Dicembre 28th, 2016 Riccardo Fucile
“POTREBBE ESSERE UN DURO COLPO PER LA CGIL”
I giochi sono ancora tutti aperti. Ma a meno di due settimane dall’11 gennaio, giorno in cui la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sull’ammissibilità dei tre quesiti referendari proposti dalla Cgil con 3,3 milioni di firme, la Consulta sembra orientarsi verso la bocciatura del referendum più esplosivo, quello che riguarda le norme sui licenziamenti.
Quello che farebbe resuscitare (se approvato dagli elettori) il celeberrimo articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori del 1970.
Sono solo voci, indiscrezioni, ipotesi; ma a quanto riferiscono fonti informate, sembra farsi strada la tesi dell’inammissibilità del quesito sui licenziamenti.
Il complicato «taglia e cuci» degli articolati di legge andrebbe oltre l’abrogazione della norma della riforma Renzi-Poletti che ha reso possibile ai datori di lavoro licenziare liberamente, pagando una indennità economica (anzichè obbligare a reintegrarlo nel posto di lavoro), un lavoratore impiegato in un’azienda con oltre 15 dipendenti.
Il referendum sarebbe «propositivo», e dunque inammissibile dalla Consulta, poichè estende il diritto di recuperare il proprio posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo a tutti i dipendenti di aziende con almeno 5 impiegati.
Una forte estensione della platea del mondo del lavoro tutelata dall’articolo 18 a milioni di imprese e lavoratori.
Nessun problema, invece, per i due referendum «minori» sull’abolizione dei voucher e sulla responsabilità solidale per gli appalti.
Se queste indiscrezioni venissero confermate, sarebbe certo un brutto colpo per il sindacato guidato da Susanna Camusso. Che oggi, in un momento di grande incertezza politico-istituzionale, avrebbe uno strumento per cancellare quello che dal punto di vista politico e di «narrazione» viene considerato l’architrave del Jobs Act, ovvero l’abolizione dell’articolo 18.
Tutti i sondaggi dicono che se si votasse davvero, i “sì” stravincerebbero: sarebbe una nuova pesante sconfitta per la maggioranza Pd-Ncd-Ala; per Matteo Renzi e Paolo Gentiloni; e naturalmente per Confindustria e tutti coloro che hanno plaudito alla ulteriore deregolamentazione del mercato del lavoro.
Di converso, l’inammissibilità del quesito sull’articolo 18 sarebbe un bel favore per Palazzo Chigi e il Nazareno, che potrebbero cercare a quel punto di «sminare» anche il quesito sui voucher varando un giro di vite per limitare in modo radicale il ricorso a quello che si è rivelato uno strumento di precarizzazione.
Naturalmente bisogna attendere il verdetto ufficiale della Corte Costituzionale. E non solo per ragionevole prudenza: all’interno della Consulta sul referendum articolo 18 ci sono due fronti in netta contrapposizione.
E anche se i fautori dell’inammissibilità per ora sembrano in maggioranza, le cose potrebbero cambiare.
Schierati per la bocciatura ci sarebbero ad esempio due giudici, per la loro storia politica e personale, vicini al centrosinistra: Giuliano Amato e Augusto Barbera, che a quanto risulta insistono nel dire che il quesito dovrebbe essere respinto come «propositivo», e perchè riguarda materie non omogenee.
Non la pensano però così altri giudici, secondo cui già in passato (e in più occasioni) la Consulta ha giudicato ammissibili quesiti referendari «indirettamente propositivi», che innovavano la normativa. È il caso di alcuni referendum su materie elettorali.
Di questa opinione sarebbero Franco Modugno, indicato dai Cinque Stelle nel dicembre 2015, ma anche Silvana Sciarra, una giurista del lavoro scelta dal Pd.
Sciarra gioca in questa partita un ruolo molto importante: come relatrice, sarà lei a illustrare ai colleghi le problematiche da esaminare.
Roberto Giovannini
(da “La Stampa”)
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Dicembre 28th, 2016 Riccardo Fucile
NON CONTA VINCERE, MA CHE IL RIVALE INTERNO PERDA… DALLA SCONFITTA DELLA PAITA AL CASO SAVONA… E IN PRIMAVERA SI VOTA A GENOVA
«Giovanni, guarda che hai vinto…». «Ma cosa dici. Dai, non è vero, ci deve essere un errore». 
Il primo a non credere a quel che era appena successo era lui.
La trascrizione della telefonata che il neo presidente della Liguria ricevette da un collega giornalista la notte del 31 maggio 2015 è abbastanza fedele, al netto degli scherzi della memoria.
Giovanni Toti aveva chiuso la campagna elettorale sua e del centrodestra in modo certo non sfarzoso. Un brindisi con i notabili di Forza Italia, e poi tutti a casa. L’importante è partecipare, portare a casa un buon risultato e giocarselo all’interno del partito. Il progetto era quello.
Nessuno aveva previsto il suicidio del Pd ligure. La candidata renziana, Raffaella Paita, che si aggiudica primarie molto contestate battendo la sinistra Pd di Sergio Cofferati, un pezzo di partito che si stacca, mettendole contro l’europarlamentare Luca Pastorino, aritmeticamente decisivo nel negarle la vittoria.
L’anticipazione delle lacerazioni che aspettavano la più grande comunità politica di questo Paese.
«Le Regionali hanno allargato una frattura che ha origini lontane. Sto cercando di costruire un clima decente, ma è un lavoro lungo». David Ermini, deputato toscano, amico di Matteo Renzi, anche lui ex Margherita, è entrato nel Pd perchè Walter Veltroni «ha dato la possibilità di essere di sinistra a chi come me non era mai stato comunista».
Lo hanno mandato a fare il commissario del Pd ligure, il partito che ha divorato se stesso. Esistono lavori meno usuranti.
La malattia
Vent’anni fa Ubaldo Benvenuti, primo segretario del Pds a Genova, arrivò a dire che la Quercia era talmente forte che se lui avesse voluto, avrebbe fatto eleggere sindaco il primo muratore che gli si fosse parato davanti.
All’epoca il partito in Liguria contava ventimila iscritti. Oggi a Genova non ne restano che 1.700. Sommando le altre province non si arriva a quattromila.
Il disastro delle Regionali 2015 è vissuto come uno spartiacque. Ma le dinamiche interne che hanno portato alla dissoluzione di un capitale politico importante sono cominciate ben prima.
Anche Pastorino, l’uomo dello strappo, nato e cresciuto dentro l’ex Pds-Ds, ne è convinto. «La classe politica ligure è sempre stata cristallizzata. C’era il tappo. Le nuove generazioni venivano lasciate a consumarsi nei consigli di quartiere. Ma vincevamo, così andava bene a tutti. L’ultimo momento davvero condiviso fu nel 2005 quando Claudio Burlando tornò da Roma per strappare la Regione al forzista Sandro Biasotti. Poi cominciammo a perdere. La bussola, e la nostra unità posticcia».
Buen ritiro
Il convitato di pietra di questo articolo passa gran parte del suo tempo nella casa di famiglia a Torriglia, in Val Trebbia, dove coltiva patate, zucchine e fagioli.
Claudio Burlando è figlio di un camallo e di una contadina, che si conobbero a New York da emigranti.
«Non c’è molta differenza tra il Pd ligure e il Pd nazionale. Dopo il 40% delle Europee Stefano Bonaccini, un ex Pci come me, esordì in direzione dicendo che era un risultato storico. Lorenzo Guerini, che viene da un’altra storia, gli rispose con una battuta: parla per te».
L’ex sindaco di Genova, ministro del primo governo Prodi, due volte presidente della Regione, ha visto nascere l’Ulivo.
«Nel 1994 fui io a far incontrare Prodi e Massimo D’Alema per la prima volta. E ricordo che quando tornò a Bologna il professore andò a trovare la mamma, che lo rimproverò: mica ti metterai con i comunisti. Oggi siamo tornati a quel punto».
Dice che le Politiche del 2013 furono l’ultima occasione della sua generazione. «Abbiamo perso. Non ci può più essere un ruolo guida per noi, dobbiamo rassegnarci».
Nella diatriba interna, scelse Renzi. «E mi accusano di aver scelto Paita. Senza capire che il campo era ormai libero per una classe dirigente nuova, anagraficamente alternativa a me. Tra noi “vecchi” mancavano le candidature forti. Le riserve sono finite».
Il peccato originale
Vent’anni fa a Genova non venne eletto un muratore. Il Pds scosso dell’ingiusta vicenda giudiziaria che aveva estromesso Burlando puntò su un giudice, Adriano Sansa, per dimostrare di non avere scheletri nell’armadio.
«Disse di aver vinto contro il Pds, ma era stato eletto da noi». Dopo fu la volta di un avvocato, Beppe Pericu, per dimostrare di non avere bramosia di potere.
Quando venne il turno di un politico, cominciarono i dolori. Marta Vincenzi superò le consultazioni nei circoli battendo il funzionario Mario Margini, spinto dai vertici del partito.
Ma nel tentativo di sbarrarle la strada, quel che restava dell’Ulivo chiese comunque le primarie e le oppose Stefano Zara, industriale in quota Margherita, nel nome del centrosinistra riformista. Era il febbraio 2007.
Il Pd venne alla luce otto mesi dopo, ma in Liguria fu un parto infelice. Intanto la spinta statalista che aveva sorretto Genova e la Liguria si esaurisce.
La regione e il capoluogo cambiano la loro pelle industriale con una più fragile economia di servizi e turismo. Il Pd invece non si rinnova.
Alle primarie genovesi del 2012 spedisce contro l’invisa Vincenzi la futura ministra Roberta Pinotti. Infatti vince Marco Doria, indipendente e arancione.
Dopo, solo dopo, arriva lo scontro finale delle Regionali. Sospira Burlando: «In America e altrove tra le primarie e il voto viene fatto passare molto tempo, per lavare il sangue. Il Pd sarebbe ancora un bel progetto. Ma se non stai alle regole, salta tutto».
La grande paura
Negli ultimi 5 anni in Liguria hanno chiuso 38 circoli del Pd.
Il politico di riferimento è diventato lo spezzino Andrea Orlando, formalmente più a sinistra di Burlando e molto più orientato alla ribalta nazionale. Anche perchè non è certo profeta in patria. Nella sua città , la corsa a segretario è stata vinta dalla candidata renziana sostenuta dalla sua arcinemica Paita.
A Sanremo e Imperia, dove il Pd approfittò della crisi del berlusconismo piazzando una manciata di sindaci pescati dalla società civile, ora tutti stentano a dichiararsi democratici, costretti ad aggrapparsi a identità locali per reggere il contraccolpo del populismo montante.
«Ci sentiamo un po’ soli» dice Marco Ioculano, giovane primo cittadino di Ventimiglia. L’ultimo bastione è Genova, enclave della ditta bersaniana dove la Cgil è ancora un esercito.
Il Pd locale è convinto che con un Doria-bis si perde, ma non è sicuro che con altri candidati si possa vincere. Simone Regazzoni, giovane filosofo, ex portavoce di Paita, si è messo in proprio autocandidandosi a primarie che nessuno vuole, visti i precedenti. «Pratico una forma di populismo aperto, che dà priorità alla sicurezza e a discorsi chiari sull’immigrazione». Cita il filosofo Slavoj Žižek, siamo noi quelli che stavamo aspettando e tanto gli basta per scuotere il partito.
«Il ricambio generazionale non è una concessione, è qualcosa che devi andarti a prendere». La supplenza di Ermini era finita, ma quel che resta della dirigenza ligure gli ha chiesto di restare.
«Io ci sto, ma non vorrei che la mia presenza diventasse un’alibi per scaricare scelte e responsabilità su qualcun altro». L’unico con le idee chiare è Toti.
Dopo la Regione, si è preso anche Savona, sfilandola ai democratici. Se in primavera vince a Genova, la strada per la successione di Berlusconi diventa un viale alberato. La Liguria è ormai terra di conquista. Per tutti, tranne che per il Pd.
Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera”)
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Dicembre 28th, 2016 Riccardo Fucile
“NON SAPEVO NULLA DELL’INDAGINE”… A COINVOLGERLO L’AMMINISTRATORE DI CONSIP MARRONI
«Non sapevo nulla dell’indagine»: un’ora e mezza davanti ai pubblici ministeri da sintetizzare in poche parole per il ministro dello Sport Luca Lotti, che ha deciso di presentari in procura a Roma per dichiarazioni spontanee insieme al suo avvocato Franco Coppi.
A Roma per competenza è arrivato lo stralcio dell’inchiesta che vede indagati anche il comandante generale dei Carabinieri, Tullio Del Sette, e il generale di brigata dell’Arma Emanuele Saltalamacchia.
Per tutti l’accusa è di rivelazione di segreto d’ufficio. Accuse che però Lotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio all’epoca dei fatti, ha contestato, mettendo a disposizione dei magistrati della procura di Roma anche dei riscontri fattuali.
A coinvolgere il ministro è stato l’amministratore di Consip (Concessionaria Servizi Informativi Pubblici) Luigi Marroni, il quale, sentito come persona informata sui fatti dai pm di Napoli ha affermato di avere saputo notizie su una indagine in corso dal presidente di Consip, Luigi Ferrara, da Lotti e da Saltalamacchia.
Stando alle parole di Marroni i tre lo avrebbero messo in guardia sull’attività di indagine.
Una ricostruzione totalmente respinta da Lotti, che è stato sentito dal pm Mario Palazzi lontano da piazzale Clodio, sede di procura e tribunale romani.
Riferendosi a Marroni l’ex sottosegretario ha affermato di “non frequentarlo” e di averlo “visto solo due volte nell’ultimo anno”.
Nel corso dell’interrogatorio il ministro, assistito dall’avvocato Coppi, avrebbe fornito anche degli elementi a sostegno di quanto affermato.
L’atto istruttorio è avvenuto a cinque giorni dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati fatta dai pm partenopei e resa nota dal Fatto Quotidiano. Lotti da subito aveva dato la sua disponibilità a essere ascoltato dai magistrati.
In un post pubblicato sulla sua pagina Facebook, in relazione alle accuse mosse da Napoli, aveva affermato: “È una cosa che semplicemente non esiste. Inutile stare a fare dietrologie o polemiche. Sto comunque tornando a Roma per sapere se la notizia corrisponde al vero e, in tal caso, per chiedere di essere sentito oggi stesso”. A recarsi spontaneamente negli uffici di piazzale Clodio, il 23 dicembre scorso, è stato il generale Del Sette.
Rispondendo alle domande del pm Mario Palazzi il numero uno dei carabinieri ha respinto le accuse e secondo i suoi legali ha “chiarito l’infondatezza” delle notizie, “gravemente lesive della sua dignità ”. Lillo aveva raccontato qualche giorno fa dell’indagine sulla Consip:
Al centro degli accertamenti dei pm c’è l’appalto cosiddetto FM4, la mega-gara di facility management, bandita nel 2014 e suddivisa in molti lotti, tre dei quali potrebbero essere aggiudicati alla società di Alfredo Romeo insieme ad altre.
Le forniture pluriennali di tutti gli uffici delle pubbliche amministrazioni e delle università italiane valgono 2,7 miliardi di euro, pari a più dell’11 per cento della spesa pubblica nel settore. Il 16 dicembre, i pm sentono Gasparri alla presenza del suo avvocato Alessandro Diddi. Il funzionario spiega i suoi rapporti con Romeo e parla dell’influenza della politica su nomine e appalti.
I carabinieri del Noe e i finanzieri del Nucleo di Polizia Tributaria di Napoli, martedì entrano nell’ufficio dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, nominato dal governo Renzi nel 2015.
Subito dopo quella visita, i palazzi del potere entrano in fibrillazione. Tutti si agitano per capire cosa sta accadendo.
Il Fatto, dopo avere sentito più fonti, oggi è in grado di ricostruire il perchè di tanta ansia: l’amministratore delegato (non indagato) di Consip ha ‘cantato ‘, come si diceva una volta. Non su Gasparri o Romeo, ma su nomi più rilevanti. I pm hanno sentito Marroni sulla soffiata che stava schiantando le indagini più segrete della Procura di Napoli.
Insomma, una fuga di notizie come quella che avrebbe portato Virginia Raggi sul tetto del Campidoglio dopo la rivelazione di un’indagine fatta da Raffaele Marra. Il fascicolo sulla fuga di notizie è stato stralciato dal quello principale ed è approdato a Roma.
Il racconto del coinvolgimento di Lotti nell’indagine è stato fatto da Marco Lillo: l’amministratore della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana, Luigi Marroni,poche settimane fa incarica una società di rimuovere eventuali cimici dai suoi uffici. La caccia va a segno.
Le microspie vengono rimosse, Marroni e compagni azionano mentalmente il rewind, cercano di pensare a discorsi, incontri e parole dette.
Quando viene sentito dai magistrati, Marroni all’inizio minimizza, ma quando intuisce che i pm potrebbero avere elementi precisi, grazie a pedinamenti e intercettazioni ambientali, fa i nomi.
Dice di aver saputo dell’indagine dal presidente di Consip Luigi Ferrara che a sua volta era stato informato dal comandante Tullio Del Sette. Poi aggiunge altrinomi. I più importanti sono Lotti e il generale Emanuele Saltalamacchia, suoi amici. Entrambi lo avrebbero messo in guardia
L’atto istruttorio è avvenuto a cinque giorni dalla notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati fatta dai pm partenopei e resa nota dal Fatto Quotidiano.
In un post pubblicato sulla sua pagina Facebook, in relazione alle accuse mosse da Napoli, Lotti aveva affermato: «È una cosa che semplicemente non esiste. Inutile stare a fare dietrologie o polemiche». I magistrati della Procura di Napoli hanno aperto un’inchiesta su una gara di facility management del valore di 2,7 miliardi bandita da Consip e suddivisa in vari lotti, tre dei quali destinati alla società di Alfredo Romeo, immobiliarista indagato per corruzione.
Sotto accertamento è finito l’appalto Fm4, una gara di facility management del valore di 2,7 miliardi bandita nel 2004 e suddivisa in svariati lotti, tre dei quali destinati alla società dell’immobiliarista Alfredo Romeo, il cui nome risulta nel registro degli indagati per corruzione.
Stando all’accusa l’imprenditore avrebbe consegnato delle tangenti al dirigente di Consip Marco Gasparri, anche lui indagato.
Il 16 novembre i magistrati hanno sentito Gasparri sui rapporti con Romeo. Gasparri parla di un diretto coinvolgimento della vicenda anche dell’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.
Nei giorni successivi, dopo una perquisizione domiciliare, i magistrati decidono di ascoltare l’ad. Il coinvolgimento di Lotti e degli alti ufficiali dell’Arma emerge nel corso di questo verbale.
(da “NextQuotidiano”)
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Dicembre 28th, 2016 Riccardo Fucile
INTERVISTATI DAL NEW YORK TIMES, I FUNZIONARI NEGANO UN COINVOLGIMENTO DEL CREMLINO
Per la prima volta la Russia riconosce l’esistenza di una delle più grandi cospirazioni nella storia dello
sport: una sistematica e vasta campagna di doping, che ha coinvolto centinaia di atleti russi inquinando non solo i risultati delle Olimpiadi invernali di Sochi, ma anche di alcuni degli eventi sportivi più seguiti del mondo.
A rivelarlo è il New York Times , che ha raccolto le testimonianze di diversi funzionari russi che riconoscono la campagna, ma negano un intervento diretto del governo.
Il New York Times ha intervistato i funzionari a Mosca sette mesi dopo le rivelazioni di Grigory Rodchenkov, il direttore del laboratorio anti-doping ai tempi delle Olimpiadi invernali di Sochi.
Come riportato a maggio scorso in un articolo del quotidiano statunitense, Rodchenkov raccontò di aver sviluppato un «cocktail di sostanze dopanti» che avrebbe permesso agli atleti di non risultare positivi nei controlli.
Disse che fu il ministero dello Sport a ordinargli di svilupparlo: il cocktail conteneva metenolone, trenbolone, usato dai veterinari per aumentare il tono muscolare e l’appetito degli animali e oxandrolone, tre steroidi anabolizzanti.
Queste sostanze venivano poi mischiate con del whiskey Chivas per gli uomini e del vermouth Martini per le donne. La formula esatta prevedeva un milligrammo di miscela di steroidi per ogni millilitro di alcol. Agli atleti, poi, veniva detto di tenere il liquido in bocca per qualche secondo, per poterlo assorbire meglio.
Due mesi dopo l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) confermò e rese pubbliche le indagini condotte da Richard McLaren, il legale canadese che in appena 57 giorni ottenne la conferma che il «progetto Sochi» fosse iniziato nel 2010, già ai tempi dell’Olimpiade invernale precedente di Vancouver, e che fosse sostenuto dal Ministero dello Sport russo, con gli interventi in prima persona del viceministro Yuri Nagornykh, e la supervisione dei servizi segreti. Una totale violazione degli standard della Wada che prevedeva che, in caso di positività riscontrata dal laboratorio di Mosca, l’informazione fosse riferita allo stesso Nagornykh con l’indicazione dell’atleta colto in fallo.
Una volta ricevuta la documentazione, veniva fornita l’indicazione salva o metti in quarantena: nel primo caso, il personale del laboratorio falsificava il risultato nel sistema internazionale e sistemava tutto, e l’atleta veniva così graziato.
«C’è stata una cospirazione istituzionale», ha dunque raccontato al New York Times Anna Antseliovich, il capo dell’agenzia antidoping russa.
Secondo il New York Times, l’apertura della Russia potrebbe essere dovuta al desiderio di riconciliazione con le autorità sportive internazionali: la nazione deve scusarsi ed e ammettere le sue colpe prima di potere tornare a ospitare competizioni olimpiche. E anche prima di essere giudicata idonea a condurre test anti-doping.
Oltre ai motivi legati alla reputazione internazionale, ci sono anche ragioni economiche.
Mikhail Kusnirovich, titolare del colosso dell’abbigliamenti sportivo russo Bosco, sponsor degli atleti olimpionici russi, ha detto che «non c’è abbastanza tempo in questa vita per fare chiarezza su ogni cosa: ora è chiaro chi ha sbagliato e chi no, chi sono i vincitori e chi sono i vinti».
E poi ha concluso: «Anche ai tempi di Stalin c’era un detto: “un figlio non è responsabile dei peccati del padre”».
Nadia Ferrigo
(da “La Stampa”)
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