L’EUROPA DICE ADDIO ALLE QUOTE LATTE
DOPO 32 ANNI CESSANO I VINCOLI UE E L’ITALIA E’ COSTRETTA A FARE I CONTI CON AGRICOLTURE PIU’ FORTI… L’EREDITA’ DI MULTE PER 4,4 MILIARDI, PRODUTTORI RIDOTTI AD UN SESTO RISPETTO AGLI ANNI ’90
Finisce il 31 marzo una storia cominciata nel 1983, fatta di latte e stalle, di camion di liquami rovesciati in autostrada e di contadini arrabbiati, di agricoltori che si indebitano e pagano tutto quello che serve e anche di più e di altri che invece, forse più cinici, sulla violazione delle norme speculano, vendendo quote, sforando limiti e lasciando scadere multe e sanzioni, sicuri che, tanto, prima o poi, qualcun altro avrebbe pagato.
Il regime delle quote latte se ne va in soffitta dopo 32 anni, 22 avvicendamenti al ministero delle Politiche Agricole e, soprattutto, 4,4 miliardi di multe comminate all’Italia, in parte pagate, in parte no.
Al suo posto arriva il libero mercato sul cui campo, d’ora in poi, dovranno giocarsela allevatori italiani contro allevatori stranieri, in uno scenario che forse fa persino più paura di quello di multe e sanzioni.
Sì, perchè all’addio all’ultimo grande regime protezionistico ancora in vigore l’Italia e i suoi allevatori si presentano particolarmente deboli.
A spossarli, dagli anni ’80 a oggi, non c’è stata solo la recente crisi, che ha decimato i consumi e reso inaccessibili le banche, ma anche un sistema dei prezzi mai tanto basso e, forse, persino lo stesso sistema delle quote latte.
Molte stalle sono state costrette a sotto produrre (pena salatissime multe) e, in alcuni casi, la compravendita delle quote si è rivelata più redditizia della produzione stessa.
Così, nell’Europa senza quote, l’Italia si presenta oggi come un paese che importa circa metà del suo fabbisogno (produciamo, quote permettendo, circa 11 milioni di tonnellate di latte, e ne importiamo poco meno di 9): questo, in teoria, dovrebbe lasciare ben sperare e fare intravvedere, almeno sul mercato interno, ampi margini di crescita.
Ma la cosa non è così scontata: gran parte (circa il 50%) del nostro latte viene usato per fare formaggi Dop, Denominazione origine protetta, come Parmigiano, Grana, Gorgonzola, Asiago, ecc, o viene venduto come latte fresco, mentre il resto si scontra con il latte in arrivo dall’estero e non di rado, nonostante i suoi alti standard di qualità , ne esce con le ossa rotte. La ragione? Facile: costa di più.
Per quanto gli allevatori italiani lamentino il fatto che oggi, venduto in stalla a 35 centesimi al litro, il latte non ripaghi neppure i costi di produzione, resta il fatto che è comunque più costoso di quello che viene da fuori e, soprattutto, più di cagliate e caseine che possono essere comunque usati per fare formaggi vari.
Per i produttori di latte italiano, appena usciti dalla caienna di quote, limiti e regolamenti, l’apertura del mercato si presenta più come un pericolo che come un’opportunità .
“Il nostro latte è migliore, lo sanno tutti – dicono le associazioni di categoria Cia, Coldiretti e Confagricoltura – solo che produrlo costa tanto e i trasformatori fanno quattro conti e, a meno che non si tratti di produrre formaggi Dop o latte fresco, non ci impiegano molto a capire che conviene comprare quello straniero”.
Ad oggi, stando ai dati pubblicati sul sito del Clal il latte Italiano costa 35 centesimi, quello francese 31, quello tedesco 32, quello ceco 30, quello polacco 28, quello lettone 22, quello estone 24 e quello lituano 19.
Cifre che non possono che piacere ai trasformatori, visto che ad oggi non esiste ancora nessun obbligo di etichettatura che indichi la provenienza delle materie prime impiegate per formaggi, latte a lunga conservazione e prodotti finiti.
Secondo le stime fornite da Coldiretti, “oggi tre cartoni su quattro di latte a lunga conservazione venduti in Italia sono fatti con latte straniero e lo stesso dicasi per buona parte delle mozzarelle e dei formaggi non garantiti, spesso fatti con latte o addirittura cagliate provenienti dall’estero, soprattutto dai aesi dell’Est Europa, anche se di tutto questo non c’è traccia in etichetta”.
Una concorrenza che già oggi, con il mercato imbrigliato dalle quote, l’Italia fa fatica a reggere e il cui urto da domani sarà ancora più pesante, perchè tutti potranno produrre e vendere quanto vogliono.
Il nostro paese rischia di non avere, anche volendo, gli strumenti per reagire.
All’inizio degli anni ’90 in Italia si contavano circa 180mila stalle, mentre ora superiamo a stento le 30 mila e su molte di loro incombe la spada di Damocle delle multe: rimandate per trent’anni, ora sono in arrivo con il loro carico milionario.
Insomma, ora che comincia la guerra vera, l’esercito dei nostri allevatori si presenta al fronte stanco, disarmato e, in alcuni casi, persino indebitato.
Luciana Grosso
(da “la Repubblica“)
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