lazio Francesco Rocca. La stazione Tav di Ferentino-Supino è un’opera «non negoziabile» secondo il segretario regionale della Cisl Lazio Enrico Coppotelli, supportato da Forza Italia e Fratelli d’Italia in questa battaglia.
Fatto sta che il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti è leghista, e risponde al nome di Matteo Salvini, e giovedì 3 luglio al dicastero è in programma un incontro proprio su questo tema. Rocca ha parlato chiaro: «Per anni siamo stati bloccati dall’ideologia, questo territorio ha scontato pesanti ritardi a causa dei troppi “no”. Ora basta. Con la stazione Tav potremmo arrivare a un movimento di 5.600 passeggeri al giorno. I 28 minuti che collegherebbero la città del frusinate a Roma Tiburtina farebbero davvero la differenza».
E a dar manforte è arrivato anche il neo sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, Luigi Sbarra, già a capo della Cisl: «Quella del Basso Lazio non è una terra depressa, ma una terra che rischia di essere dimenticata. E la stazione Tav non è un favore, bensì un investimento per questo territorio».
Il deputato di Fratelli d’Italia Massimo Ruspandini ha detto la sua: «Dobbiamo intercettare le varie sensibilità per poter lavorare insieme. Le nostre province possono vincere le grandi sfide della globalizzazione e di questa nostra contemporaneità soltanto se riusciamo a lavorare insieme, mettendo da parte gli interessi di partito e i campanilismi. Dobbiamo unirci quindi in questa battaglia per la Tav. Il territorio ha bisogno di questa infrastruttura e ha bisogno di fare squadra».
Però, in caso di successo, chi si intesterà la vittoria sarà Tajani, che nel territorio del Basso Lazio ha le sue origini: la madre faceva l’insegnante di latino e greco proprio a Ferentino, Comune della Valle del Sacco che ora conta poco meno di 20 mila abitanti. Così il vicepremier rischia di farsi passare per il “nuovo Giulio Andreotti”. Che tra l’altro era stato anche ministro degli Affari Esteri, nella sua lunga carriera.

(da lettera43)

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CHI DOPO MACRON? IN FRANCIA È GIÀ INIZIATA LA CORSA ALL’ELISEO (SI VOTERA’ NEL 2027) : TRA I MACRONIANI SCALDANO I MOTORI IL GIOVANE GABRIEL ATTAL O EDOUARD PHILIPPE, EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

POCO È CAMBIATO PER LA DESTRA: GLI ELETTORI SONO DISPOSTI A VOTARE ANCHE JORDAN BARDELLA, PRESIDENTE DI RN … A SINISTRA VA IN SCENA IL DERBY TRA MELENCHON E L’EURODEPUTATO RIFORMISTA RAPHAËL GLUCKSMANN

La corsa per le presidenziali francesi del 2027 è però già cominciata. Anche perché un nodo va sciolto, nella concretezza del lungogioco elettorale: cosa ne sarà del macronismo senza Emmanuel Macron? Dopo due mandati il presidente non può ricandidarsi, ma non ha costruito nulla che prometta di resistere nel lungo periodo al suo ritiro dalle scene.
La scelta di varare la riforma delle pensioni – che ancora oggi è oggetto di ampie discussioni – poco prima delle europee del 2024 e non durante i lunghi mesi previsti di silenzio elettorale, ha ridimensionato il suo partito, ulteriormente penalizzato dalle successive elezioni anticipate.
L’eredità non sarà perduta bruscamente: nei sondaggi Ensemble è ancora accreditata per un secondo posto al primo turno.
Le ambizioni non mancano: Gérald Darmanin, ex ministro degli Interni, oggi alla Giustizia, e il giovane Gabriel Attal, capogruppo alle legislative e protagonista di una rapida rimonta (politicamente insufficiente, però) puntano entrambi all’Eliseo, anche se non sembrano avere le chances di superare il candidato o la candidata del Front National.
Potrebbe farcela però Edouard Philippe, ex presidente del Consiglio, in panchina dal 2020 per lealtà verso Macron che ora potrebbe sostenerlo: anima una sua formazione, Horizons, che gli permette di non apparire appiattito sulle posizioni del presidente. Ha già ufficializzato la propria candidatura.
Molto dipenderà ovviamente dalle mosse dei partiti tradizionali.
Il macronismo è stata una risposta all’obsolescenza delle proposte politiche “novecentesche”, ma non è stato portatore di un approccio realmente nuovo come è stato invece, nel bene e nel male, il sovranismo illiberale di Rn e della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, che condizionano il dibattito.
oco è cambiato per la destra: la sentenza che ha dichiarato incandidabile Marine Le Pen non ha mosso i sondaggi. Gli elettori sono disposti a votare anche Jordan Bardella, presidente di Rn. Le tensioni non mancano, ma sono tutte interne al partito.
La forza elettorale di Rn, intorno al 33%, condiziona molto, e non da oggi, la vita della destra dei Républicains, neogollista, che subisce periodicamente la tentazione di sfidare i lepenisti su loro terreno, anche se gli esiti elettorali non hanno mai premiato questa scelta: non con Laurent Wauquiez alle europee del 2019, non con Valérie Pécresse nelle presidenziali del 2022, né ancora con François-Xavier Bellamy nelle europee del 2024.
Ora ci riprova Bruno Retailleau, ministro degli Interni dall’approccio “muscoloso” sull’immigrazione: i sondaggi sembrano premiarlo, al punto da superare il macroniano Attal al primo turno. Retailleau dovrebbe prevalere su Wauquiez, già ufficialmente candidato, alle primarie del partito.
Ha fatto rumore, negli ultimi giorni, anche la candidatura ufficiale di Dominique de Villepin, ex primo ministro con Jacques Chirac, che ha fondato un nuovo partito, La France Humaniste.
Analogamente a quanto avviene a destra, la sinistra subisce la presenza di Mélenchon. La gauche vince quando si presenta come cartello elettorale unitario, ma le presidenziali alimentano troppo le ambizioni personali: il fondatore di Lfi, che non è ancora candidato, è molto divisivo e il suo impegno diretto impedisce di aggregare le altre formazioni al primo turno, impedendo a tutti di arrivare al secondo.
Non è un caso che oggi si propongano a guidare una coalizione allargata di gauche, con o senza Lfi, tre esponenti di piccole formazioni.
La prima è Clémentine Autain, una dissidente della France Insoumise che è riuscita comunque a farsi eleggere deputata e anima L’aprés (Alliance pour une République écologique et sociale, ma anche: Il dopo); il secondo è François Ruffin, che anima Picardie Debout!, partito populista di sinistra che cerca di differenziarsi da Lfi; il terzo è Raphaël Glucksmann, figlio de
filosofo André, animatore di Place Publique, protagonista delle Europee 2024, quando ha provato a insidiare il secondo posto ai macroniani alla guida del Parti socialiste.
L’idea di un accordo elettorale tra partiti ha già spaccato i socialisti, anche se la maggioranza, non solidissima, è favorevole. Altri partiti non si sono ancora espressi

(da agenzie)

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ACTIONAID SU ACCORDO ITALIA-ALBANIA: “MELONI PRETENDE DI INTERPRETARE IL DIRITTO COME LE FA PIU’ COMODO”

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

DOPO LA BOCCIATURA DELLA CASSAZIONE, FRANCESCO FERRI DENUNCIA LE GRAVI VIOLAZIONI DEI DIRITTI FONDAMENTALI NEI CPR ALBANESI

La Corte di Cassazione ha sollevato pesanti dubbi di costituzionalità sull’accordo Italia-Albania in materia di immigrazione. Secondo quanto emerge dalla relazione sul trattenimento dei cittadini stranieri, ci sarebbero infatti numerosi rischi di violazione dei diritti fondamentali, come il diritto alla salute, alla difesa, alla libertà personale e all’asilo, per le persone detenute nei centri di Gjader e Shëngjin.
Un colpo ulteriore a un protocollo già fortemente criticato da giuristi, ONG e opposizione parlamentare.
Fanpage.it ne ha parlato con Francesco Ferri, esperto di migrazioni per ActionAid e tra i rappresentanti del Tavolo Asilo e Immigrazione, che in questi mesi ha effettuato ben cinque missioni ispettive in Albania insieme a parlamentari italiani, per monitorare da vicino l’attuazione dell’accordo e per ascoltare le testimonianze delle persone trattenute.
La Cassazione ha evidenziato forti dubbi di legittimità sull’accordo Italia-Albania, in particolare per i rischi legati ai diritti fondamentali dei migranti. Quali sono, secondo voi, le criticità più gravi riscontrate sul campo?
Il livello di criticità si articola su due piani, uno generale e uno specifico: a livello generale, contestiamo l’uso strumentale del concetto di giurisdizione. Le persone vengono portate in Albania da navi italiane, sbarcano lì e, pur attraversando territorio albanese, si sostiene che il centro di Gjader sia territorio “sotto giurisdizione italiana”. Questo è un escamotage giuridico che non regge alla prova dei fatti. Di fatto, vengono deportate fuori dal perimetro UE, cosa che contrasta con il
diritto internazionale ed europeo.
E sul piano specifico?
Sul piano specifico, ci sono altre violazioni molto gravi. Penso, ad esempio, al diritto alla tutela legale: i rapporti tra le persone trattenute e i loro legali sono difficilissimi, molto complessi e problematici a causa della distanza geografica, dunque assolutamente sporadici. Si comunicano quasi sempre a distanza, con grosse difficoltà pratiche, e questo impedisce una difesa effettiva. Il diritto alla salute è altrettanto compromesso: abbiamo incontrato persone in condizioni psicofisiche gravissime, sono numerosi i casi di autolesionismo, ci sono stati poi anche tentativi di suicidio. Alcune persone vengono riportate in Italia dopo una visita medica che accerta la loro inidoneità alla vita in un centro come quello di Gjader, ma il problema è che queste valutazioni dovrebbero avvenire prima del trasferimento, non dopo. Un’altra grave violazione riguarda il diritto all’unità familiare: le persone portate in Albania hanno spesso legami stabili e affetti in Italia, in alcuni casi da oltre vent’anni. Il trasferimento spezza tutto questo. E infine c’è la questione del trasporto coercitivo: le persone raccontano di essere state trasferite con fascette ai polsi, usate in maniera generalizzata e non valutate caso per caso; manca persino un provvedimento individuale di trasferimento in Albania, che sarebbe almeno impugnabile: non c’è, quindi non si può nemmeno contestare.
Il governo ha reagito accusando la magistratura di fare un “uso politico della giustizia”. Cosa comporta questo scontro istituzionale per il diritto d’asilo in Italia?
Siamo di fronte a una torsione preoccupante del diritto d’asilo. Già prima dell’attuale governo era stato indebolito, ma oggi c’è un’accelerazione forte. Il governo Meloni sembra ritenere di avere il diritto d’asilo nella propria disponibilità, e di poterlo piegare a esigenze politiche. E il caso Albania lo dimostra: il primo progetto è stato ritenuto incompatibile con il diritto UE, e allora il governo ne ha ideato uno nuovo, ma ancora più in contrasto con le norme vigenti. Il diritto alla libertà personale, ad esempio, è praticamente annullato nel nuovo modello.
Tutto ciò è estremamente grave: grave perché parliamo appunto di diritti delle persone migranti che sono già sottoposte a un processo di precarizzazione molto lungo, è grave poi in generale che nell’architettura dei poteri, uno di questi poteri del governo ritenga di poter piegare il diritto alla luce delle sue esigenze contingenti.
Ci sono ricadute anche sul sistema europeo?
Si, sul piano europeo, la situazione è altrettanto preoccupante: l’Italia sta sperimentando un modello che l’UE non ha formalmente contestato, anche perché c’è in discussione un nuovo regolamento rimpatri (i cosiddetti return hubs) che riprenderebbe la stessa logica. Anzi, in quel caso si ipotizza addirittura che la giurisdizione sia totalmente nelle mani del Paese terzo, quindi non sarebbero applicabili neppure le garanzie UE. È un quadro davvero preoccupante.
Alla luce dei numeri reali molto più bassi rispetto agli annunci, e dei costi sostenuti, si può parlare di un fallimento operativo e politico del progetto?
Sì, senza alcuna esitazione: è un fallimento sia operativo che politico. Il sistema è precario, instabile, raffazzonato. Non solo non ha raggiunto gli obiettivi annunciati, ma nemmeno si avvicina a farlo. Il governo prova a mascherare questa inefficacia manipolando le statistiche. Ricordo quando la Presidente Meloni annunciò che “il prossimo weekend raggiungeremo la soglia di…”: una statistica su un evento futuro, che è quasi comica, nel senso che è tutto un po’ contrario rispetto all’idea di formulare dati che consentono alle persone di
orientarsi. Oppure quando il ministro Piantedosi disse che il 50% delle persone era stato rimpatriato, calcolando questa percentuale dopo aver escluso dal conteggio tutte quelle riportate in Italia perché non idonee: è una forzatura totale dei dati. E poi c’è l’opacità assoluta. Quando andiamo in visita con i parlamentari, la prima domanda che fanno è: “Quante persone sono oggi presenti a Gjader?”. E la risposta delle autorità è: “Non possiamo fornire questo dato”.
Neppure a parlamentari in visita ispettiva?
No, neanche ai parlamentari in visita ispettiva! Questo è appunto emblematico della totale mancanza di trasparenza e rende impossibile capire davvero quante persone siano presenti nei centri, come vi transitino e in che condizioni. Abbiamo cercato di ricostruire questi dati con grande difficoltà, spesso usando metodi artigianali. Ecco perché parliamo della necessità di una trasparenza radicale. Invece, continuiamo ad assistere a un uso estremamente distorto delle statistiche, senza alcuna possibilità di verifica pubblica.

(da Fanpage)

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IN CISGIORDANIA UN CENTINAIO DI ISRAELIANI DEL DISTRETTO DI BINYAMIN, LA FRANGIA PIÙ ESTREMISTA DEI COLONI, HA ASSALTATO LA CASERMA DELL’ESERCITO DELLO STATO EBRAICO

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

NETANYAHU RACCOGLIE QUELLO CHE SEMINATO: ALTRO CHE “UNA VIOLENZA ANARCHICA” E’ LA FECCIA NAZISTA CHE HAI SEMPRE GIUSTIFICATO

Davanti alla base della Brigata regionale Binyamin, a poche ore di distanza dall’attacco di un centinaio di coloni contro l’infrastruttura militare, tutto è tornato normale. «Non è stato nulla, solo un piccolo incidente», minimizza uno degli ufficiali di guardia.
Ma le foto sui social network e quelle diffuse dalle stesse Forze armate israeliane raccontano un’altra storia: nella notte fra domenica e lunedì un centinaio di uomini, donne e ragazzini hanno cercato di entrare nella base, bruciato attrezzature e
danneggiato auto.
I soldati hanno usato spray urticante per allontanare gli intrusi. E così – fatto raro da queste parti – Israele ieri mattina si è svegliato con le ultime notizie dal fronte che più di ogni altro da sempre sceglie di ignorare: la Cisgiordania occupata, quella porzione di territorio che corre lungo la valle del Giordano e che secondo quanto stabilito dagli accordi di Oslo del 1993, in buona parte avrebbe dovuto costituire il cuore dello Stato palestinese. E che invece oggi è abitata da 400 mila israeliani ed è di fatto sotto controllo dell’Idf.
Ad attaccare la base sono stati i coloni della zona che Israele chiama “distretto di Binyamin” a Nord di Gerusalemme, verso Ramallah: un insieme di 47 insediamenti e centinaia di piccoli satelliti in cui si trova Kokhav Ha Shahar, una delle colonie più violente della regione, base dei “giovani delle colline”, la frangia più estrema del movimento delle colonie.
Da giorni, alcuni dei suoi abitanti sono protagonisti di violenze: nella notte fra mercoledì e giovedì avevano attaccato il villaggio palestinese di Kafar Malik. Quando l’esercito era intervenuto, il risultato era stata la morte di quattro palestinesi per mano dei militari.
Il giorno successivo, l’Idf aveva smantellato la colonia satellite da cui era partito l’attacco, scatenando la reazione dei suoi abitanti, che per cinque ore si erano resi protagonisti di scontri con i soldati
Nella notte fra domenica e lunedì la crisi ha raggiunto l’apice, con l’attacco alla base militare per protestare contro i soldati che avevano aperto il fuoco sul ragazzo. Un episodio inaccettabile anche per gli standard dell’attuale governo israeliano, che sul sostegno dell’estrema destra si tiene in piedi: in una nota il primo ministro Benjamin Netanyahu ha parlato di «violenza anarchica» che non rappresenta i coloni, colonna portante della
società.
E sono arrivate anche le rare condanne del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich («I criminali sono criminali ovunque») e di quello della Sicurezza interna Itamar Ben Gvir («Attaccare l’Idf vuol dire varcare una linea rossa»).
Le parole dei due falchi dell’ultradestra hanno fatto infuriare moltissime persone qui, soprattutto in quella parte del Paese che vede nelle colonie e nei loro abitanti uno dei maggiori problemi di Israele oggi.
«Questo governo non ha mai condannato gli attacchi contro i palestinesi in Cisgiordania. Ha sempre consentito ai coloni di vivere al di sopra della legge: ed ecco le conseguenze. Si sentono autorizzati a usare la violenza contro chiunque: il 99% delle volte ci rimettono i palestinesi, qualche volta anche la polizia e l’Idf», tuona Miri Eisin, ex colonnella dell’intelligence e oggi una delle più apprezzate analiste israeliane.
Già nel giugno 2023, in una nota congiunta senza precedenti, i capi delle Forze armate, del Servizio segreto interno e della Polizia israeliana avevano messo in guardia contro l’insorgere di un «terrorismo ebraico» in Cisgiordania: avvertimento andato perduto nel caos post 7 ottobre. Anzi: secondo i gruppi israeliani Peace Now e B’tselem, dal 7 ottobre 2023 i coloni si sono impossessati di più terre palestinesi in Cisgiordania di quanto non avessero fatto nei 20 anni precedenti.

(da agenzie)

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USA, ALTRO CHE “ETA’ DELL’ORO”, CON TRUMP IL DOLLARO CROLLA

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

IN SEI MESI IL BIGLIETTO VERDE HA PERSO L’11%. PEGGIOR RISULTATO DAL 1973

C’era una volta il dollaro forte, valuta di riferimento del villaggio globale e riserva per eccellenza delle banche centrali di ogni latitudine. Dalla Russia alla Cina sino alla stessa Ue molti quel primato sono pronti a rimetterlo in discussione, con obiettivi diversi. Ma forse nessuno si aspettava che l’aiutino più incisivo per indebolire il biglietto verde arrivasse proprio da colui che tornando alla Casa Bianca aveva promesso agli americani «una nuova età dell’oro»: Donald Trump. Nei primi sei mesi del 2025 infatti, ossia di fatto dall’avvio dell’era Trump 2, il dollaro ha perso quasi l’11% in rapporto a un paniere delle principale valute straniere. Martedì 1° luglio l’indice del suo valore è sceso a quota 96, il valore più basso dal febbraio 2022. Un semestre così negativo per il dollaro non si vedeva dal 1973, quando l’allora presidente Usa Richard Nixon «scioccò» il sistema finanziario internazionale sganciando del dollaro dall’oro. Ora la défaillance del biglietto verde Usa pesa su un altro presidente repubblicano, eletto per di più su un’agenda in primis di rivalsa economica globale.
Il calo del valore del dollaro in rapporto a un paniere di valute straniere che comprende euro, yen, sterlina, dollaro canadese, corona svedese e franco svizzero – 1° gennaio/30 giugno 2025 (Christine Zhang / New York Times)
Dazi e debito: l’imbuto di Trump
Tracciare una linea retta di causa-effetto è ovviamente impossibile, ma gli analisti di mercato ritengono che a pesare sulla caduta del dollaro siano in particolari «le preoccupazioni crescenti sull’equilibrio fiscale Usa e l’incertezza commerciale». Ossia l’effetto dei due principali cantieri economici dell’Amministrazione Trump: da un lato la sfida mondiale dei dazi, il cui esito è ancora tutto da scoprire – dopo il varo di tariffe unilaterali shock, poi la loro sospensione e l’apertura di tavoli di negoziati con Paesi e blocchi economici «rivali» come la stessa Ue; dall’altro quel pacchetto di spesa e tagli di tasse chiamato Big Beautiful Bill in queste ore in discussione al Senato che potrebbe gonfiare il debito pubblico federale di oltre 3mila miliardi di dollari, per le ire di Elon Musk e le perplessità anche di una parte dei Repubblicani. Non aiuta di certo infine lo scontro frontale che prosegue da mesi tra la Casa Bianca e la Federal Reserve, che del dollaro è al «timone»: Trump accusa un giorno sì e l’altro pure di lassismo Jerome Powell, spronandolo a procedere coi tagli dei tassi d’interesse: «Come al solito sei in ritardo, hai fatto perdere una fortuna agli Stati Uniti e continui a farlo», lo ha accusato il presidente Usa proprio ieri in una lettera poi spiattellata su Truth. Powell evita di rispondere pubblicamente, ma resiste alle pressioni.
Euro forte: a chi conviene?
Visto dall’Europa, il risultato è che ad apprezzarsi e non di poco è l’euro. Oggi si scambia a 1,1824 dollari, ai massimi da quattro anni. All’inizio del 2025 le due valute erano praticamente in parità. Questo ha effetti diversi a seconda dell’angolo di visuale. Per il turismo, vale come piacevolissimo «sconto» per gli europei che vanno negli Usa, su hotel, ristoranti o shopping vario, mentre gli americani che visitano l’Europa pagano caro il cambio. Sul fronte del commercio transatlantico, stante l’incertezza sui dazi, il dollaro debole è invece un volano per gli
esportatori americani e un fardello per quelli europei. Anche per questo l’euro forte rincuora fino a un certo punto i decisori di politica monetaria del Vecchio Continente. La Bce può gestire un apprezzamento dell’euro sul dollaro fino a 1,20 dollari, ma al di sopra di questa soglia ciò diventerebbe «molto più complicato», ha detto oggi il vicepresidente dell’Eurotower Luis de Guindos in un’intervista a Bloomberg. Bene consolidare l’euro come un «faro di certezze in un mondo dove domina l’incertezza», insomma, come ha detto ieri da Sintra Christine Lagarde, ma se il calo del dollaro si trasformasse in repentino tracollo sarebbe un problema serio per tutti.

(da agenzie)

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CORRUZIONE ALLA REGIONE SICILIA: OLTRE AL PRESIDENTE DELL’ASSEMBLEA, GAETANO GALVAGNO, PUPILLO DI LA RUSSA, È INDAGATA ANCHE L’ASSESSORE REGIONALE AL TURISMO, ELVIRA AMATA, ENTRAMBI DI FDI

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

SECONDO I PM, IN CAMBIO DI FINANZIAMENTI PUBBLICI A GRUPPI E FONDAZIONI, ALCUNI IMPRENDITORI AVREBBERO CORRISPOSTO UNA SERIE DI “UTILITÀ” AI POLITICI E AI LORO COLLABORATORI… L’INTERCETTAZIONE TRA IL SEGRETARIO DELLA AMATO E L’IMPRENDITRICE MARCELLA CANNARIATO: “È UNA ESAGERAZIONE L’IMPORTO”. “NO, ANZI, MI ASPETTAVO QUALCOSA DI PIÙ…”

Non è più solo l’indagine sul presidente dell’Assemblea regionale siciliana Gaetano Galvagno, ma su un sistema di spartizione e corruzione. La procura diretta da Maurizio de Lucia ha messo sotto inchiesta anche l’assessora regionale al Turismo Elvira Amata, pure lei di Fratelli d’Italia e prodiga di finanziamenti per eventi e manifestazioni.
Secondo la ricostruzione del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo, in cambio di finanziamenti a gruppi e fondazioni, alcuni imprenditori amici avrebbero corrisposto una serie di “utilità”. Ai politici e ai loro stretti collaboratori, che erano una sorta di faccendieri dentro i palazzi della politica regionale.
Galvagno aveva al suo fianco la portavoce Sabrina De Capitani, sempre pronta a contrattare incarichi e prebende, ieri si è dimessa. L’assessora Amata aveva invece il suo segretario particolare, Pippo Martino.
L’imprenditrice sotto inchiesta è Marcella Cannariato, la moglie di Tommaso Dragotto (il patron di Sicily by car): avrebbe assunto il nipote dell’assessora Amata e poi avrebbe dato una consulenza legale da 3000 euro al mese a Martino, le fatture venivano fatte dalla figlia con la sua società.
Il sistema della corruzione lo racconta l’imprenditrice palermitana, che non sospettava di essere intercettata dagli investigatori della Finanza: «Ho bisogno del tuo aiuto», diceva la signora Dragotto a Martino, era il 10 novembre 2023. E aggiungeva: «Non è che è gratis l’aiuto tuo». Ancora: «Ho bisogno proprio».
E si davano appuntamento a casa di lei, in orario serale. Martino era soddisfatto: «Abbiamo attivato la punta dell’iceberg… ora parte tutto il resto». Dopo un primo finanziamento per un’iniziativa organizzata da Marcella Cannariato puntavano ad altri contributi pubblici.
Probabilmente, Martino si preparava anche a chiedere di più, l’imprenditrice metteva le mani avanti: «È una esagerazione… l’importo». Martino ribatteva: «Non è un’esagerazione, anzi mi aspettavo qualcosa di più». E l’imprenditrice rilanciava: «Poi ti spiego quello che dobbiamo fare».
Così, il sistema veniva oliato. E oggi, dopo giorni di silenzio e di polemiche, Galvagno si presenta al parlamento siciliano per rappresentare la sua versione dei fatti. Mentre il Movimento Cinque Stelle e il deputato di Controcorrente Ismaele La Vardera chiedono le sue dimissioni.
Le intercettazioni sul presidente dell’Ars sono pesanti: «L’altro giorno mi ha detto — sussurrava Sabrina De Capitani — mi è scappata la molla, quella del mondo degli eventi, effettivamente per me è un bacino di lavoro». Sabrina De Capitani diceva anche altro: «L’ho voluto a casa con me, perché così io conosco i suoi segreti… e il segreto è potere».
(da La Repubblica)

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VOLANO GLI STRACCI TRA GIULI, LO STORDITO DAL “PENSIERO SOLARE” E DAL “DIO PAN” E LA SOTTOSEGRETARIA LEGHISTA BORGONZONI E VIENE CACCIATA CHIARA SBARIGIA DALLA PRESIDENZA DI CINECITTÀ (INVISA A GIULI)

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

IL PARADOSSO: LA LITE E’ TRA UN EX ESTREMISTA DI MERIDIANO ZERO E UNA EX FREQUENTATRICE DEI CENTRI SOCIALI DI BOLOGNA, CHE PERSONAGGI…

Ne resterà solo uno. E pazienza se nel frattempo il cinema italiano muore, ucciso da riforme sbagliate, risse tra alleati di governo, teste mozzate per dispetto.
Un delitto perfetto. Figlio della guerra tra il meloniano Alessandro Giuli — ministro della Cultura intesa come motore della nuova egemonia tricolore (nel senso di fiamma) — e la sottosegretaria leghista Lucia Borgonzoni.
Ormai non più soltanto dichiarata, avendo già fatto la prima vittima sul campo: Chiara Sbarigia, presidente di Cinecittà sino all’altro ieri quando, col favor delle tenebre, ha rassegnato le sue dimissioni dal vertice dell’azienda controllata al 100% dal Tesoro.
Uscita all’improvviso — peraltro a poche ore dalla visita di Giuli ai cantieri aperti negli Studios grazie ai fondi del Pnrr — ufficialmente per occuparsi d’altro, evitare il potenziale conflitto di interessi fra la carica appena abbandonata e la presidenza dell’Apa, l’associazione dei produttori dell’audiovisivo.
In realtà, capro espiatorio di un conflitto senza esclusione di colpi fra Fratelli d’Italia e Lega per il predominio di un settore
considerato strategico per costruire consenso e cambiare segno all’immaginario nazional-popolare, fin qui ritenuto appannaggio di una certa sinistra.
Non si sono mai presi, Giuli e Borgonzoni. Differenze caratteriali, oltre che di appartenenza. Ennesimo capitolo di una frattura in seno all’esecutivo che rischia di compromettere un’industria, quella cinematografica, che è uno dei comparti trainanti del made in Italy. Prenderne il controllo significa esercitare un grande potere: prerogativa che né il ministro, né la sottosegretaria intendono cedere.
E su cui sin da subito iniziano a litigare. In principio sottotraccia. Fino a un mese fa, quando lo scontro deflagra: in un’intervista a Libero Borgonzoni scarica sul ministro il ritardo nell’erogazione dei finanziamenti e lo stallo sulla revisione del tax credit.
La risposta è feroce: Giuli prova a estrometterla dal tavolo di confronto con attori e registi.
Beghe consumate alla luce del sole, in un quadro di maldicenze reciproche spifferate ai giornali e di veleni riversati nei corridoi ministeriali che rendono il clima irrespirabile.
Una guerra di nervi, prima che politica. Che l’inquilino del Collegio romano decide di risolvere a modo suo. Picconando pezzo dopo pezzo il sistema di relazioni costruito dalla sottosegretaria nella sua ormai decennale veste di delegata al Cinema.
Cominciando dal luogo più simbolico: Cinecittà. Dove, nella spartizione fra partner di maggioranza, FdI ha piazzato come amministratore delegato Manuela Cacciamani, vicina ad Arianna Meloni, mentre la Lega ha confermato Sbarigia, insediata alla presidenza da Dario Franceschini ma da sempre in ottimi rapporti con Borgonzoni.
Asse che Giuli sceglie dunque di spezzare in fondo a un ultimo
giro di articoli che svelano le trame di “Lucia e Chiara” per mettere il ministro in cattiva luce e far fare bella figura alla sua vice.
E così, mercoledì scorso, proprio mentre a Riccione si celebrava la settimana della fiction italiana officiata dalla leghista che lì ha il suo collegio elettorale, la presidente di Cinecittà viene convocata con urgenza a Roma. Al ministero. Dove il medesimo Giuli, la capo di gabinetto Valentina Gemignani e il capo segreteria Emanuele Merlino imbastiscono un processo contro Sbarigia e le chiedono di fare un passo indietro.
Imputazione? Aver passato notizie segrete e “interessate” a Dagospia, per di più foraggiato con laute pubblicità pagate dall’azienda con soldi pubblici (per la precisione 26.500 euro per il progetto speciale “Promozione cinema” del 2024, ndr).
E a nulla valgono le proteste dell’accusata che prova a spiegare come quella campagna fosse stata autorizzata da Sangiuliano, tanto più che iniziative del genere non sono certo una novità.
Né serve l’offerta sì di lasciare ma più in là, dopo l’approvazione del bilancio, così da consentire una transizione ordinata. Per Giuli la sentenza è già scritta: deve andare via. E se non con le buone, intende riuscirci con le cattive.
Perciò alza il telefono e chiama Matteo Salvini. Per dirgli, più o meno: o Sbarigia leve le tende o io tolgo le deleghe a Borgonzoni. Il capo della Lega non può far altro che dare il benservito all’una per tenersi l’altra. Tutto è bene quel che finisce bene? Manco per idea. Il primo round lo vince Giuli. Ma la guerra per il cinema è tutto fuorché conclusa.

(da La Repubblica)

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LA TRAPPOLA RUSSA PER I RAGAZZINI UCRAINI, MANDATI A MORIRE PER MILLE DOLLARI

Luglio 1st, 2025 Riccardo Fucile

I BABY KAMIKAZE CHE NON SANNO DI ESSERLO… L’INCHIESTA DEL GUARDIAN

Mille dollari per fare esplodere un ordigno davanti alla stazione di polizia, o altri luoghi che, durante una guerra, possono rappresentare obiettivi sensibili.
Con questa sorta di offerta di lavoro con cui l’intelligence russa starebbe reclutando sempre più giovani dell’Ucraina occupata dalle truppe di Mosca. Annunci in cui però viene ben taciuto che si tratti di veri e propri attentati terroristici in cui il rischio di perdere la vita è altissimo. È questa una specie di «guerra parallela» emersa da un’inc
hiesta del Guardian, che coinvolge giovani ucraini, spesso minorenni che hanno estremo bisogno di denaro. L’indagine del quotidiano britannico è stata svolta anche con interviste ai giovani inconsapevoli terroristi, finiti nelle carceri ucraine dopo un tentativo di attentato. Finora i casi sono stati almeno 12.
Dall’annuncio su Telegram alla consegna della bomba a loro insaputa
Il meccanismo di reclutamento seguiva una prassi ormai consolidata. I ragazzi al massimo di 20 anni rispondono ad annunci russi che circolano su Telegram. La paga, rispetto all’impiego, è buona. Di solito si chiede la disponibilità di una mezza giornata per circa mille dollari di retribuzione. Il compito più comune richiesto è quello di ritirare uno zaino lasciato da un altro operatore in un punto preciso e trasportarlo fino al luogo dell’attacco. Il lato più tragico della vicenda è che, molto spesso, i ragazzi che rispondono all’annuncio non sanno che nei borsoni che dovranno trasportare c’è una bomba. Ordigno spesso artigianale e pronto a esplodere, che rende i giovani reclutati di fatto attentatori terroristici suicidi. Per cercare di contrastare il reclutamento di adolescenti per tali compiti, gli 007 ucraini hanno avviato un programma di sensibilizzazione nelle scuole, per mettere in guardia bambini e ragazzi dal pericolo di accettare soldi da sconosciuti su Telegram. Un problema connesso a queste forme di reclutamento è che sono difficili da tracciare e quindi da prevenire.
L’inizio del sabotaggio russo la scorsa primavera
La campagna di sabotaggio della Russia in vari punti dell’Ucraina è iniziata la scorsa primavera, ha detto al Guardian il portavoce della Servizio di sicurezza ucraino (Sbu) Artem Dekhtiarenko. La Sbu ha detto di aver arrestato più di 700 persone dall’inizio del 2024 per sabotaggio, incendio o terrorismo. Molti di loro sono disoccupati, o hanno bisogno di soldi per sopperire dipendenze dalla droga, ma circa un quarto di loro sono adolescenti, la più giovane a oggi è una bambina di 11 anni della regione di Odessa. l primi sono stati attacchi incendiari contro veicoli militari, uffici di leva e uffici postali. Per provare di aver portato a termine la missione, i ragazzi
dovevano registrare un video dell’incendio con i loro telefoni.

(da agenzie)

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