PD IN LIGURIA, PARTITO CANNIBALE DILANIATO DA LOTTE INTESTINE
NON CONTA VINCERE, MA CHE IL RIVALE INTERNO PERDA… DALLA SCONFITTA DELLA PAITA AL CASO SAVONA… E IN PRIMAVERA SI VOTA A GENOVA
«Giovanni, guarda che hai vinto…». «Ma cosa dici. Dai, non è vero, ci deve essere un errore».
Il primo a non credere a quel che era appena successo era lui.
La trascrizione della telefonata che il neo presidente della Liguria ricevette da un collega giornalista la notte del 31 maggio 2015 è abbastanza fedele, al netto degli scherzi della memoria.
Giovanni Toti aveva chiuso la campagna elettorale sua e del centrodestra in modo certo non sfarzoso. Un brindisi con i notabili di Forza Italia, e poi tutti a casa. L’importante è partecipare, portare a casa un buon risultato e giocarselo all’interno del partito. Il progetto era quello.
Nessuno aveva previsto il suicidio del Pd ligure. La candidata renziana, Raffaella Paita, che si aggiudica primarie molto contestate battendo la sinistra Pd di Sergio Cofferati, un pezzo di partito che si stacca, mettendole contro l’europarlamentare Luca Pastorino, aritmeticamente decisivo nel negarle la vittoria.
L’anticipazione delle lacerazioni che aspettavano la più grande comunità politica di questo Paese.
«Le Regionali hanno allargato una frattura che ha origini lontane. Sto cercando di costruire un clima decente, ma è un lavoro lungo». David Ermini, deputato toscano, amico di Matteo Renzi, anche lui ex Margherita, è entrato nel Pd perchè Walter Veltroni «ha dato la possibilità di essere di sinistra a chi come me non era mai stato comunista».
Lo hanno mandato a fare il commissario del Pd ligure, il partito che ha divorato se stesso. Esistono lavori meno usuranti.
La malattia
Vent’anni fa Ubaldo Benvenuti, primo segretario del Pds a Genova, arrivò a dire che la Quercia era talmente forte che se lui avesse voluto, avrebbe fatto eleggere sindaco il primo muratore che gli si fosse parato davanti.
All’epoca il partito in Liguria contava ventimila iscritti. Oggi a Genova non ne restano che 1.700. Sommando le altre province non si arriva a quattromila.
Il disastro delle Regionali 2015 è vissuto come uno spartiacque. Ma le dinamiche interne che hanno portato alla dissoluzione di un capitale politico importante sono cominciate ben prima.
Anche Pastorino, l’uomo dello strappo, nato e cresciuto dentro l’ex Pds-Ds, ne è convinto. «La classe politica ligure è sempre stata cristallizzata. C’era il tappo. Le nuove generazioni venivano lasciate a consumarsi nei consigli di quartiere. Ma vincevamo, così andava bene a tutti. L’ultimo momento davvero condiviso fu nel 2005 quando Claudio Burlando tornò da Roma per strappare la Regione al forzista Sandro Biasotti. Poi cominciammo a perdere. La bussola, e la nostra unità posticcia».
Buen ritiro
Il convitato di pietra di questo articolo passa gran parte del suo tempo nella casa di famiglia a Torriglia, in Val Trebbia, dove coltiva patate, zucchine e fagioli.
Claudio Burlando è figlio di un camallo e di una contadina, che si conobbero a New York da emigranti.
«Non c’è molta differenza tra il Pd ligure e il Pd nazionale. Dopo il 40% delle Europee Stefano Bonaccini, un ex Pci come me, esordì in direzione dicendo che era un risultato storico. Lorenzo Guerini, che viene da un’altra storia, gli rispose con una battuta: parla per te».
L’ex sindaco di Genova, ministro del primo governo Prodi, due volte presidente della Regione, ha visto nascere l’Ulivo.
«Nel 1994 fui io a far incontrare Prodi e Massimo D’Alema per la prima volta. E ricordo che quando tornò a Bologna il professore andò a trovare la mamma, che lo rimproverò: mica ti metterai con i comunisti. Oggi siamo tornati a quel punto».
Dice che le Politiche del 2013 furono l’ultima occasione della sua generazione. «Abbiamo perso. Non ci può più essere un ruolo guida per noi, dobbiamo rassegnarci».
Nella diatriba interna, scelse Renzi. «E mi accusano di aver scelto Paita. Senza capire che il campo era ormai libero per una classe dirigente nuova, anagraficamente alternativa a me. Tra noi “vecchi” mancavano le candidature forti. Le riserve sono finite».
Il peccato originale
Vent’anni fa a Genova non venne eletto un muratore. Il Pds scosso dell’ingiusta vicenda giudiziaria che aveva estromesso Burlando puntò su un giudice, Adriano Sansa, per dimostrare di non avere scheletri nell’armadio.
«Disse di aver vinto contro il Pds, ma era stato eletto da noi». Dopo fu la volta di un avvocato, Beppe Pericu, per dimostrare di non avere bramosia di potere.
Quando venne il turno di un politico, cominciarono i dolori. Marta Vincenzi superò le consultazioni nei circoli battendo il funzionario Mario Margini, spinto dai vertici del partito.
Ma nel tentativo di sbarrarle la strada, quel che restava dell’Ulivo chiese comunque le primarie e le oppose Stefano Zara, industriale in quota Margherita, nel nome del centrosinistra riformista. Era il febbraio 2007.
Il Pd venne alla luce otto mesi dopo, ma in Liguria fu un parto infelice. Intanto la spinta statalista che aveva sorretto Genova e la Liguria si esaurisce.
La regione e il capoluogo cambiano la loro pelle industriale con una più fragile economia di servizi e turismo. Il Pd invece non si rinnova.
Alle primarie genovesi del 2012 spedisce contro l’invisa Vincenzi la futura ministra Roberta Pinotti. Infatti vince Marco Doria, indipendente e arancione.
Dopo, solo dopo, arriva lo scontro finale delle Regionali. Sospira Burlando: «In America e altrove tra le primarie e il voto viene fatto passare molto tempo, per lavare il sangue. Il Pd sarebbe ancora un bel progetto. Ma se non stai alle regole, salta tutto».
La grande paura
Negli ultimi 5 anni in Liguria hanno chiuso 38 circoli del Pd.
Il politico di riferimento è diventato lo spezzino Andrea Orlando, formalmente più a sinistra di Burlando e molto più orientato alla ribalta nazionale. Anche perchè non è certo profeta in patria. Nella sua città , la corsa a segretario è stata vinta dalla candidata renziana sostenuta dalla sua arcinemica Paita.
A Sanremo e Imperia, dove il Pd approfittò della crisi del berlusconismo piazzando una manciata di sindaci pescati dalla società civile, ora tutti stentano a dichiararsi democratici, costretti ad aggrapparsi a identità locali per reggere il contraccolpo del populismo montante.
«Ci sentiamo un po’ soli» dice Marco Ioculano, giovane primo cittadino di Ventimiglia. L’ultimo bastione è Genova, enclave della ditta bersaniana dove la Cgil è ancora un esercito.
Il Pd locale è convinto che con un Doria-bis si perde, ma non è sicuro che con altri candidati si possa vincere. Simone Regazzoni, giovane filosofo, ex portavoce di Paita, si è messo in proprio autocandidandosi a primarie che nessuno vuole, visti i precedenti. «Pratico una forma di populismo aperto, che dà priorità alla sicurezza e a discorsi chiari sull’immigrazione». Cita il filosofo Slavoj Žižek, siamo noi quelli che stavamo aspettando e tanto gli basta per scuotere il partito.
«Il ricambio generazionale non è una concessione, è qualcosa che devi andarti a prendere». La supplenza di Ermini era finita, ma quel che resta della dirigenza ligure gli ha chiesto di restare.
«Io ci sto, ma non vorrei che la mia presenza diventasse un’alibi per scaricare scelte e responsabilità su qualcun altro». L’unico con le idee chiare è Toti.
Dopo la Regione, si è preso anche Savona, sfilandola ai democratici. Se in primavera vince a Genova, la strada per la successione di Berlusconi diventa un viale alberato. La Liguria è ormai terra di conquista. Per tutti, tranne che per il Pd.
Marco Imarisio
(da “il Corriere della Sera”)
Leave a Reply