Destra di Popolo.net

L’ISOLA DELLE TANGENTI: ORA DITECI CHI VI PAGA

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

RENZI INTERCETTATO PER CASO MENTRE PARLA CON UN GENERALE GDF

L’inchiesta di Napoli ci svela che Massimo D’Alema e Matteo Renzi sono diversi ma hanno una cosa in comune: l’uso di una fondazione per raccogliere i soldi e i servizi utili per fare politica senza nessun obbligo di dichiarare i finanziatori nè di spiegare come hanno speso i soldi così raccolti.
I contributi annuali a un partito o a un parlamentare, sopra i 5 mila euro, devono essere sempre dichiarati alla Camera di appartenenza.
Anche le entrate e uscite in campagna elettorale devono essere rendicontate a pena di sanzioni. Se un parlamentare incassa 60 mila euro o si fa pagare le spese del suo telefonino da un privato deve quindi dichiararlo.
Massimo D’Alema non è indagato nell’inchiesta     sulla metanizzazione di Ischia.
Però fa una pessima figura perchè la sua Fondazione incassa 60 mila euro dalla coop rossa Cpl Concordia che compra libri e vini dalemiani.
Matteo Renzi non è nemmeno citato negli atti depositati ieri, ma al Fatto Quotidiano risulta che è stata intercettata dal Noe dei carabinieri una sua conversazione con un importante generale della Guardia di finanza, Michele Adinolfi.
Le conversazioni in questione, comprese quelle del sottosegretario alla presidenza Luca Lotti con il generale, sono state trasferite a Roma in un fascicolo senza ipotesi di reato e senza indagati destinato all’archivio senza nemmeno un’ipotesi di reato contro ignoti. Però in quel fascicolo c’è una notizia giornalistica: il telefonino usato da Matteo Renzi era ed è pagato dalla Fondazione Big Bang, fondata da Marco Carrai nel febbraio 2012 e che ora ha cambiato il nome trasformandosi nel novembre 2013 in Fondazione Open.
La fondazione   è finanziata da donazioni di privati rese pubbliche in ottemperanza al verbo renziano dell’open data, salvo che i donatori non chiedano l’anonimato.
Cosa che accade spesso.
“Il telefonino fu dato a Renzi”, spiega il presidente di Fondazione Open Alberto Bianchi, “al momento in cui iniziò l’attività  connessa alle primarie e alle varie Leopolda, in cui la Fondazione è stata coinvolta”.
Negli atti dell’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia infine è citato un terzo big del Pd: il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, Marco Minniti.
In una telefonata uno degli arrestati, Francesco Simone, si interroga su chi sia la persona giusta per raccomandare un suo amico, “appena laureato carabiniere a Vicenza” che voleva entrare nei servizi segreti: “D’Alema o Minniti?”.
In un secondo passaggio in parte omissato dell’ordinanza il gip Amelia Primavera fa riferimento a una seconda fondazione citata da Simone, difeso dall’avvocato Maria Teresa Napolitano.
Scrive il gip: “Simone proferisce, in riferimento alla quota associativa da pagare ad un’altra fondazione (della quale, per ragioni investigative, si omette la denominazione): ‘dobbiamo pagarlo perchè ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento”.
Chissà  qual è la Fondazione misteriosa.
L’ordinanza riporta conversazioni telefoniche di Simone con Giovanni Santilli, vicesegretario generale della Fondazione Icsa, legata al mondo militare e dei servizi e oggi guidata dal generale dell’Aeronautica Leonardo Tricarico ma in passato presieduta da Minniti.
Le indagini del pm Henry John Woodcock disegnano un ritratto inedito dell’ex leader della sinistra italiana e della sua Fondazione Italianieuropei.
La coop rossa Cpl finanziava la Fondazione, comprava libri e vino marchiati “D’Alema” con l’intento, dichiarato nelle intercettazioni, di ottenere l’appoggio di un uomo potente che, secondo i manager della società , sarebbe potuto di lì a poco diventare commissario europeo.
Massimo D’Alema ieri era infuriato con la stampa e con i pm di Napoli: “La diffusione di notizie e intercettazioni che non hanno alcuna attinenza con le vicende giudiziarie di cui si occupa la procura di Napoli è scandalosa e offensiva”.
Però quando la Cpl donava 60 mila euro e comprava vino e libri al fumantino ex premier non è venuto un dubbio?
Simone dice che bisogna “investire negli Italiani Europei” in quanto “D’Alema mette le mani nella merda come ha già  fatto con noi ci ha dato delle cose”.
Simone dice: “È molto più utile investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo capito … D’Alema mette le mani nella merda come ha già  fatto con noi ci ha dato delle cose”.
Scrive il gip che presso Cpl venivano sequestrati “tre dispositivi di bonifici effettuati dalla Cpl in favore della Fondazione Italiani Europei, ciascuno per euro 20 mila, un ulteriore bonifico dell’8 luglio 2014 per 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo: Non solo euro”.
Qquando Simone scopre che sui libri di D’Alema, la Fondazione fa solo uno sconto del 10% si lamenta: “Se questi soldi andassero alla Fondazione mi starebbe bene… ma vanno alla casa editrice” .
E la segretaria della Fondazione replica: “Vanno alla Fondazione”.
Simone, interrogato da Woodcok, ha spiegato: “Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema tuttavia fu Massimo D’Alema in persona in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente (allora a capo di Cpl Concordia, ndr) Casari, a proporre l’acquisto dei suoi vini”.
Replica D’Alema: “Non ho avuto alcun regalo ed è ridicolo definire l’acquisto di 2000 bottiglie di vino in tre anni come un ‘mega ordine’ peraltro fatturato e pagato con bonifici a quattro mesi”.

Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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SCEMO CHI NON LEGGE

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

TANTI EPISODI CORRUTTIVI SONO STATI ANNUNCIATI

Non è il massimo della vita fare ogni giorno le cassandre e i grilli parlanti, specie se tutto intorno è un concerto per violini, pifferi, tromboni, grancasse e tricchetracche. Sarebbe bello poter dire, una volta tanto, che va tutto bene, o almeno ci andrà .
E risparmiarci i ritornelli del Farinetti di turno: “Ma voi vedete sempre il brutto dappertutto!”.
Come se lo facessimo apposta, se ci fosse bisogno di scavare, per trovarlo.
Per un anno, soli soletti, abbiamo scritto che l’Italicum e il nuovo Senato sono due schiforme perchè espropriano un’altra volta i cittadini del diritto di scegliere i propri rappresentanti e consegnano le istituzioni (che sono di tutti) nelle mani di uno solo, il premier-padrone.
Ora che forse è tardi (ma forse no, se chi dissente si decide a votare contro in Parlamento, anzichè ciarlare in tv), lo dicono pure la minoranza Pd e persino i costituzionalisti Onida, Ainis e De Siervo, finalmente liberati dall’armatura corazziera dell’èra Napolitano.
Qualcuno parla addirittura di rischio autoritario: peccato che quando noi rilanciammo l’allarme di Zagrebelsky e Rodotà  nel famoso appello di Libertà  e Giustizia di un anno fa, e l’estate scorsa raccogliemmo le firme di 350 mila lettori, venissimo guardati come marziani o come visionari.
Quante volte, in beata solitudine, abbiamo scritto che le decine di “fondazioni” di leader e sottoleader sono casseforti opache e antidemocratiche: aggirano la legge sul finanziamento ai partiti e nascondono ai cittadini i finanziatori con la scusa della privacy, esattamente come le cene elettorali di cui non si può sapere chi partecipa, e chi versa, e quanto, perchè bisogna tutelarne la sacra riservatezza.
L’abbiamo scritto sulla fondazione Fare Metropoli di Filippo Penati, l’abbiamo ripetuto sulla fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, l’abbiamo riscritto sulle collette gastronomiche e la fondazione Big Bang di Renzi & Carrai: attendiamo ancora risposte, intanto Penati è sotto processo (per i pochi reati scampati alla prescrizione regalata dalla legge Severino) e l’inchiesta napoletana di ieri cita anche finanziamenti e strane attività  di Italianieuropei (che comprava libri e vini del Conte Max) e di BigBang (che pagava il cellulare a Renzi quand’era sindaco).
Renzi e il Pd, come già  per Incalza (oggetto di numerosi articoli del Fatto in tempi non sospetti), non possono cadere dalle nuvole sui maneggi del sindaco di Ischia Giuseppe “Giosi” Ferrandino.
Un anno fa, quando preparavano le liste per le Europee, pubblicammo vari articoli sugli inquisiti da non candidare.
Tra questi c’era Ferrandino, rinviato a giudizio per falso ideologico e abuso d’ufficio per aver disboscato una collina per costruire una caserma della Forestale, deputata proprio a combattere gli scempi ambientali.
Il Pd se ne fregò e anzichè chiedergli di dimettersi da sindaco, lo candidò al Parlamento europeo, per fare vetrina a Bruxelles e a Strasburgo assieme a Renato Soru, imputato per reati fiscali, e a un’altra infornata di inquisiti.
Per fortuna, Ferrandino risultò primo dei non eletti.
Da ieri è in galera e la vice-segretaria Serracchiani dice di non conoscerlo: possibile che non sappia chi candida il suo partito?
Se ci avessero letti con più attenzione, e avessero provveduto di conseguenza, lorsignori non si ritroverebbero ora alle prese con candidati impresentabili tipo De Luca (alle Regionali in Campania) e Crisafulli (alle Comunali a Enna) e con i sottosegretari imbarazzanti Barracciu, Faraone, De Filippo, Castiglione (indagati), Nencini e De Caro (citati da Incalza come scelti da lui, ma inspiegabilmente al loro posto a differenza del ministro Lupi).
Per non parlare della pantomima di Agrigento, dove le primarie del Pd le ha vinte un raro esemplare di forzista incensurato, ora annullate per candidare Angelo Capodicasa, il dinosauro pidino che governò la Sicilia dal 1998 al 2000, pappa e ciccia con Totò Cuffaro.
Certo, non è molto popolare scrivere ogni giorno ciò che gli altri non scrivono.
E non è molto piacevole sentirsi insultare sia dai delinquenti, sia da chi dovrebbe combatterli.
Quando Lillo scrisse che Renzi doveva scegliere fra Cantone e Incalza, quest’ultimo chiamò sua figlia e disse: “Sul Fatto Quotidiano c’era un articolo in cui dice ‘Cantone, Incalza è il tuo problema’, con la fotografia di Scajola e mia… Ma a uno come Marco Lillo, a questo punto, l’unica cosa che gli possiamo fare… del male fisico, non lo so”. Anche due uomini della coop Cpl Concordia indagata ieri a Napoli ci onorano di una citazione per esserci occupati di loro un anno fa: “Ma questo bollettino qua, il Fatto Quotidiano, è il bollettino della magistratura… di una corrente della magistratura, di Magistratura democratica!”.
Per noi sono tutte medaglie. Ma sono anche la prova che tenere alla larga certi soggetti prima che arrivino i carabinieri non è poi così difficile.
Purchè lo si voglia.
Il punto è proprio questo: è ancora possibile una politica senza delinquenti?
A giudicare dalla nuova fregola di bavaglio alla stampa (proprio sulle intercettazioni) che pervade la maggioranza, da Renzi ad Alfano col solito soccorso azzurro, si direbbe di no.
A vedere la piazza di sabato sotto il palco di Landini e le battaglie magari sgangherate ma pulite dei 5Stelle in Parlamento per una vera Anticorruzione, si direbbe di sì.     Forse un giorno lo stesso Renzi, che è tutto fuorchè fesso, capirà  che i gargarismi sulla presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva non hanno senso per chi fa politica, e tantomeno per chi governa.
Bisogna arrivare prima della Cassazione. Si guardi 1992 per un ripasso.
La rottamazione non basta sbandierarla, bisogna farla.
Se no te la fanno i carabinieri. E prima o poi si portano via anche te.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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RENZI PREPARA IL NUOVO MANUALE DELLE GIOVANI MARMOTTE: ARRIVA LA SUA “CONTROFFENSIVA CULTURALE”

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

IL CAPOSCOUT: “NON LASCIO AD ALTRI LA (CORSIA DI) SINISTRA”… E PENSA AI GIORNALI: FORSE SI RICORDA DI QUANDO LI DISTRIBUIVA SENZA LEGGERLI

Sentire parlare Renzi di cultura politica fa l’effetto di un ateo che riceve la comunione la domenica o, se preferite, di un pregiudicato che pretende di aver la fedina penale pulita.
Formatosi distribuendo giornali per conto del padre ma non leggendo certo la “terza pagina”, Renzi ha la sua base culturale nel “manuale delle giovani marmotte”: quello che peraltro, da caposcout, non gli aveva evitato di far perdere nel bosco, per una intera notte, il gruppo che guidava.
Ora che Landini ha riscoperto il termine “sinistra”, ecco che, come i bambini spocchiosi e viziati, Matteo strilla che il giocattolo è suo e lo rivuole indietro.
Non l’aveva mai usato al parco, ma fa nulla: lui ha notoriamente il senso della proprietà  di Squinzi con cui ama giocare sullo scivolo.
E così ieri alla direzione Pd (quella degli ex imborghesiti che hanno paura a contraddirlo altrimenti azzera loro la paghetta di mamma)   ha annunciato la sua “controffensiva culturale” all’insegna del motto araldico “Io non lascio la parola sinistra agli altri”.
Da bulletto di provincia, prima la precisato che “la coalizione sociale non mi toglie il sonno ma occorre una riflessione su come è stata la sinistra in Italia: mai maggioritaria”.
Ragionamento di gran livello: forse che la sua “sinistra” sarebbe mai stata maggioritaria se una legge truffa non permettesse a chi ha avuto il 40% del 60% dei votanti (quindi il 24% degli italiani) di governare come se avesse il 55% dei consensi?
Poi Renzi va oltre e distilla questa perla: “se la politica diventa uno scontro ideologico e se gli togli la capacità  di decidere, diventa solo una rappresentazione mediatica che nulla ha a che fare con la realtà ”.
In pratica ha dipinto se stesso: nessuna radice, autoritarismo e bluff mediatico, i tre capisaldi del nuovo libretto delle Marmotte.
Nessuna visione del modello di società , nessun riferimento politico, nessuna casa madre da rivendicare (lui stava pure in affitto a scrocco da Carrai, che volete gliene freghi della casamadre…), l’importante è correre verso il nulla, decidere secondo la sua convenienza, stroncare chi si permette di dissentire, vendere pentole bucate e materassi in tv per far addormentare meglio un popolo che è già  poco sveglio di suo.
La summa teologica del renzismo è tutta qua, ma ora, ricorda il bullo, “occorrono strumenti culturali, l’Unità  che rinasce servirà  per questo:   per avere luoghi di discussione al nostro interno”.
Esilarante detto da uno che non ammette il dissenso nemmeno all’interno del suo partito.
Poi spiega: “Essere di sinistra non è difendere un simbolo ma le persone, io sono per una sfida culturale su questo”.
Concetto non solo di una banalità  impressionante, ma pure rischioso.
Difendere chi?
Sono persone anche i corrotti, i mafiosi, i tangentari, i politici capibastone nominati dai vertici, le oche del villaggio portate in parlamento, gli evasori fiscali, i pedofili, i criminali, i grandi speculatori finanziari, gli inquinatori.
Suvvia Matteo, ogni tanto fatti consigliare da qualcuno che di politica ne capisca, non solo dalle lobbie economiche che ti hanno scelto dopo averti visto alla Ruota della fortuna.
Perchè la ruota gira.
E chi sale troppo in alto, quando cade si fa parecchio male.

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LE PALLE DI RENZI, A FEBBRAIO 23 MILA DISOCCUPATI IN PIÙ: MA NON ERA FINITA?

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

IL TASSO A FEBBRAIO RISALE AL 12,7% E PER I GIOVANI AL 42,6%

Renzi e Poletti hanno cantato vittoria troppo presto. Febbraio riconsegna il Paese alla cruda realtà  di una crisi durissima da superare.
Dopo un dicembre e un gennaio positivi, si interrompe il calo della disoccupazione e la curva riprende a salire. Aumenta anche il tasso di disoccupazione fra i giovani. In calo gli occupati.
Dopo la crescita del mese di dicembre e la sostanziale stabilità  di gennaio, l’Istat rileva che a febbraio 2015 gli occupati diminuiscono dello 0,2% (-44 mila).
Il tasso di occupazione, pari al 55,7%, cala nell’ultimo mese di 0,1 punti percentuali. A febbraio 2015 il numero di occupati rimane sostanzialmente stabile rispetto a gennaio per la componente maschile mentre diminuisce per quella femminile (-0,4%). Lo stesso andamento si osserva per i tassi di occupazione: il tasso di occupazione maschile, pari al 64,7%, rimane stabile mentre quello femminile, pari al 46,8%, diminuisce di 0,2 punti percentuali.
I disoccupati aumentano su base mensile dello 0,7% (+23 mila).
Dopo il forte calo registrato a dicembre, seguito da un’ulteriore diminuzione a gennaio, a febbraio il tasso di disoccupazione sale di 0,1 punti percentuali, tornando al 12,7%, lo stesso livello di dicembre e di 0,2 punti più elevato rispetto a febbraio 2014. Nei dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 2,1% (+67 mila).
L’aumento della disoccupazione osservato nell’ultimo mese è determinato dal maggior numero di donne in cerca di occupazione (+2,1%) mentre per gli uomini si registra un calo di minore entità  (-0,5%).
Il tasso di disoccupazione rimane stabile all’11,7% per gli uomini mentre per le donne sale al 14,1% (+0,3 punti percentuali).
Tra i giovani, a febbraio 2015 gli occupati segnalano un calo rispetto a gennaio, a fronte di un aumento della disoccupazione e dell’inattività .
Gli occupati 15-24enni diminuiscono del 3,8% rispetto al mese precedente (-34 mila). Il tasso di occupazione giovanile, cala di 0,6 punti percentuali, portandosi al 14,6%. Il numero di giovani disoccupati, aumenta dell’1,7% su base mensile (+11 mila). L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età  è pari al 10,8% (cioè poco più di un giovane su 10 è disoccupato).
Tale incidenza cresce nell’ultimo mese di 0,2 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati) è pari al 42,6%, in crescita di 1,3 punti percentuali rispetto al mese precedente.
Dal calcolo del tasso di disoccupazione sono esclusi i giovani inattivi, cioè coloro che non sono occupati e non cercano lavoro, nella maggior parte dei casi perchè impegnati negli studi. Il numero di giovani inattivi è in aumento dello 0,5% nel confronto mensile (+20 mila).
Il tasso di inattività  dei giovani tra 15 e 24 anni cresce di 0,4 punti percentuali, arrivando al 74,6%.
Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni mostra un lieve incremento nell’ultimo mese (+0,1%), rimanendo su valori prossimi a quelli dei due mesi precedenti.
Il tasso di inattività  si mantiene stabile al 36,0%, contro il 36,4% di febbraio 2014. Su base annua gli inattivi diminuiscono dell’1,4% (-204 mila).
I dati Istat arrivano nel giorno in cui cala la disoccupazione in Germania.
A marzo il tasso di disoccupazione è sceso al 6,4% rispetto al 6,5% della passata rilevazione e delle attese del mercato.
Il numero dei senza lavoro è diminuito di 15 mila unità . Sono invece 42,5 milioni gli occupati.

(da “Huffingtonpost”)

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“LA DITTA NON C’E’ PIU'”: L’OPPOSIZIONE EVOCA LA SCISSIONE

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

I NUMERI DELLA MAGGIORANZA E IL VOTO DI FIDUCIA

La Ditta non esiste più, «non a caso ieri non l’ha nominata nessuno», osserva Pippo Civati.
La tenuta del Partito democratico stavolta è davvero a rischio, non funziona più l’antico slogan coniato da Bersani per indicare la fedeltà  alla linea, sempre e comunque.
Roberto Speranza mette in guardia: «Rischiamo di perdere un pezzo del Pd. Ma io credo ancora in una soluzione».
Sembra essere l’unico a sperare in un lieto fine. O almeno in una tregua.
«Non c’è più il Pd che abbiamo costruito – drammatizza Alfredo D’Attorre –. Di conseguenza non c’è più la Ditta. Renzi non ha nemmeno replicato al dibattito in direzione. Significa che ha già  deciso ed è tutto finto, roba buona solo per lo show in streaming».
Finto o finito? La minoranza non ha partecipato al voto sulla legge elettorale.
Il premier non ha lasciato margini di trattativa e in questo modo i dissidenti si tengono le mani libere per la discussione in aula.
Se l’Italicum è la madre di tutte le battaglie per Renzi, lo è diventata anche per i ribelli.
«Io non so se chiamarla scissione – spiega Civati –. So che adesso tutti quelli che si oppongono al segretario hanno capito che i margini della trattativa sono nulli. Chiamiamola rottura, chiamiamola spaccatura. Comunque il Pd è più diviso di ieri. Lentamente si vede che una parte dei nostri elettori non ci segue più. Forse è il 10 per cento, forse il 5. Ma è una massa, piccola o grande che sia, in fuga. Per loro la scissione è già  cominciata. Hanno capito prima di noi parlamentari che non si può dialogare con Renzi».
Se è una conta, i numeri sono decisivi.
Le minoranze unite, che ieri hanno dato un primo timido segnale di compattezza evitando di votare in direzione, stanno valutando le truppe di cui dispongono alla Camera.
Il dato oscilla tra 100 e 110 deputati, un terzo del gigantesco gruppo parlamentare, un piccolo esercito sufficiente a mandare sotto il governo e a rovinare i piani di Renzi: approvare l’Italicum prima delle regionali dribblando un possibile ritorno del testo al Senato.
Ora Fassina dice che il loro “no” all’Italicum non influisce sul governo, non lo indebolisce perchè «le materie di rango costituzionale vivono di vita propria». Figurarsi.
Non è quello che pensa Renzi, il quale affida alle sorti della legge quelle del governo e della legislatura. Ovvero, se si verifica un incidente in aula si torna a elezioni.
E non ci crede tanto neppure Fassina che evocando lo slogan bersaniano lo rottama: «La Ditta funziona quando il capo sa ascoltare davvero, oltre che decidere».
Se il capo si comporta come Renzi, l’azienda si scioglie. O diventa un’altra cosa.
La battaglia dell’Italicum punta, nelle intenzioni della minoranza, a dimostrare che il Pd ha subito una «mutazione genetica».
L’occasione è proprio il voto in aula. Nel caso arrivasse il soccorso azzurro di una ventina di deputati fedeli a Denis Verdini, nostalgico del patto del Nazareno, sarà  la prova che il Partito democratico si è spostato verso la destra più invisa a un certo elettorato.
È il modo per dimostrare che a sinistra lo spazio si allarga e si può costruire qualcosa. Semmai, la scissione la fa Renzi accettando la stampella di Verdini.
In un clima incandescente, sul terrazzo della sede Pd da cui si accede alla sala della direzione, il premier viene accusato delle peggiori intenzioni.
«Si tiene aperte due caselle ministeriali (Affari regionali e Infrastrutture ndr) promettendo posti a tutti per guadagnarsi il favore di pezzi di minoranza », dice un bersaniano.
Altri sospettano una “compravendita” di deputati. Esplicitamente insinuano il dubbio che voglia andare a elezioni presto, lasciando da parte la riforma costituzionale.
A Speranza, in un incontro recente, Renzi ha spiegato che basta una decreto ministeriale per estendere l’Italicum anche al Senato non riformato. «Ecco, appunto», chiosa il bersaniano.
Le minoranze si preparano a usare tutte le cartucce. Compreso il richiamo a Sergio Mattarella, extrema ratio di una lotta feroce.
«Renzi ci ha sempre chiesto di fidarci di lui – ricorda Francesco Boccia –. Stavolta sia lui a fidarsi di noi, del Pd».
Sono i tentativi finali di trovare un compromesso, contando su una marcia indietro del premier alla vigilia del voto in aula, previsto dopo il 27 aprile.
Speranza, leader di Area riformista, proverà  fino in fondo. Chiede 20 giorni di tempo per decidere. Mette a disposizione la sua poltrona di capogruppo, se è un problema di teste da tagliare.
Cuperlo garantisce una solidità  del voto al Senato in cambio di modifiche condivise che riportino il testo a Palazzo Madama.
Posizione distinte sulle quali i renziani contano per spaccare il fronte del no e avere i voti necessari subito.
Ieri, a fatica, è passata la proposta di Civati che ha portato tutte le minoranze a astenersi dal voto in direzione: «A suo modo ha funzionato perchè è stata finalmente una giornata di chiarezza ».
Ma le carte sono tutte da giocare. Anche quella del voto di fiducia che ieri Renzi non ha smentito.
E che ridurrebbe la quota 100 dei dissidenti a numeri molto inferiori. Ma lascerebbe lo stesso una ferita insanabile.

Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)

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RENZI TRAMORTISCE LA MINORANZA E PENSA GIÀ A FAR FUORI LANDINI

Marzo 31st, 2015 Riccardo Fucile

LA DIREZIONE PD Dà€ LA “FIDUCIA” ALL’ITALICUM… GLI OPPOSITORI NON VOTANO

In maniche di camicia (bianca) e jeans d’ordinanza, seduto al banco della presidenza, Matteo Renzi guarda lo smartphone mentre la direzione Pd vota la “fiducia politica” all’Italicum.
Non solo non tradisce preoccupazione, ma neanche prende in considerazione le reazioni e le richieste della minoranza del Pd: tant’è vero che si risparmia pure la replica.
È un sì all’unanimità . La minoranza, come annunciato, non vota.
I sì sono120 su circa su circa 200 (si contano una ventina d’assenze, tra cui Bersani e D’Alema).
Il segretario-premier, dopo aver annientato il dissenso in un intervento fiume di sfondamento, è già  “oltre”: come avversario vede praticamente solo Maurizio Landini.
“Anche tu sei diventato un soprammobile da talk show”, gli dice (in diretta streaming nazionale), rimproverandogli di non sapere cosa c’è nella legge di stabilità . “La coalizione sociale io non la sottovaluto. Ma non rappresenta il futuro e neanche il passato della sinistra. È un tentativo che sarà  respinto dalla realtà ”.
È “una sfida” che “non mi toglie il sonno”. Ma che evidentemente richiede una riflessione e non lo lascia così indifferente.
“Io non lascio la parola sinistra solo a chi la usa con più frequenza”, dice Renzi. Partendo da questa premessa lancia la “sua” coalizione sociale: “Organizziamo tra luglio e settembre un grande dibattito pubblico, con soggetti culturali ed educativi, sulla sinistra in Italia, in Europa e nel mondo”.
Strumento ne sarà  la nuova Unità  (in edicola da fine aprile). Ostenta indifferenza, Renzi.
Ma Landini è un elemento politico da tenere in considerazione. Mentre Salvini ormai è più che derubricato (anche lui a fenomeno televisivo) e Beppe Grillo da “spauracchio è diventato sciacallo”.
Questo, se è per l’opposizione esterna. Se è per quella interna, ieri il segretario ci è andato giù pesante.
Niente dibattito supplementare sulla legge elettorale, niente ritocchi: Renzi vuole l’Italicum a fine maggio. E ieri ha messo di fronte alla minoranza una serie di argomenti “scomodi”.
A partire dal ruolo avuto nella “defenestrazione” di Letta: un voto compatto di tutto il Pd in direzione, con l’alibi sullo sfondo della legge elettorale che non si riusciva a fare: “Non c’è stato qualcuno che ha scelto di staccare la spina al governo precedente. Non riusciva ad andare avanti sul percorso delle riforme. Questo ha stabilito la direzione all’unanimità ”.
C’era “un blocco” che “veniva reso plastico, sublimato, sulla legge elettorale”.
E adesso allora: “Chiedo un voto per la dignità  e la qualità  di questo governo”.
Non fa passi indietro, Renzi, neanche sulla possibilità  di mettere la fiducia sull’Italicum: “Ne parleremo tra di noi. Permettetemi ora di mettere la fiducia al nostro interno”. Stoccatina: “Fossi in voi rivendicherei le mediazioni ottenute”. Conclusione: “Considero un clamoroso errore riaprire la discussione al Senato, è un azzardo che ci espone a molti problemi, non si spiega politicamente alla Camera, riapre un accordo di coalizione già  chiuso e, soprattutto dà  il senso di una politica come un grandissimo gioco dell’Oca”.
Che lo sfondamento del premier abbia avuto effetto lo dicono i balbettii e la faccia stravolta di Roberto Speranza.
Che arriva a evocare le proprie dimissioni da capogruppo a Montecitorio: sono sul piatto dalla prossima riunione del gruppo dem alla Camera, che dovrebbe essere dopo Pasqua.
Lo dicono gli interventi di Cuperlo e Fassina, che richiamano il segretario a una mediazione che non ha alcuna intenzione di mettere in atto.
Come il tentativo di rilancio di D’Attorre, che mentre definisce “ricatto inconcepibile” la fiduicia sull’Italicum arriva a minacciare esplicitamente il percorso delle riforme in Senato.
La minoranza è tramortita: il non voto è una non decisione, un problema rimandato.
I renziani, invece, sono compatti, all’attacco. Il senatore Andrea Marcucci la butta sul filosofico (“la minoranza non ha sempre la verità  in tasca”),
Matteo Richetti reagisce a D’Attorre (“Non ci si può lamentare che è in atto un ricatto sulla legge elettorale e poi dire che se non si cambia la legge elettorale le riforme sono su un binario morto”,) Roberto Giachetti fa uno show, ricordando tutti i cambi di posizione di quelli che oggi si vestono da pasdaran (“Bersani dice che ‘il Mattarellum lo firmerebbe anche domani’. A Bersani dico, l’avete avuta l’occasione di votare Mattarellum, e avete imposto di votare contro”).
Voto in direzione scontato. Futuro ipotetico.
La parola scissione per adesso è solo un fantasma. “Continueremo la battaglia in Aula. Ci voteremo i nostri emendamenti”, dice D’Attorre.
Ma finora, Renzi l’ha avuta sempre vinta.

Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)

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EXPO E PADIGLIONE ITALIA: UN RITARDO CHE NON E’ SCUSABILE

Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile

SETTE ANNI DI TEMPO PERSI IN LITIGI, LOTTE DI POTERE E GUERRE DI POLTRONE… PER L’EXPO DI MILANO DEL 1906 FU INAUGURATO IL TRAFORO DEL SEMPIONE, COSTRUITO IN SEI ANNI

I vertici di Expo 2015 giurano che siamo al rush finale. Ma è chiaro che per completare in tempo Padiglione Italia servirebbe qualche cosa di più.
Un miracolo, dice qualcuno.
Dobbiamo dunque sperare nell’intervento divino, che comunque non abbiamo meritato.   Sono sette anni precisi dal fatidico giorno in cui l’allora sindaco Letizia Moratti annunciò trionfante che la città  di Milano aveva vinto la sfida con Smirne.
Era ancora in carica il governo Prodi e il presidente della Provincia Filippo Penati rimarcava orgoglioso come gli ispettori del Bureau International des Expositions fossero rimasti impressionati dalla «coesione istituzionale».
Non c’è che dire: nelle apparenze i nostri politici sono sempre stati bravissimi. Peccato che quando si deve passare dalle parole ai fatti la «coesione istituzionale» vada regolarmente a farsi friggere.
Come nel caso dell’Expo. Dove le cose sarebbero andate ancora peggio se dopo gli scandali non fosse intervenuta tempestivamente l’Autorità  anticorruzione, con modalità  tali da meritare il riconoscimento dell’Ocse.
Pur fra mille difficoltà  forse anche sorprendenti.
Si duole il presidente dell’Anac Raffaele Cantone nel libro Il Male italiano scritto con Gianluca Di Feo di «aver incontrato i problemi maggiori proprio in due cantieri simbolo dell’Expo, i due progetti che più di ogni altro dovrebbero rappresentare il nostro Paese agli occhi del mondo: il Padiglione Italia e il cosiddetto Albero della Vita.
In entrambi i casi i lavori erano in ritardo sulla tabella di marcia e pian piano sono emersi non pochi problemi». Cantone parla di insofferenze verso i controlli, superficialità  nell’affidamento dei contratti, anomalie nelle procedure.
Il tutto giustificato evidentemente con la necessità  di fare in fretta per recuperare il troppo tempo perduto, anche se ormai irrecuperabile.
Dei sette anni passati dal 31 marzo 2008 più di metà  se ne sono evaporati in contrasti fra i partiti, lotte di potere interne, guerre di poltrone.
Prima lo scontro sull’amministratore delegato della società .
Poi la battaglia per i terreni, in vista delle future appetitose speculazioni immobiliari. Quindi commissari generali che si sovrapponevano ai commissari straordinari e gli inevitabili conflitti.
Per non citare le deroghe infinite (e sospette) al codice degli appalti, con i lavori dell’Expo esentati da ben 78 articoli di quel monumentale regolamento.
Una corsia preferenziale tanto larga da provocare le proteste dell’Associazione dei costruttori proprio a proposito dell’appalto da 25 milioni per il solito Padiglione Italia: subito rintuzzate da uno stizzito Antonio Acerbo, il direttore di quell’opera che avrebbe poi patteggiato una condanna a tre anni. E intanto i giorni passavano. Mentre la corruzione dilagava, come fosse il capitolo conclusivo, e naturale, di questo incredibile copione.
Adesso che manca un mese al 1° maggio, la memoria non può che andare all’altra Esposizione universale milanese, quella di oltre un secolo fa.
Fu un successo senza smagliature, preceduto dalla costruzione del traforo del Sempione: realizzato in poco più di sei anni, era il più lungo del mondo e permetteva il collegamento ferroviario diretto con Parigi.
L’Expo del 1906 viene ricordato come l’evento che certificò l’ingresso della giovane Italia unita nel novero delle nazioni industrializzate e l’investitura di Milano come città  simbolo di quella svolta.
Non vorremmo che l’Expo del 2015 passasse invece alla storia quale prova della italica incapacità  a rispettare gli impegni.
Anche i più banali, per esempio finire in tempo di arredare casa nostra.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)

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L’EUROPA DICE ADDIO ALLE QUOTE LATTE

Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile

DOPO 32 ANNI CESSANO I VINCOLI UE E L’ITALIA E’ COSTRETTA A FARE I CONTI CON AGRICOLTURE PIU’ FORTI… L’EREDITA’ DI MULTE PER 4,4 MILIARDI, PRODUTTORI RIDOTTI AD UN SESTO RISPETTO AGLI ANNI ’90

Finisce il 31 marzo una storia cominciata nel 1983, fatta di latte e stalle, di camion di liquami rovesciati in autostrada e di contadini arrabbiati, di agricoltori che si indebitano e pagano tutto quello che serve e anche di più e di altri che invece, forse più cinici, sulla violazione delle norme speculano, vendendo quote, sforando limiti e lasciando scadere multe e sanzioni, sicuri che, tanto, prima o poi, qualcun altro avrebbe pagato.
Il regime delle quote latte se ne va in soffitta dopo 32 anni, 22 avvicendamenti al ministero delle Politiche Agricole e, soprattutto, 4,4 miliardi di multe comminate all’Italia, in parte pagate, in parte no.
Al suo posto arriva il libero mercato sul cui campo, d’ora in poi, dovranno giocarsela allevatori italiani contro allevatori stranieri, in uno scenario che forse fa persino più paura di quello di multe e sanzioni.
Sì, perchè all’addio all’ultimo grande regime protezionistico ancora in vigore l’Italia e i suoi allevatori si presentano particolarmente deboli.
A spossarli, dagli anni ’80 a oggi, non c’è stata solo la recente crisi, che ha decimato i consumi e reso inaccessibili le banche, ma anche un sistema dei prezzi mai tanto basso e, forse, persino lo stesso sistema delle quote latte.
Molte stalle sono state costrette a sotto produrre (pena salatissime multe) e, in alcuni casi, la compravendita delle quote si è rivelata più redditizia della produzione stessa.
Così, nell’Europa senza quote, l’Italia si presenta oggi come un paese che importa circa metà  del suo fabbisogno (produciamo, quote permettendo, circa 11 milioni di tonnellate di latte, e ne importiamo poco meno di 9): questo, in teoria, dovrebbe lasciare ben sperare e fare intravvedere, almeno sul mercato interno, ampi margini di crescita.
Ma la cosa non è così scontata: gran parte (circa il 50%) del nostro latte viene usato per fare formaggi Dop, Denominazione origine protetta, come Parmigiano, Grana, Gorgonzola, Asiago, ecc, o viene venduto come latte fresco, mentre il resto si scontra con il latte in arrivo dall’estero e non di rado, nonostante i suoi alti standard di qualità , ne esce con le ossa rotte. La ragione? Facile: costa di più.
Per quanto gli allevatori italiani lamentino il fatto che oggi, venduto in stalla a 35 centesimi al litro, il latte non ripaghi neppure i costi di produzione, resta il fatto che è comunque più costoso di quello che viene da fuori e, soprattutto, più di cagliate e caseine che possono essere comunque usati per fare formaggi vari.
Per i produttori di latte italiano, appena usciti dalla caienna di quote, limiti e regolamenti, l’apertura del mercato si presenta più come un pericolo che come un’opportunità .
“Il nostro latte è migliore, lo sanno tutti – dicono le associazioni di categoria Cia, Coldiretti e Confagricoltura – solo che produrlo costa tanto e i trasformatori fanno quattro conti e, a meno che non si tratti di produrre formaggi Dop o latte fresco, non ci impiegano molto a capire che conviene comprare quello straniero”.
Ad oggi, stando ai dati pubblicati sul sito del Clal il latte Italiano costa 35 centesimi, quello francese 31, quello tedesco 32, quello ceco 30, quello polacco 28, quello lettone 22, quello estone 24   e quello lituano 19.
Cifre che non possono che piacere ai trasformatori, visto che ad oggi non esiste ancora nessun obbligo di etichettatura che indichi la provenienza delle materie prime impiegate per formaggi, latte a lunga conservazione e prodotti finiti.
Secondo le stime fornite da Coldiretti, “oggi tre cartoni su quattro di latte a lunga conservazione venduti in Italia sono fatti con latte straniero e lo stesso dicasi per buona parte delle mozzarelle e dei formaggi non garantiti, spesso fatti con latte o addirittura cagliate provenienti dall’estero, soprattutto dai aesi dell’Est Europa, anche se di tutto questo non c’è traccia in etichetta”.
Una concorrenza che già  oggi, con il mercato imbrigliato dalle quote, l’Italia fa fatica a reggere e il cui urto da domani sarà  ancora più pesante, perchè tutti potranno produrre e vendere quanto vogliono.
Il nostro paese rischia di non avere, anche volendo, gli strumenti per reagire.
All’inizio degli anni ’90 in Italia si contavano circa 180mila stalle, mentre ora superiamo a stento le 30 mila e su molte di loro incombe la spada di Damocle delle multe: rimandate per trent’anni, ora sono in arrivo con il loro carico milionario.
Insomma, ora che comincia la guerra vera, l’esercito dei nostri allevatori si presenta al fronte stanco, disarmato e, in alcuni casi, persino indebitato.

Luciana Grosso
(da “la Repubblica“)

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ITALIANI PIU’ MALATI E MENO ASSISTITI: E’ IL “NUOVO CHE AVANZA”, BELLEZZA

Marzo 30th, 2015 Riccardo Fucile

“RAPPORTO OSSERVASALUTE”: IL PESO DELLE DIFFICOLTA’ ECONOMICHE SULL’ASSISTENZA SANITARIA E I TAGLI ALLE RISORSE… AL SUD VENGONO SOSTITUITI SOLO UN QUARTO DI COLORO CHE VANNO IN PENSIONE

La salute degli italiani è sempre più a rischio a causa della “precarietà  economica che, divenuta ormai una condizione strutturale del Paese, incide sia sull’offerta dei servizi, sempre più sotto l’attacco della spending review, sia sul benessere psicofisico dell’individuo”.
E’ quanto emerge dalla dodicesima edizione del Rapporto Osservasalute (2014), l’analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità  dell’assistenza sanitaria nelle Regioni italiane, presentata oggi a Roma all’università  Cattolica.
La ricerca è stata pubblicata dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, coordinato da Walter Ricciardi, direttore del Dipartimento di Sanità  pubblica dell’università  Cattolica – Policlinico Gemelli di Roma.
La situazione di difficoltà  legata alla crisi ed ai tagli di risorse e servizi sanitari influisce particolarmente nell’aumento dei casi di tumori prevenibili: tra le donne, ad esempio, i nuovi casi di tumore al polmone, tra il 2003 e il 2013, sono aumentati del 17,7%, così come quello alla mammella che registra un incremento del 10,5%.
Tra gli uomini l’incidenza del tumore al colon retto, nello stesso periodo, è aumentata del 6,5%. Mentre gli stili di vita sbagliati fanno aumentare il numero di italiani in sovrappeso, con il 45,8% degli over 18 in eccesso ponderale.
A fare le spese di questo peggioramento del quadro epidemiologico sono soprattutto le regioni del Mezzogiorno.
“Il deficit di risorse destinate alla prevenzione rischia di far vacillare la salute degli italiani – si legge nel Rapporto – già  sotto l’attacco della congiuntura economica negativa che sta colpendo ormai da anni anche il nostro paese: la precarietà  che sta ormai divenendo una condizione strutturale mette a rischio la tenuta dei servizi sanitari offerti ai cittadini e anche la salute reale e percepita degli individui (sempre più numerosi sono gli studi che dimostrano ad esempio che essere lavoratori precari mina il benessere psicofisico della persona)”.
Per il Rapporto 2014, i punti deboli della salute degli italiani sono sempre gli stessi, a partire dai cattivi stili di vita che restano tali o persino, a causa della crisi, peggiorano. “Un dato esemplificativo tra tutti – si legge -, la sedentarietà  che aumenta in maniera significativa per entrambi i generi: da 34,6% a 36,2% negli uomini e da 43,5% a 45,8% nelle donne”
Il servizio sanitario nazionale è alle prese con una rivoluzione a due facce destinata a cambiare presto la sanità  pubblica. Da un lato, il percorso di innovazione e digitalizzazione dei servizi; dall’altro, la riduzione generale dei costi e del personale. Guardando al processo di modernizzazione delle Asl, il Rapporto ha preso in considerazione l’utilizzo di internet per la comunicazione e i servizi per il cittadini.
L’altra grande modificazione in corso nel Servizio Sanitario Nazionale è l’emorragia dei dipendenti conseguente alla riduzione delle risorse.
A livello nazionale i dati mostrano come il tasso di compensazione del turnover negli ultimi 4 anni sia sempre stato inferiore a 100.
Analizzando il trend 2009-2012, tale tasso è arrivato a segnare 68,9 punti percentuali nel 2012, circa 10 punti percentuali in meno rispetto all’anno precedente (78,2% nel 2011). Anche qui, la realtà  cambia da regione a regione e solo Val D’Aosta e Trentino-Alto Adige, nel 2012, hanno completamente rimpiazzato i dipendenti usciti per limite d’età .
In generale il divario Nord-Sud ed Isole è meno marcato rispetto agli anni precedenti. “Particolarmente critica – si legge però nel rapporto – è la situazione di Lazio, Puglia, Campania, Molise e Calabria che mostrano tutte valori inferiori al 25%”.
Il sistema, spiegano gli autori del Rapporto, sconta una diminuzione delle risorse: “Nel 2013 – scrivono – la spesa sanitaria pubblica pro capite è di 1.816 euro. Tale valore del 2013 è il risultato di un trend in diminuzione della spesa sanitaria nazionale che si riduce del 2,36% fra il 2010 e il 2013 con un tasso medio annuo composto di -0,79% e con un decremento dell’1,50% solo nell’ultimo anno”.

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