Ottobre 27th, 2017 Riccardo Fucile
DOLORE E RABBIA, E’ USCITO DOPO APPENA DUE MESI CARCERE
Ci sono due comunità friulane legate dalla stessa tragedia eppure adesso molto più
distanti dei cinquanta chilometri che li dividono.
Dignano è il paese di Nadia Orlando, la ventunenne uccisa dal fidanzato la sera del 31 luglio. A Muzzana è invece cresciuto Francesco Mazzega, 36 anni, che si era invaghito di quella collega di quindici anni più giovane, e che dopo averle tolto la vita ha vagato in auto per tutta la notte con il corpo nel sedile accanto.
Un delitto orribile, a cui i magistrati stanno ancora provando a dare un senso.
Intanto, altri giudici, hanno deciso che l’assassino, che all’alba di quella notte terribile si era presentato in una caserma della Polizia, poteva attendere il processo da casa, arresti domiciliari con l’obbligo del braccialetto. È uscito a fine settembre, neppure due mesi di carcere, e sarebbero stati anche meno se il dispositivo elettronico fosse stato subito disponibile.
Gli amici di Nadia
«È assurdo che chi si è macchiato di un tale crimine possa stare sul divano a guardare la tv. Chi ha commesso un reato grave come un femminicidio non dovrebbe avere questi privilegi». Matteo Carnelos era uno degli amici di Nadia.
Lui e gli altri ragazzi della comitiva hanno deciso di reagire, così hanno iniziato a raccogliere le firme per due petizioni, una per chiedere ai parlamentari di rivedere la legge e l’altra rivolta alla Regione Friuli Venezia Giulia affinchè si costituisca parte civile nel processo.
Hanno girato piazze e sagre, e convinto una quindicina di Comuni e la Provincia a ospitare la raccolta nei loro uffici. «Abbiamo già 13 mila firme per la petizione alle Camere, 11 mila per quella alla Regione» dice Matteo.
E su Change.org un altro gruppo ha lanciato una campagna online, sessanta mila adesioni in pochi giorni. Sul portone del municipio di Dignano è stato appeso un fiocco rosso, davanti al centro polifunzionale della frazione di Vidulis, dove Nadia collaborava in mille progetti, è sorto un altarino con messaggi, foto e ricordi.
Il Paese dell’assassino
A Muzzana invece non ci sono segni esteriori che ricordano il delitto. Ma tutti sanno cosa ha combinato Francesco e dov’è adesso. È un piccolo comune contadino, la gente parla poco ma quando lo fa è una sentenza.
«A là mià’r preà per un fì muort, che soportà il dolor di un fì c’al ha capat», (meglio piangere un figlio morto che averne uno che ha ucciso) sussurrano.
Il padre, ex dipendente comunale, impegnato in parrocchia, e la madre, escono sempre più di rado. Contatti limitati, il sindaco, il parroco e pochi altri.
«Francesco ha fatto una cosa orribile e ne sta prendendo pienamente coscienza. È dilaniato e non vuole sottrarsi a pagare per quanto ha fatto – assicura don Cristiano Samuele –. Ma questo è anche il momento del rispetto e del silenzio. Tutti devono comprendere quanto è complicato conciliare verità , giustizia, pietà e perdono».
I due sindaci
Cristian Sedran è il sindaco di Muzzaga ed è consapevole che il suo non è un ruolo semplice. «Come amministratore credo di avere il dovere di non alimentare nuovi conflitti. Anch’io dico che probabilmente la legge è sbagliata, ma visto che adesso è così, dobbiamo sforzarci di trovare un punto di equilibrio». Riccardo Zuccolo è invece il primo cittadino di Dignano.
«La nostra gente è distrutta – afferma – , è stata aggiunta nuova sofferenza a un dolore già immane». Quando ha saputo della concessione degli arresti domiciliari a Francesco Mazzega, ha scritto al presidente della Repubblica Mattarella e ora è intenzionato a inserire anche nello statuto comunale l’impegno contro la violenza sulle donne. Due comunità unite da un delitto tremendo, e dalla consapevolezza di non rassegnarsi.
Eppure, in questo momento, così lontane.
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 27th, 2017 Riccardo Fucile
“PARTIRE E’ STATO UN DOVERE, VIENE IL MOMENTO IN CUI CONTRO IL TERRORISMO OCCORRE COMBATTERE”
“Non c’è niente di bello nella guerra, ora che sono a casa lo posso dire. Prima di partire davo per scontato che non sarei tornato. Dopo il primo addestramento, in Siria, mi è stato chiesto di girare un video e di scattare una foto col mio volto da diffondere qualora fossi morto”.
Claudio Locatelli è a Padova da pochi giorni. È appena tornato dalla guerra, “quella vera, che non ha nulla a che fare con quella che si vede al cinema” tiene a sottolineare.
Fatica ad andare a letto presto, dorme poco e non si sente molto bene: “Sento i polmoni pesanti, laggiù respiravamo polvere”. È stato in Siria sette mesi, prima a Tabqa e poi a Raqqa. Obiettivo: liberare il Paese, insieme ai curdi siriani, da Daesh.
Locatelli cresce in provincia di Bergamo, a Curno.
Si iscrive alla facoltà di Psicologia a Padova. Negli anni si appassiona di politica estera (nel 2013 viene premiato a New York, primo classificato su 200, nelle simulazioni di attività diplomatica organizzate dall’Onu) sviluppa un progetto di assistenza per i profughi di Kobane sul territorio turco, dove si reca diverse volte.
Va in Palestina da attivista, in Grecia a sostegno di Tsipras, ma anche ad Amatrice ad aiutare i terremotati.
Poi, la svolta: “Le immagini del genocidio degli yazidi, in Iraq, per mano dell’Isis, con le donne in fuga e il più delle volte deportate in Siria e costrette alla schiavitù sessuale”. Tanto da cucirsi sulla spalla, una volta imbracciato il kalashnikov, oltre allo stemma dell’Ypg (l’Unità di protezione popolare della milizia curda), quello dell’Ypj, le unità di combattimento femminili.
“Partire è stato un dovere. Arriva un momento in cui impegno e dialogo falliscono e combattere diventa l’unica strada da percorrere”.
Così, a fine gennaio, i primi contatti coi curdi. La richiesta di arruolarsi da volontario, test e questionari per valutarne l’idoneità e il 27 di febbraio il volo da Milano per l’Iraq.
“Lì mi aspettavano alcune persone che in pochi giorni mi hanno scortato nel Nord-est della Siria attraverso lunghe marce notturne”. Poi il trasferimento all’accademia per gli addestramenti.
“Niente a che vedere con una scuola militare — ride Locatelli — è una casetta in cui ti insegnano le basi della lingua curda, la storia del Paese e, ovviamente, a sparare”.
Ad aprile il viaggio per Tabqa, che significa sparare per davvero contro qualcuno. “È stata una delle battaglie più violente e sanguinose ed è durata un mese. Il compito del mio battaglione era quello di far avanzare la linea del fronte, agendo col favore del buio. Conquistavamo uno o due edifici, li difendevamo durante il giorno e poi avanzavamo”
A Tabqa, Locatelli sperimenta uno stress fisico ai limiti della sopportazione (nonostante pratichi uno sport estremo, l’Ocr, Obstacle course race). “Dopo un conflitto a fuoco, siamo rimasti senza acqua per due giorni. Anche il cibo scarseggiava, così come le nostre munizioni. Dormivamo poco, c’erano virus intestinali e per un periodo abbiamo fatto turni di guardia di 12 ore con il kalashnikov puntato”.
“Il nostro battaglione operava nel centro della città vecchia, a ridosso del castello. Ogni notte distruggevamo dalle 30 alle 40 mine. Come? Facendole esplodere con le granate”. Ma i miliziani dell’Isis, a luglio, sono ancora in forze.
“Non sempre le nostre incursioni notturne avevano successo. Spesso ci trovavamo sotto una pioggia di proiettili e tanti miei compagni hanno perso la vita. Un combattente arabo mi è morto tra le braccia dopo due ore e mezza di agonia. È un’immagine che non scorderò mai”
Dalla fine di agosto la situazione cambia e la sensazione è che Raqqa possa cadere. “La differenza l’ha fatta la capacità di coordinamento tra le varie forze militari. Ma anche la composizione variegata dell’esercito che combatteva per un’unica causa. In più, erano stati coinvolti i consigli dei cittadini arabi della città e dell’area intorno a Raqqa, che conoscevano il territorio. Senza dimenticare i bombardamenti aerei, a cui noi davamo le coordinate. Isis era stretto in una morsa, circondato e diviso: molti di loro erano andati a Deir el-Zor”.
Con la liberazione di Raqqa, Locatelli lascia la guerriglia alla volta dell’Italia.
“Prima di partire avevo promesso a me stesso e alle persone che amo che se fossi tornato vivo l’avrei fatto dopo la liberazione di Raqqa. Se fosse stato necessario, sarei rimasto lì sette anni”.
E ora, che succede?
“Daesh non è vinto del tutto. Conserva ancora appeal e un enorme potenziale comunicativo. Per questo lo si può e lo si deve combattere anche attraverso la corretta informazione. Io sono un giornalista, il mio impegno sarà costantemente volto contro il terrorismo internazionale”.
E in guerra, bisognerà tornarci?
“Spero di no, ma se sarà necessario lo farò. Sono pronto”.
(da “L’Espresso“)
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Ottobre 27th, 2017 Riccardo Fucile
LA REAZIONE DEL GIORNALE DI OPPOSIZIONE RUSSO ALLE CONTINUE MINACCE E VIOLENZE SUBITE… E’ LA DEMOCRAZIA CHE PIACE TANTO AI SOVRANISTI NOSTRANI
Il direttore di Novaya Gazeta Dmitry Muratov ha deciso di reagire in modo deciso alle
tante violenze e intimidazioni subite dai suoi giornalisti e da altri reporter russi “scomodi” per le autorità .
La sua idea – annunciata ai microfoni di Radio Eco di Mosca – è quella di dotare i reporter della prestigiosa testata investigativa di pistole traumatiche e di fargli seguire un corso per imparare a usarle.
La Kalashnikov ha colto la palla al balzo e oggi ha promesso a tutti i giornalisti uno sconto del 10% sulle sue armi non letali.
L’azienda che produce il famigerato fucile mitragliatore Ak-47 è però andata oltre, suggerendo addirittura quello che ritiene il modello più adatto per i reporter: la pistola MR-80-13T: è simile alla Makarov ma spara proiettili di gomma calibro 45, e inoltre “è perfetta per essere portata con una fodera speciale sotto il soprabito”, scrive la Kalashnikov in un comunicato.
Le parole del direttore di Novaya Gazeta arrivano pochi giorni dopo l’accoltellamento di Tatiana Felghengauer, una reporter simbolo di Radio Eco di Mosca.
La giornalista – spesso critica nei confronti del Cremlino – è stata aggredita lunedì da un uomo che ha fatto irruzione in redazione e l’ha colpita con un fendente al collo. L’assalitore è probabilmente uno squilibrato, ma il clima avvelenato creato dai media filogovernativi, che dipingono i reporter vicini all’opposizione come dei nemici, potrebbe aver avuto un peso non indifferente in questa vicenda.
Anche a Novaya Gazeta sanno bene i rischi a cui vanno incontro facendo il proprio mestiere in modo indipendente e criticando le autorità .
Anna Politkovskaya, che nei suoi articoli denunciava la deriva autoritaria del governo di Putin e le violazioni dei diritti umani nella turbolenta Cecenia, fu uccisa a colpi di pistola il 7 ottobre del 2006. Stava entrando nell’ascensore della palazzina in cui viveva con in mano i sacchi della spesa. Yuri Shekochihin morì avvelenato nel 2003. Anastasija Baburova fu ammazzata, anche lei a pistolettate, nel 2009 nel centro di Mosca assieme all’avvocato difensore dei diritti umani Stanislav Markelov.
Ma la situazione non è poi molto migliorata negli ultimi anni. Appena un mese e mezzo fa, un’altra nota firma di Novaya Gazeta, Yulia Latinina, si è rifugiata all’estero dopo che degli sconosciuti le hanno incendiato l’auto e due uomini in motocicletta le hanno lanciato in faccia degli escrementi urlandole contro di “gettare merda sulla Russia”.
Il direttore Muratov vuole evidentemente cercare di porre un freno a queste continue violenze e garantire ai suoi giornalisti maggiore sicurezza.
“Raggiungeremo un accordo con il ministero dell’Interno” per l’uso delle pistole traumatiche, ha dichiarato. Dal Cremlino è arrivato un commento pacato: “Ognuno – ha detto il portavoce di Putin, Dmitry Peskov – è libero di adottare le misure di sicurezza che ritiene opportune, ma nel rigoroso rispetto della legge”.
Muratov sembra comunque deciso ad andare avanti: “Armerò la mia redazione. Non ho alternative”, ha detto alla radio.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 27th, 2017 Riccardo Fucile
“ELEZIONI IN SEI MESI, NON C’E’ ALTERNATIVA”
“Non c’è alternativa” all’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione: “bisogna ricorrere alla legge per fare rispettare la legge”.
Lo ha detto il primo ministro spagnolo Mariano Rajoy nel suo intervento davanti al Senato, chiamato oggi a votare sull’attivazione dell’articolo 155 della Costituzione che permette al governo di Madrid di sospendere il governo autonomo catalano e commissariare di fatto la regione.
Rajoy ha sottolineato che in Catalogna si è verificata “una violazione evidente delle leggi” e quindi “della democrazia e dei diritti di tutti”. Tutto ciò, ha scandito Rajoy, “ha conseguenze”.
La prima mossa sarà destituire il presidente catalano Carles Puigdemont e tutti i membri del Govern. Poi ci sarà la convocazione di nuove elezioni in Catalogna “il più presto possibile”, entro sei mesi, dopo il commissariamento della regione ribelle che sarà autorizzato oggi dalla Camera alta.
Rajoy ha ricordato che il governo di Madrid ha dato per due volte l’opportunità a Puigdemont di chiarire se avesse dichiarato o meno l’indipendenza nel Parlament catalano, lo scorso 10 ottobre.
Ma Puigdemont “non ha voluto” rispondere e in tal modo è stato lui stesso che ha “scelto” che venga attivato l’articolo 155: “lui e solo lui”, ha rincarato Rajoy, aggiungendo che nessun governo democratico avrebbe potuto rimanere “impassibile come se no fosse successo nulla” di fronte alla sfida indipendentista catalana.
(da “Huffingtonpost”)
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