Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
IL FATTO CHE GRAZIE AL PD L’EX DIRETTORE DEL TG1 FU SALVATO E’ OGGETTO DI DOMANDE SU “DISCREPANZE” TRA I DUE CASI
Quando otto mesi fa il Senato salvò dalla decadenza Augusto Minzolini, ex direttore del
Tg1 condannato per peculato, tra i parlamentari che votarono contro ce ne fu uno che fu più contento di altri: Niccolò Ghedini.
Lo storico avvocato di Silvio Berlusconi aveva assistito in diretta alla rottamazione — grazie ai voti di Fi e Pd — della legge Severino, norma che aveva portato all’espulsione da Palazzo Madama dell’ormai ex Cavaliere.
Una decisione quella dei parlamentati che si potrebbe trasformare nel grimaldello capace di scardinare la tanto odiata legge. “Fatti identici trattati in maniera diversa” disse il legale già pensando a Straburgo.
E oggi diversi giudici della Corte europea dei diritti umani, dove si tiene l’unica e ultima udienza per il ricorso presentato dall’ex premier davanti a oltre 500 persone tra giornalisti, studenti e avvocati, hanno chiesto conto ai rappresentanti del governo italiano sulle “discrepanze” tra il caso di Berlusconi e quello di Minzolini.
Il giudice islandese Robert Spano ha chiesto se le regole possono spiegare “se in un particolare caso può essere esercitato un potere discrezionale” da parte del Senato.
Il magistrato portoghese Paulo Pinto de Albuquerque, ha chiesto ragione di un altro punto sottolineato dai legali di Berlusconi: “La scelta di procedere al Senato con uno scrutinio pubblico malgrado il regolamento preveda un voto segreto in tutti i casi”.
Gli avvocati del governo italiano: “Rispettata la Convenzione”
“Il governo italiano ha rispettato la Convenzione dei diritti dell’uomo, nessuna violazione può essergli attribuita — ha dichiarato il rappresentante del governo, Maria Giuliana Civinini — Il diritto è stato scrupolosamente rispettato”. La decisione della decadenza da senatore e della sua ineleggibilità “non è stata arbitrariaè arrivata al termine di una procedura che ha rispettato tutti i diritti” del Cavaliere. Ma non solo: “L’applicazione della legge Severino non è stata nè persecutrice nè ad personam” ha aggiunto Civinini parlando davanti ai 17 giudici della Corte. Civinini ha attaccato tutti i punti della difesa, in particolare quello della presunta retroattività nell’applicazione della legge Severino. “La legge — ha replicato — si è applicata alle elezioni di febbraio 2013, vale a dire dopo l’adozione della legge”. Civinini ha ricordato la cronologia del caso all’esame della Corte: la condanna di Berlusconi per frode fiscale a ottobre 2012, l’entrata in vigore della legge Severino a novembre, le elezioni a febbraio, la condanna in appello a maggio 2013 e il pronunciamento in Cassazione ad agosto. L’avvocato del governo ha sostenuto che la procedura seguita nei casi di Berlusconi e Minzolini “è stata esattamente la stessa” aggiungendo, secondo quanto riporta l’Ansa, l’affermazione che “la differenza è che per il primo si tratta di una non validazione del risultato elettorale, per Minzolini si tratta di decadenza. Al Senato c’è stata una discussione ampia e libera e bisogna sottolineare che molti anche nel Pd hanno votato contro la decadenza di Minzolini”, per il quale “il Parlamento ha valutato che ci fossero dubbi sull’imparzialità del tribunale d’appello“.
Gli avvocati dell’ex premier: “Legge di natura penale e retroattiva”
Poco prima infatti il legale di Silvio Berlusconi, Edward Fitzgerald, aveva sottolineato che nel caso del Cavaliere “la legge Severino è stata applicata a fatti contestati per gli anni 1995-1998, quindici prima che la legge fosse adottata”.
Berlusconi, ha aggiunto davanti alla Corte di Strasburgo “è stato privato del suo seggio con un voto in un Senato composto a maggioranza da suoi avversari: non era giustizia ma ma un anfiteatro romano in cui una maggioranza di pollice versi o pollici in alto decidono se uno va su o giù”. Per Fitzgerald la legge Severino “è di natura penale e retroattiva”.
Ciononostante la decisione del Senato, ha aggiunto, “non è stata in seguito sottoposta ad alcuna corte”. Il legale aveva anche sottolineato la differenza di applicazione della legge nel caso Minzolini: “Se la legge non è chiara nel suo esercizio c’è ogni volta un rischio reale di abuso. Una situazione non conforme allo Stato di diritto”. Una tesi però smentita dai giuristi italiani e dalla stessa corte Costituzionale.
Il precedente: Gabetti-Ifil
In verità a favore dell’ex Cavaliere potrebbe giocare anche una precedente sentenza della Corte europea dei diritti umani sul caso Grande Stevens, citata dal professor Franco Coppi durante la sua arringa in Cassazione per il processo Mediaset il 18 marzo del 2014.
Il verdetto della Cedu era stato emesso solo il 4 marzo e aveva esteso il principio giuridico del “ne bis in idem” (che prevede che non si possa essere condannati due volte per lo stesso fatto), sinora limitato alle sanzioni penali, anche alle pene amministrative.
La corte di Strasburgo aveva stabilito che, istruendo un processo penale contro Franzo Grande Stevens e Gianluigi Gabetti per Ifil-Exor (poi conclusosi con l’assoluzione), l’Italia aveva commesso un abuso, perchè i due erano già stati condannati in via amministrativa dopo una procedura promossa dalla Consob, l’organo di vigilanza della Borsa.
Di qui, per Strasburgo, la violazione dell’articolo 4 del protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che stabilisce che non si può essere giudicati e puniti due volte per lo stesso reato.
L’avvocato Coppi aveva sostenuto che il verdetto di Strasburgo aveva attinenza con la vicenda del Cavaliere in quanto “affronta il problema della cumulabilità delle sanzioni penali e rileva che qualora una sanzione accessoria, non importa se di natura penale o amministrativa, incide su diritti fondamentali, allora non può essere cumulata con un’altra sanzione simile”.
La Cassazione aveva poi confermato la condanna per l’ex Cavaliere e di fatto messo in moto il meccanismo che lo portò alla decadenza.
“Sono state fatte domande molto acute dalla Corte, alle quali è stata data risposta, ora aspettiamo la decisione con una qualche fiducia” dice oggi Coppi. I tempi per la sentenza “non sono brevissimi noi avremmo tutto l’interesse a conoscere l’esito nel più breve tempo possibile ma non possiamo farci niente”. I termini della questione, ha aggiunto “erano quelli che avevamo rappresentato nei motivi scritti”.
La Commissione di Venezia: “Legge Severino rispetta diritti”
Al vaglio dei magistrati ci sarà anche il parere della Commissione di Venezia. organo d’esperti costituzionalisti del Consiglio d’Europa. L’iter seguito in Italia per decretare la decadenza di Silvio Berlusconi da parlamentare è in linea con le condizioni minime di tutela dei diritti umani.
Un parere tutt’altro che positivo per l’ex premier. Che invece si dice fiducioso: “In queste ore sono davvero sereno e soprattutto fiducioso. Mi aspetto che la Corte di #Strasburgo accolga il mio ricorso. Il mio ruolo nella prossima campagna elettorale è comunque chiaro: sarò in campo per portare il centrodestra al governo del Paese”. Ad aspettarlo c’è Matteo Renzi che conferma di sperare che il Cavaliere possa essere candidabile e poter “fare campagna elettorale”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
I VIGLIACCHETTI PRIMA SI DICONO DISPONIBILI, POI SI TIRANO INDIETRO… IL CORAGGIOSO CHE L’HA SCRITTO NON SI FA AVANTI
Chi ha scritto “Irma la tr…” su una scheda durante una votazione a scrutinio segreto in consiglio comunale a Bari?
L’insulto sessista era rivolto alla consigliera Irma Melini, 38 anni, eletta nel 2014 con Forza Italia e poi confluita nel gruppo misto.
Ora per scovare la mano che si nasconde dietro all’offesa triviale è stata disposta una perizia calligrafica. Ma i consiglieri dicono no.
Quando durante gli scrutini è saltata fuori quella scheda, in Consiglio è scoppiato il caos. La seduta è stata sospesa e Irma Mellini ha ricevuto solidarietà trasversale da tutti gli schieramenti.
Il sindaco, Antonio Decaro, ha condannato l’episodio e ha espresso “solidarietà alla consigliera Melini, in quanto rappresentante delle istituzioni. Perchè chi ha scritto quella parola offensiva, sessista e stupida su quella scheda, ha sporcato l’Aula consiliare stessa, ha svilito l’istituzione che rappresentiamo, a questo punto mi viene da dire, indegnamente”.
La combattiva esponente di opposizione ha poi presentato una denuncia contro ignoti per vilipendio all’istituzione comunale, offesa a pubblico ufficiale e diffamazione aggravata.
Nella querela la consigliera Melini ripercorre la vicenda, elenca i nomi dei consiglieri presenti, potenziali autori della frase ingiuriosa, e allega copia conforme della scheda incriminata.
“Mi ha molto rasserenata l’incontro con il procuratore aggiunto Roberto Rossi e con il procuratore capo Giuseppe Volpe — ha detto — i quali mi hanno rassicurata sul fatto che l’offesa all’istituzione troverà verità . La politica ha dimostrato fino ad oggi di aver fallito nel non aver saputo restituire a se stessa dignità e serietà che ora, in tempi auspicabilmente brevi, ci aspettiamo dalla giustizia”.
Il presidente del Consiglio Comunale di Bari, Pasquale Di Rella ha manifestato la sua totale disponibilità , nelle forme e nei modi che la collega Irma Melini e il suo avvocato riterranno opportuni, alla perizia calligrafia.
Di Rella ha quindi invitato anche “tutti gli altri partecipanti al voto segreto incriminato a manifestare identica disponibilità , per giungere, nel più breve tempo possibile, alla identificazione del responsabile del becero insulto ai danni della Consigliera Melini”.
E ha rivolto inoltre, “un accorato appello all’autore dell’insulto affinchè si assuma pubblicamente la responsabilità dell’insano gesto e chieda scusa ad Irma, al Consiglio Comunale ed alla Città ”.
Fino a ieri tutti i consiglieri, sia di centrodestra che di centrosinistra, avevano annunciato pubblicamente di volersi autotassare per “assumere” un grafologo.
Ma, come spiega Elisa Forte sul quotidiano la Stampa:
Dopo gli annunci, c’è stata la ritirata. Ieri mattina all’ appuntamento per l’ estrazione del nome del grafologo c’ erano 13 consiglieri. Poi, il contrordine. Il capogruppo del Pd Marco Bronzini in sostanza ha detto: «Ci penseranno i giudici». Altro che perizie fai da te, insomma. E così i volontari della caccia al colpevole sono rimasti solo in tre: Fabio Romito del gruppo misto, Michele Picaro, capogruppo di Area Popolare-Ncd, e Francesco Giannuzzi, capogruppo della Lista Decaro Sindaco.
Estratto il nome della grafologa, Mimma Belviso, iscritta nella lista dei periti del Tribunale di Bari da incaricare per esaminare la grafia dei consiglieri che vorranno sottoporsi volontariamente autotassandosi, ora sembra che a pochi interessi «fare l’ esame».
«La magistratura farà il suo lavoro — dice il sindaco Antonio Decaro — ma l’ autore di questo atto è ancora in tempo per chiedere pubblicamente scusa alla consigliera e all’ intero consiglio comunale».
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
“DOVUTI A TRENI GUASTI E IN MANUTENZIONE”… IN PRATICA PER COLPA DEI PARABREZZA, DEI VETRI E DEI DEFLETTORI… SILENZIO DEL COMUNE
«La riduzione dei treni è dovuta alla mancanza di materiale, ovvero a treni guasti e in
manutenzione»: così in un tweet di risposta agli utenti inferociti ieri InfoATAC spiegava (si fa per dire) il caos dovuto ai ritardi per “ridotto numero di treni in circolazione” che ieri ha funestato la linea A e nei giorni scorsi ha colpito la B.
E come mai questi treni sono improvvisamente guasti?
E perchè i guasti ai treni dei giorni scorsi non sono stati riparati?
Ieri un volantino non firmato che circolava nelle stazioni recitava in modo scarno: “Informiamo i gentili passeggeri che non è in corso alcuno sciopero bianco”. Ovvero, non si sta cercando di sabotare. Eppure i treni al lavoro sulla linea A dovrebbero essere dai 28 ai 33 a seconda delle ore di punta e ieri erano dieci di meno.
Cosa hanno quei dieci? Lo spiega Repubblica Roma:
Loro, ci tengono a sottolinearlo, non fanno partire i convogli per motivi di sicurezza. Ora il problema sono i parabrezza, i vetri e i deflettori. Da due anni tra i fornitori e l’azienda c’è un contenzioso sulla durata e l’affidabilità di questi materiali che risultano troppo in fretta deteriorabili.
«Sono ondulati e non assorbono i riflessi della luce – spiegano i macchinisti – creando oggettive situazioni di pericolo. Deformano la visuale e non permettono di vedere bene l’ingresso in carrozza dei passeggeri».
Perciò, quando i conducenti ravvisano questi difetti, dichiarano fuori servizio i treni e non li fanno partire.
E non ci sono ricambi per sanare la situazione e sostituire i pezzi rotti o difettosi. Adesso i macchinisti non sono più disposti ad “abbozzare”. Per loro è una questione di sicurezza e sono terrorizzati all’idea di risponderne civilmente e penalmente.
Insomma, sia chiaro a tutti che non è uno sciopero bianco. Semplicemente, treni che prima erano considerati utilizzabili non lo sono più, come quando si fa uno sciopero bianco.
In coincidenza, tanto per usare un linguaggio ferroviario, con le liti tra sindacato e ATAC perchè nel concordato l’azienda prevede un aumento di due ore di lavoro a settimana per autisti e conducenti.
E mentre in un dossier riservato di ATAC circolato qualche tempo fa si parlava di “un’azione mirata” di macchinisti e dipendenti per denunciare guasti dei mezzi in realtà inesistenti allo scopo di sabotare le metro.
Il documento ha portato all’apertura di 67 procedimenti disciplinari contro lo “sciopero bianco” di alcuni dipendenti.
Molti treni ieri sono rimasti fermi nelle officine a causa di problemi di manutenzione. A partire dai famigerati parabrezza delle motrici di testa, sostituiti dopo l’incidente in banchina dell’11 luglio scorso di Natalya Garkovich, con nuovi vetri ritenuti non idonei a garantire la sicurezza a causa di riflessi.
Le norme in questo parlano chiaro: quando un macchinista ritiene che un mezzo di trasporto viaggia con elementi a bordo che non garantiscono la sicurezza si deve fermare. Una procedura poco trasparente che si presta ad essere utilizzata anche a scopi di protesta non ufficiale. Ma non è uno sciopero bianco, tranquilli.
A proposito: avete per caso sentito dichiarazioni o spiegazioni dall’assessore Linda Meleo o dal presidente della Commissione Trasporti Enrico Stefà no? No, vero?
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
AVEVA DENUNCIATO PRESSIONI DEL M5S PER L’ALLONTANAMENTO DI MANAGER DELL’AZIENDA
«Non ne sentiremo la mancanza, i risultati della sua gestione sono sotto gli occhi di tutti»: il consigliere comunale del MoVimento 5 Stelle Pietro Calabrese saluta così Stefano Bina, il direttore generale di AMA che ieri ha mollato l’azienda dei rifiuti per misteriose “ragioni personali”.
Chissà se Calabrese si rende conto che la “sua” (di Bina) gestione è la gestione del M5S, visto che a nominarlo è stata la sindaca Virginia Raggi.
E chissà se si rende conto che imputare a Bina gli scarsi risultati nella gestione stride con gli annunci trionfalistici dell’assessora Pinuccia Montanari sulla clamorosa efficienza di AMA recuperata in questi mesi.
A questo punto è evidente che uno dei due mente. Ma le cronache ci permettono di ricordare facilmente quando Bina è diventato “unfit” a gestire AMA.
C’è infatti il problema del piano “rifiuti zero” che avanza a rallentatore (raccolta differenziata aumentata solo dell’1,6% in un anno, impasse nella gestione dei materiali post-consumo), ma soprattutto le parole pronunciate mesi sa dal manager di Voghera davanti ai pm che indagavano sull’ex assessora ai risiuti Paola Muraro, ricordate oggi da Repubblica Roma:
In quell’occasione, Bina aveva raccontato le pressioni subite in questi mesi dalla sindaca in persona per tenere lontano dalla plancia di comando dell’Ama un pugno di manager invisi ai 5 Stelle (Lopes, Zotti, Casonato e D’Amico). Un “tradimento”, secondo Raggi, che ha deteriorato i rapporti anche con il nuovo presidente e amministratore delegato Bagnacani. «Avevano assunto una posizione ostile nei miei consronti», ha raccontato Bina in queste ore ai più stretti collaboratori.
Bina è quindi entrato a far parte di quella che oggi il Messaggero felicemente definisce la Spoon River dei 5 Stelle, ovvero il cimitero dei manager e degli assessori che per un motivo o per l’altro hanno lasciato la Giunta Raggi o le partecipate del Campidoglio per dissidi con i 5 Stelle.
Intendiamoci: anche le altre giunte, regionali e comunali, hanno un turn over di responsabili di grande livello. Ma il punto è proprio questo: i 5 Stelle dimostrano così di comportarsi esattamente come quelli che schifano e di cui asseriscono di essere diversi.
Il retroscena più gustoso su Bina è però quello che arriva oggi proprio dal Messaggero
Il caso esplode quando il Messaggero riporta che Bina, interrogato dal magistrato che sta indagando su Paola Muraro, dice di avere avuto segnalazioni dalla Raggi e da esponenti M5S, perchè andassero «epurate» alcune persone. Apriti cielo. Il caso deflagra e Bina decide di scrivere una lettera di dimissioni che devono diventare effettive dal primo gennaio.
Lui, per lealtà all’azienda nega l’esistenza di quella lettera e forse spera anche che gli chiedano di ritirarla. Sbaglia. E i segnali di una frattura insanabile non mancano: in una conferenza stampa a Ostia, proprio prima del ballottaggio per il X Municipio, Raggi, Montanari e Bagnacani presentano il nuovo sistema di differenziata che dovrebbe partire a febbraio. Bina non c’è. L’altra sera, in una trattativa sindacale, per ore Bina è quasi rimasto in silenzio. Gli è arrivata la lettera scritta da Bagnacani che lo allontana a partire da subito, anche se visto che ha un contratto dovrà essere pagato fino a gennaio.
Chissà se è vero che l’allontanamento di un manager dimissionario prevede il pagamento del suo stipendio fino a gennaio.
Di certo anche l’addio di Bina arriva dopo le elezioni di Ostia, come la pubblicazione dei risultati del bando di Piazza Navona.
A pensare male si fa peccato, diceva quello, ma raramente si sbaglia.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
IL MOVIMENTO HA QUALCHE PROBLEMA NELLA COMPRENSIONE DELLA LEGGE
«Alla luce del decreto del Tribunale civile di Palermo, il MoVimento 5 Stelle annuncia
che esercitando un suo diritto farà ricorso per far valere le proprie ragioni. I tempi per aspettare la fine del procedimento e per rinnovare le votazioni purtroppo non ci sono più».
Così Giancarlo Cancelleri all’indomani del decreto del Tribunale che il 19 settembre aveva confermato la sospensione delle Regionarie M5S che lo avevano incoronato candidato Presidente della Regione Siciliana per il MoVimento.
La sentenza dell’8 novembre del Tribunale di Palermo ha però stabilito che Cancelleri ha torto e che quel ricorso è inammissibile.
A chiedere l’annullamento delle Regionarie M5S in Sicilia il 14 luglio scorso era stato Marco Giulivi, che lamentava di non essere stato avvertito del procedimento disciplinare nei suoi confronti aperto dal MoVimento 5 Stelle per la storia del codice etico non firmato all’epoca della sua corsa come candidato consigliere comunale a Palermo.
Giulivi aveva ricordato come nemmeno la sindaca di Torino Chiara Appendino avesse firmato il codice etico, eppure le fu consentito l’utilizzo del simbolo.
Il partito di Beppe Grillo aveva scelto però di non rifare le votazioni, sostenendo che non ci sarebbe stato il tempo quando in realtà per scegliere Cancelleri come candidato le urne elettroniche del M5S erano rimaste aperte per appena 9 ore.
Inoltre Cancelleri in due interviste diverse sulla Stampa e sul Corriere della Sera si era detto invece pronto a ripetere il voto prima e poi l’aveva escluso.
La giudice però aveva detto un’altra cosa: ovvero che non è possibile dire che dal momento che bisogna fare la raccolta delle firme allora non è più possibile rifare le votazioni. Contrariamente a quanto scritto da Cancelleri sul Blog di Grillo il decreto della giudice Spiga spiegava chiaramente questo fatto:
Deve distinguersi l’eventuale incidenza temporale dell’atto prodromico alla consultazione elettorale rappresentato dalle primarie, dall’adempimento di cui all’art. 14 bis co. 5 L.R. 29/1951. Mentre il primo adempimento costituisce procedimento rimesso alle determinazioni dell’associazione sia quanto all’an della celebrazione, sia quanto alle modalità di svolgimento e per il quale nessuna statuizione può essere disposta nel presente giudizio, l’attività di raccolta delle firme necessarie per la presentazione delle liste (adempimento da compiersi entro il trentesimo giorno antecedente a quello previsto per la votazione), sulla base di quanto allegato dalle parti, non risulta ancora avviata, proprio in ragione dell’incertezza sui candidati da inserire nelle liste provinciali e regionali. Conseguentemente è certo che l’attività di raccolta delle firme necessarie per la presentazioni delle liste dovrà comunque compiersi (sia in caso di sospensione che di rigetto della domanda cautelare) nell’arco temporale che residua sino al termine ultimo fissato nella norma. Si tratta quindi di circostanza neutra nella comparazione degli opposti interessi
Invece il M5S, come al solito, ha cercato di rigirare la frittata, dicendo che servivano 3.600 firme entro il 23 settembre quando in realtà la scadenza per la raccolta delle firme era fissata al 5 ottobre, e che il numero minimo di firme necessario è 1.800.
Difficile credere che il MoVimento non potesse raccogliere meno di duemila firme in più di dieci giorni.
Era apparso evidente fin da subito che la volontà di fare ricorso non era dovuta al fatto che il M5S ritenesse di avere ragione quanto a quello di poter prendere tempo e rinviare la decisione del giudice a dopo le elezioni regionali quando ormai per Giulivi ogni possibilità di reintegro in lista sarebbe stata vana.
E così infatti è accaduto.
Però il Tribunale di Palermo, così come i giudici nelle istanze precedenti, ha anche questa volta dato ragione al ricorrente e torto al MoVimento 5 Stelle dichiarando inammissibili il ricorso e l’istanza di revoca del provvedimento di sospensione presentati da Giancarlo Cancelleri e da altri 17 candidati pentastellati all’Assemblea Regionale Siciliana.
Il Tribunale fa inoltre notare che “alla data di proposizione del reclamo il termine per il deposito delle liste era decorso senza che Giulivi vi fosse stato inserito” e che quindi la situazione era ormai irreversibile.
I giudici fanno però notare che il pronunciamento che al momento della sospensione a titolo cautelare il M5S “non aveva ancora tuttavia formalizzato il deposito delle liste dei candidati” e che quini il reintegro di Giulivi fosse ancora possibile dal punto di vista formale.
Il M5S di cui è noto l’innato rispetto delle regole e delle leggi aveva invece deciso di non tenerne e conto e di procedere per la sua strada.
Una strada però sbagliata, visto che l’appello non sospendeva l’efficacia del provvedimento della giudice e soprattutto che il ricorso era stato appunto presentato dopo lo scadere del termine di presentazione delle liste, ovvero in una circostanza in cui la situazione era ormai immodificabile.
Insomma non solo il MoVimento ha agito in maniera opposta a quanto stabilito in via cautelativa dal Tribunale ma è stato riconosciuto che il tentativo di fare ricorso era inammissibile perchè presentato troppo tardi.
Ed è curioso che a fare questi giochetti siano proprio coloro che hanno accusato (salvo poi scusarsi in codice) l’avvocato della controparte di fare “ricorsi da azzeccagarbugli“
.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
L’EX PM: “MA LO FAREI SOLO CON UNA COALIZIONE UNITA”
“A me è stato proposto, a livello locale, il collegio maggioritario nel Molise, se mi posso candidare. Me lo ha detto il Pd, ma solo il Pd, e me lo ha detto Mdp, ma solo Mdp…Potessimo stare tutti insieme quello è un collegio che non regaleremmo alla Destra”. Lo ha detto Antonio Di Pietro, ospite di Agorà su Raitre, lasciando intendere una possibile candidatura.
“Non chiedo di avere un posto nel listino, dove scatta il posto e si viene eletti, io me la voglio giocare nel maggioritario, ma me la voglio giocare con il centrosinistra unito e mi auguro che mi permettano di giocare”.
Così Antonio Di Pietro aveva ribadito anche ieri nel corso di un’intervista che sarà pubblicata sul prossimo numero del periodico italo brasiliano Comunità Italiana, rispondendo a una domanda su una sua possibile candidatura alle prossime elezioni politiche.
“Non si spiega perchè, pur nelle divergenze, non si riesca a trovare un punto di unità – ha proseguito Di Pietro – nel mio Molise gli altri due poli si presenteranno uniti, mentre nel centrosinistra sia il Pd che Mdp si sono dichiarati disponibili a candidarmi al maggioritario, ma ognuno solo per sè e non per l’altro. A quel punto succede che perdiamo tutti – ha rimarcato l’ex leader dell’Idv – e vince quell’altro”.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
LA CLAMOROSA INCHIESTA DELLA PROCURA DI MILANO… COINVOLTO IL COLOSSO TRIBUTARIO ERNST & YOUNG
Duecentoventimila euro per rivelare i segreti fiscali del Governo italiano. 
Un articolo pubblicato del Corriere della sera rivela la clamorosa inchiesta della Procura di Milano che coinvolge una consigliera del ministero dell’Economia e il colosso della consulenza legale tributaria Ernst & Young.
Dal 2013 a gennaio 2015 i contenuti riservati (e destinati in taluni casi a rimanere segreti) delle discussioni sulle normative fiscali in seno al governo e al Consiglio dei ministri sono state, in cambio di un compenso di almeno 220.000 euro, rivelati «in diretta» al colosso della consulenza legale tributaria Ernst & Young da una ex professionista del gruppo entrata a fine 2012 (governo Monti) nella segreteria tecnica del sottosegretario all’Economia Vieri Ceriani, e poi divenuta consigliere in materia fiscale sia (nel governo Letta) del ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, sia (nel governo Renzi) dell’attuale ministro Pier Carlo Padoan, venendo nel giugno 2015 nominata tra i 5 consiglieri di amministrazione di Equitalia spa.
Sulla scorta di mail sequestrate e di telefonate intercettate, a conclusione degli accertamenti i pm milanesi Paolo Filippini e Giovanni Polizzi ritengono quindi di accusare Ernst & Young (Italia) come società , e il suo senior partner e rappresentante italiano Marco Ragusa, di «corruzione» della consigliere ministeriale Susanna Masi, alla quale contestano anche l’ipotesi di «rivelazione di segreto d’ufficio» e il reato di «false attestazioni sulle qualità personali» per non aver dichiarato il proprio conflitto di interessi.
Il flusso informativo, che i pm collegano ai soldi pagati alla consulente del ministro dell’Economia in normali bonifici, va in due direzioni.
Da un lato Masi avrebbe «fornito a Ernst & Young notizie riservate possedute grazie al suo ruolo istituzionale di membro della segreteria tecnica» o «consigliere del ministro», così consentendo alla società di poter offrire ai grossi clienti (specie banche) servizi di ottimizzazione fiscale già parametrati sulle norme in divenire. Dall’altro lato sarebbe avvenuto anche il contrario, e cioè la consigliera ministeriale si sarebbe «resa disponibile a proporre modifiche, a vantaggio di Ernst & Young e dei suoi clienti, alla normativa fiscale interna in corso di predisposizione, nella materia di transazioni finanziarie nella quale era direttamente coinvolta quale membro della segreteria tecnica del ministero».
(da agenzie)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
22 ANNI DOPO LA SENTENZA… URLA CONTRO GIUDICI E VIENE CACCIATO DALL’AULA
“Imputato Ratko Mladic, il Tribunale internazionale delle Nazioni Unite la condanna all’ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità , crimini di guerra”. Dopo la lunga lettura dei capi d’accusa, il presidente della Corte Aphons Orie, freddo e impassibile, ha letto la sentenza.
Nel contempo Mladic, il macellaio di Srebrenica, dava in escandescenze, gridava al processo politico, insultava i giudici come bugiardi, diceva di sentirsi male.
Cosà si è concluso pochi minuti fa l’ultimo e il più atteso processo al Tpi (il Tribunale internazionale per i crimini di guerra) per le guerre che portarono alla fine dell’ex Jugoslavia. A fine anno il Tribunale si autoscioglierà .
La sentenza esaspera le persistenti divisioni nell’ex Jugoslavia: per i bosniaci musulmani e croati Mladic è un mostro, per i serbi di Bosnia, come ha detto il loro leader, il falco Milorad Dodik nemico del presidente europeista della Serbia Aleksandar Vucic, “il generale resterà sempre il nostro eroe, come un de Gaulle”.
Secondo il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Raad al-Hussein, “Mladic è l’incarnazione del Male ma non è sfuggito alla giustizia”.
Questo processo e questa sentenza, ha continuato in tono ammonitorio il giudice Orie, sono una lezione al mondo: “Un avvertimento che chi perpetra simili crimini non sfuggirà alla giustizia, non importa quanto possano essere potenti o protetti, non importa quanto il procedimento legale potrà durare”.
Ratko Mladic è stato riconosciuto dai giudici colpevole di ben dieci degli undici capi d’accusa.
Tra questi ecco i più importanti: responsabile del massacro di Srebrenica chiamato dalla Corte “genocidio” (termine contestato da Belgrado), crimini contro l’umanità¡, crimini di guerra, l’aver avuto un ruolo da protagonista in un’associazione criminale con lo scopo di eliminare la popolazione non serba dalla Bosnia, operazioni sanguinose di pulizia etnica, responsabilità in stupri, stermini, stupri di massa, ruolo decisivo nel bombardamento d’artiglieria effettuato dalle forze serbe di Bosnia per mesi contro la capitale bosniaca Sarajevo, nei mesi di assedio che portarono alla morte di diecimila civili.
Invano Mladic, presentatosi in aula a sorpresa (molti credevano che avrebbe disertato la seduta) in giacca scura cravatta rossa e camicia bianca, ha cercato di disturbare l’ultima seduta del tribunale.
Prima facendo chiedere ai suoi legali un’interruzione per farsi misurare la pressione, dicendo di sentirsi male, poi ritrovando tutta la sua energia e dando in escandescenze, con urla d’insulti contro la Corte.
Adesso il 75enne “boia dei Balcani”, anziano, mal ridotto e malato, finirà i suoi giorni in una cella.
Ha già vissuto molto di piຠdella maggior parte delle sue migliaia di vittime, gli 8372 uomini e adolescenti maschi massacrati a Srebrenica e i civili macellati dalle cannonate a Sarajevo, e le vittime in altre stragi a motivazione etnica in Bosnia.
La guerra di secessione della Bosnia-Erzegovina contro la Jugoslavia, che da Stato federale come il maresciallo Tito l’aveva lasciata morendo era divenuta uno Stato centralista dominato dai serbi e dal loro leader ultrà Slobodan Milosevic, fu la terza dopo il breve conflitto con la Slovenia e il lungo, sanguinoso conflitto con la Croazia.
Truppe di caschi blu delle Nazioni Unite difendevano, ma con poche armi e mezzi, i luoghi più a rischio, come l’enclave musulmana di Srebrenica.
Circondata da preponderanti forze serbobosniache guidate da Mladic, Srebrenica era difesa solo da pochi soldati olandesi.
Invano il loro comandante generale Thom Karremans chiese un intervento aereo Nato per salvare i civili. Alla fine la città capitolò. Mladic minacciò, in caso di raid degli F-16 dell’Alleanza, di sterminare tutti, civili e caschi blu. Presa la città , consentà ai soldati olandesi di evacuarla, e di partire insieme alle donne e ai bambini. Ma trattenne tutti i maschi, adulti o adolescenti.
Il massacro, crudele, preciso, scientifico come una strage nazista, avvenne l’11 luglio del 1995. 8372 persone innocenti furono uccise con colpi alla nuca o raffiche di mitra e le loro salme ammassate in fosse comuni.
Anni dopo, con il reperimento di oggetti personali, esami del Dna, e diecimila elementi di prove e testimonianze di superstiti raccolte dagli inquirenti del tribunale internazionale, 6930 vittime furono identificate.
La guerra in Bosnia, poi la ribellione del Kosovo, portarono alla fine della Jugoslavia e alla caduta di Milosevic. Ma il suo erede liberamente eletto a Belgrado, l’europeista e democratico Zoran Djindjic, fu assassinato da uomini del vecchio regime.
Solo da pochi anni col giovane leader Aleksandar Vucic la Serbia si sta riformando e modernizzando decisa a entrare in Europa e a fare i conti col suo passato. Ancora oggi in Bosnia e Croazia e Kosovo migliaia di vedove e madri di adolescenti uccisi chiedono giustizia.
Per anni Mladic riuscà a nascondersi, prima nei bunker atomici rimasti dall’era di Tito in Bosnia, poi a Belgrado, protetto dai servizi segreti serbi: viveva nella sua bella casetta, da tranquillo pensionato tra passeggiate e partite di ping pong.
Solo molto più tardi la Serbia si decise a collaborare all’esecuzione del mandato di cattura internazionale contro di lui.
Fuggendo di qua e di là¡ nascosto e protetto da complici ed ex commilitoni, alla fine Mladic fu arrestato nel maggio 2011 nel villaggio serbo di Lazarevo, 80 km a nordest della capitale Belgrado. “Avete trovato chi cercavate, sono io il generale Ratko Mladic”, disse agli agenti speciali, malconcio ma arrogante e fiero dei crimini per cui oggi è stato condannato.
(da “La Repubblica”)
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Novembre 22nd, 2017 Riccardo Fucile
RESTA SOLO IL DEGRADO E UN SENSO DI GIUSTIZIA NEGATA… I MANAGER TEDESCHI CONDANNATI NON HANNO SCONTATO UN GIORNO DI CARCERE
Hanno scavato una breccia nel muro del capannone sul retro della fabbrica. Poi hanno
sfondato pareti e tagliato grate per entrare e rubare.
E alla fine sì, ce l’hanno fatta a portare via tutto ciò che poteva avere un valore. Ma non sono riusciti a scacciare quell’odore di bruciato che ancora si sente e che, nè il vento che entra fischiando dalle finestre sfondate a pietrate, nè i dieci anni passati, avevano cancellato.
«I tedeschi pagano bene», dicevano gli operai quando sotto i capannoni della Thyssen lavoravano 500 persone.
Ma i tedeschi volevano chiudere l’impianto. E non facevano manutenzione.
Poi ci fu un’esplosione alla Linea 5, il laminatoio che doveva fermarsi per primo: era la notte tra il 5 e il 6 dicembre di dieci anni fa. Sotto queste campate adesso vuote, dove le sole cose che vedi sono montagne di guaine dei cavi di rame, altri muri sfondati, apparecchiature devastate e scaraventate in giro, sembra ancora di sentire le sirene dei pompieri e delle ambulanze che entrano nel cortile.
E sembra di distinguere il pianto di quegli operai moribondi: «Non lasciarmi qui, fammi uscire, fammi uscire».
Non c’è nulla di letterario in tutto questo. È pura cronaca scritta nei verbali di quella notte in cui qui dentro morirono sette uomini. Si chiamavano: Antonio Schiavone, Giuseppe Demasi, Angelo Laurino, Roberto Scola, Rosario Rodinò, Rocco Marzo e Bruno Santino.
Si parla di tutto questo negli atti, tranne che di quell’odore stagnante ancora sui muri dove c’era la Linea 5. E la fuliggine cristallizzata dal tempo e dal calore dell’esplosione è memoria che neppure i ladri e teppisti hanno avuto coraggio di sfiorare o cancellare a colpi di spray colorati.
Dieci anni dopo nella fabbrica violentata da uomini che non hanno rispetto neanche della morte, non c’è più nulla di quella notte.
I laminatoi sono stati smontati e portati via dalla proprietà . Resistono in parte gli uffici che vedi dalla strada, ancora con i faldoni accatastati sugli scaffali, i telefoni, i cestini per la carta.
Di là , oltre il muro di mattoni paramano rossi, dove lavoravano a caldo enormi rotoli di lamiere d’acciaio, dove sono morti sette uomini, invece ci sono soltanto polvere e scritte sui muri.
Porte sfondate e auto rubate nascoste tra gli alberi del piccolo parco che circondava la fabbrica. E ci sono i carri ponte da 30 mila chili che correvano in alto trasportando carichi che fanno impressione. Ma sono troppo grandi, troppo pesanti, troppo tutto per pensare che qualcuno li possa smontare.
Morirono in sette quella notte che ha insegnato poco in fatto di sicurezza sul lavoro se in questo 2017, ad agosto, le vittime erano già 591.
E se ci pensi mettono i brividi quei cartelli rimasti affissi sui muri. Sono poster in bianco e blu, fissati sopra a lastre d’acciaio, con figure stilizzate di operai: «Attento! Metti la cintura», «Attento! Hai le scarpe corazzate?».
Attenti lo erano anche i padri di famiglia e i giovani uomini che quella sera lavoravano «in straordinario» al laminatoio.
Corsero subito alla macchina quando scoppiò l’incendio. Stesero i rotoli di tubi per l’acqua da usare contro quel fuoco che avanzava. Usarono gli estintori. Ma alcuni erano vuoti. Altri scaduti. E la manutenzione non era stata fatta.
L’olio vaporizzato in aria dalla rottura di un tubo s’incendiò. Un’enorme palla di fuoco travolse tutto e tutti.
Tranne quei cartelli che neanche gli sciacalli hanno avuto il coraggio di toccare. Oppure, ed è più probabile, sono ancora lì perchè non li hanno visti. Li toglieranno, forse, gli operai che da qualche settimana – per ordine della proprietà – ripuliscono i capannoni.
Tre mesi di operazioni. Per portare via tutto: sporcizia e rottami. E magari demolire anche i muri anneriti la notte dell’esplosione.
Giù, sottoterra, dove c’erano i motori dei macchinari che lavorano l’acciaio non c’è più nulla: i predoni sono scesi anche lì, ci sono delle tracce. Resti. Come quegli avanzi di cibo, e le bottiglie vuote di prosecco abbandonate accanto alle scale in metallo che s’inerpicano sulla parete al fondo dell’ultimo capannone.
Non ci sono dubbi: quelle sono tracce di chi ha banchettato qui dentro durante una pausa del saccheggio selvaggio.
Da quella notte di dicembre 2007 non è più entrato nessuno che assistette a quella tragedia della Thyssen.
«Non credo che avrei la forza di farlo neanche oggi. È un ricordo doloroso troppo vivo dentro di me», ti racconta al telefono Antonio Boccuzzi, l’operaio che si salvò per miracolo. Che corse fuori a invocare aiuto. E che oggi da parlamentare dice: «La sicurezza sul lavoro è il primo problema».
Faceva freddo la notte dell’esplosione. Chi abita in zona racconta che certe sere d’inverno c’è gente che va dormire lì dentro: «Ma non si fermano mai troppo a lungo».
Non per rispetto del luogo, ma perchè non c’è più un solo angolo dove stare al riparo, tanti vetri trovi per terra.
E anche a cercarli adesso in questa passeggiata nei capannoni svuotati non trovi giaciglio di disperati che sia uno. Non ci sono tracce passaggi recenti.
Eppure qualcuno ha portato nel cortile sul retro anche una vecchia Panda color amaranto. L’hanno fatta entrare attraverso uno dei tanti varchi aperti nella recinzione. E l’hanno mollata lì, senza che nessuno si premurasse di farla recuperare.
Ecco, questo è ciò che resta della «Fabbrica dei tedeschi», per dirla con Mimmo Calopresti.
(da “La Stampa”)
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