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OK, IL PREZZO NON E’ GIUSTO: LA MELONI RESTA ALL’OPPOSIZIONE

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

“TARDIVA” L’OFFERTA DI SALVINI DI FAR PARTE DELLA COMPAGLIA DI (PRESA IN) GIRO

Fumata nera con Fdi. Sia Di Maio che Salvini hanno trascorso la mattinata di attesa a Montecitorio. E proprio nel Palazzo si è svolto un incontro che avrebbe potuto cambiare i confini della maggioranza, ma che non ha avuto esito positivo: Matteo Salvini ha visto Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, nel tentativo di coinvolgere l’alleato del centrodestra nell’operazione del governo.
Ma Meloni non ha ceduto alle lusinghe, valutando come ‘tardiva’ l’offerta di fare parte del nuovo esecutivo. L’allargamento della maggioranza sarebbe risultata particolarmente utile al Senato, dove la compagine giallo-verde può contare solo su sei voti di margine.
L’agenzia di stampa AdnKronos, inoltre, ha ricostruito il faccia a faccia. “Che volete fare?” avrebbe detto Salvini a Meloni. La risposta, per quanto cordiale, è stata ferma: niente da fare. Questo a causa del programma, che ignora troppi punti che FdI considera centrali. Secondo quanto si apprende, il partito per quanto abbia apprezzato il tentativo di Salvini, ha giudicato il passo “tardivo”, fuori tempo massimo. Il governo Lega-M5s, dunque, non potrà  contare sui voti della Meloni.

(da agenzie)

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ALTRO CHE FLAT TAX, IN ITALIA I RICCHI GIA’ PAGANO MENO TASSE DI TUTTI, IN EUROPA NON E’ COSI, MA SALVINI E DI MAIO TUTELANO I PAPERONI E GLI EVASORI

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

GRAZIE A UNA GIUNGLA DI NORME CHE VIOLANO LA PROGRESSIVITA’, I BENESTANTI SONO GIA’ SUPERFAVORITI RISPETTO A LAVORATORI E PENSIONATI

La favola della goccia. E la realtà  della pagnotta.
La prima è la fortunata immagine utilizzata dai teorici del neoliberismo, dai tempi di Reagan e Thatcher, per giustificare i tagli delle tasse per i più ricchi: dai ceti privilegiati, i benefici sarebbero destinati a scendere verso il basso, come una goccia, premiando anche le classi medie e i più poveri.
Dagli anni Ottanta ad oggi quelle politiche fiscali hanno contagiato il mondo, Italia compresa, nonostante le critiche sempre più forti di molti autorevoli economisti.
Oggi, dopo la crisi esplosa nel 2008, anche l’Ocse, l’organizzazione economica delle nazioni più sviluppate, pubblica poderosi studi pieni di statistiche che smentiscono le profezie neoliberiste: anni di dati mostrano che i miliardari diventano sempre più ricchi, la classe media continua a impoverirsi, i nullatenenti restano in miseria.
Alla prova dei fatti, la favola della goccia è servita solo ad aumentare le disuguaglianze.
I padri della nostra Costituzione, nel 1948, avevano disegnato un sistema fiscale opposto: il principio base, fissato dall’articolo 53 della legge fondamentale, è la progressività .
Significa che i ricchi devono pagare più tasse dei poveri. E il fisco deve seguire questa via maestra per raggiungere obiettivi di equità , giustizia sociale e crescita economica duratura.
Per capirlo basta cambiare esempio e sostituire all’evanescenza della goccia la concretezza del cibo.
Se una famiglia ricca ha mille pagnotte e lo Stato gliene preleva metà , con le altre cinquecento può continuare a ingrassare, far festa e magari lasciarne ammuffire gran parte in dispensa.
Ma se in casa c’è solo una misera pagnotta e le tasse se ne portano via mezza, la famiglia povera la consuma tutta e soffre comunque la fame.
Nella storia dell’economia, questo concetto si chiama “utilità  marginale”: il valore del primo pezzo di ricchezza è altissimo, mentre per ogni aumento successivo continua a scendere.
Per capirlo non c’è bisogno di lauree: basta il buon senso. Al mercato la millesima pagnotta si vende allo stesso prezzo, ma vale infinitamente meno della prima, quella che ci fa sopravvivere.
Per questo, in un’Italia uscita distrutta dalla Seconda guerra mondiale, la Costituzione aveva imposto a tutti i governanti, presenti e futuri, un sistema progressivo: chi ha di più, deve versare di più.
Giusto ed efficiente, hanno scritto e ripetuto generazioni di studiosi. Il quadro previsto dai politici migliori della nostra storia, però, è diventato realtà  con un quarto di secolo di ritardo, nel 1974.
E da allora è stato modificato e distorto da più di 200 leggine. Al punto che oggi il professor Franco Gallo, ex presidente della Corte Costituzionale, parla di «un sistema fiscale incrostato, al collasso, che favorisce chi più ha e ormai non è più nè generale nè progressivo».
La storica riforma del 1974, intitolata al compianto ministro repubblicano Bruno Visentini, è quella che ha creato l’Irpef: un’unica imposta generale, cioè applicabile a tutte le persone, e fortemente progressiva, con tasse che salgono all’aumentare dei redditi.
L’Irpef è tuttora basata su quel sistema a gradini, chiamati scaglioni: per i più poveri, niente tasse. Poi, per ogni fetta aggiuntiva di reddito, la percentuale di prelievo (l’aliquota) sale.
La scala originaria aveva ben 32 gradini e per i più ricchi l’aliquota arrivava al 72 per cento. Rispetto alla precedente stratificazione disordinata di imposte statali e locali, il sistema originario era molto semplificato: la tassa è unica, conta solo il livello di reddito, con poche detrazioni e deduzioni (cioè tagli di imposte applicabili solo ad alcune categorie).
Oggi l’Irpef continua ad essere la tassa più pagata dagli italiani, ma la sua struttura è stata stravolta.
La differenza più vistosa è che in cima alla piramide, per i più ricchi, le imposte sono scese al 43 per cento. Mentre le aliquote si sono ridotte a cinque in tutto: per subire i livelli di tassazione più alti del mondo (dal 38 per cento in su) in Italia basta superare il gradino dei 28 mila euro lordi all’anno, tredicesima compresa. Il risultato è che la classe media è stritolata.
Ad aggravare il problema è l’evasione fiscale, che in Italia è enorme: il 13,5 per cento del Pil, secondo un famoso studio della Banca d’Italia, che ha confrontato i consumi effettivi registrati dall’Istat con i redditi dichiarati al fisco.
Questo significa che gli italiani onesti pagano anche per gli evasori: circa cento miliardi in più. E che il grosso dell’Irpef (82 per cento) si scarica sul popolo dei lavoratori dipendenti (52 per cento) e pensionati (30), che non possono evadere.
«Di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo», commenta Gallo, il massimo esperto di Costituzione e fisco, «bisognerebbe ridisegnare, anzi ricostruire la curva della progressività , per rimediare all’eccesso di pressione fiscale sui redditi di una classe media sempre più impoverita. Invece si continua a sottrarre tassazione all’Irpef con aliquote fisse e imposte sostitutive, che sono il contrario della progressività , dell’equità  fiscale e della giustizia sociale».
Tranne l’Irpef, che nel 2016 ha portato nelle casse dello Stato 166 miliardi di euro, tutte le altre tasse sono regressive.
Cioè non distinguono tra ricchi e poveri: si paga sempre la stessa percentuale.
E senza regole generali: decine di categorie hanno ottenuto privilegi e sconti dai governi amici. Il nostro sistema fiscale è diventato la giungla delle aliquote. Da sempre i meno tassati sono i redditi da capitale: rendite finanziarie, utili societari, guadagni di Borsa. L’aliquota più diffusa è del 26 per cento.
Quindi il ricchissimo investitore che incassa dividendi milionari paga meno tasse della sua impiegata, che sopra uno stipendio di 2.153 euro al mese (lordi) deve sborsare il 27 per cento. Il miliardario americano Warren Buffett, nel 2011, scrisse al New York Times che gli sembrava ingiusto versare metà  dell’aliquota dei suoi impiegati (17 per cento contro 33).
L’iniquità  fiscale però non spaventa i politici italiani, che invece di aumentare hanno tagliato l’aliquota ai capitalisti (era al 27,5).
Sui titoli di Stato si scende al 12,5 per cento, anche qui senza differenziare tra il possidente che accumula decine di milioni e il pensionato con poche migliaia di euro. Anche i premi di produttività  sono usciti dall’Irpef, con un’aliquota unica del 10 per cento che vale sia per i super-bonus dei manager sia per i miseri incentivi concessi, se la fabbrica va bene, all’operaio siderurgico.
Al padrone di una società  che vende la sua quota va ancora meglio: può pagare un’imposta sostitutiva dell’8 per cento.
Senza distinzioni tra chi incassa plusvalenze stratosferiche e il piccolo imprenditore che cede l’aziendina di famiglia. I guadagni di una vita di lavoro pesano come un clic al computer di uno speculatore di Borsa.
Agli studiosi non resta che misurare l’aumento dei privilegi e delle disuguaglianze. «La riduzione o azzeramento delle tasse sui redditi da capitale è una tendenza che si è estesa a tutto il mondo dagli anni Novanta ed è collegata alla globalizzazione», spiega Luciano Greco, docente di scienza delle finanze e direttore del centro di ricerca sull’economia pubblica delle università  di Padova, Venezia e Verona.
«Di fronte alla mobilità  dei capitali finanziari, gli Stati reagiscono con una concorrenza fiscale al ribasso. Nel 1990 si contavano 12 paesi dell’Ocse con un’imposta generale sulla ricchezza netta, oggi ne restano solo quattro».
Le tasse sui patrimoni, cioè sulla ricchezza totale anzichè sui redditi annui, in Italia passano per un’idea vetero-comunista, anche se tra i fautori spicca Luigi Einaudi, capo dello Stato negli anni della ricostruzione, che proponeva di tassare i capitali improduttivi e i latifondi agrari, per spingere i possidenti a creare imprese e lavoro. «Il dibattito sulla tassazione dei capitali segna la storia dell’economia moderna, il primo scontro oppose David Ricardo, che era favorevole, a Malthus, contrario», fa notare il professor Greco. «I paesi dove è nato il capitalismo hanno tuttora imposte rilevanti sulle proprietà  immobiliari e sulle successioni».
Rispetto all’Italia, negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia si paga il doppio o il triplo di tasse sulla casa, con aliquote fino a otto volte superiori per eredità  o donazioni.
E queste imposte pagate dai figli di papà , ovviamente, riducono i carichi fiscali su lavoro e imprese.
Il tradimento della giustizia fiscale promessa dalla nostra Costituzione si completa con altre grandi imposte regressive.
L’Iva ha tre aliquote fisse, dal 4 al 22 per cento, che variano secondo il prodotto, non in base alla quantità  acquistata o al reddito, come le accise sulla benzina: due entrate da 130 miliardi, quasi come l’Irpef. I contributi che servono a pagare le pensioni e gli assegni sociali valgono oltre 220 miliardi, si sommano alle tasse sul lavoro e sulle imprese (formando l’insostenibile cuneo fiscale), ma non sono progressivi: c’è un’altra giungla di aliquote proporzionali fisse, che dipendono solo dal tipo di attività . Indifferenti alla ricchezza dei contribuenti sono anche le addizionali Irpef regionali e comunali (16 miliardi) e la cedolare secca sugli affitti, ferma al 21 per cento sia per il mono-proprietario che per il palazzinaro con decine di immobili.
E in agricoltura i redditi non vanno neppure dichiarati: le tasse si calcolano su astratti valori catastali (estimi), bassissimi, varati nell’Italia dei mezzadri e dei pastori, ma applicabili anche ai moderni viticoltori doc con auto di lusso, camerieri, villa e piscina.
In questa giungla di tartassati e di privilegiati, l’avvocato Sebastiano Stufano, uno dei migliori tributaristi italiani, vede una sola via d’uscita, rivoluzionare il sistema: «Sarebbe giusto e più efficiente ridurre le imposte sul lavoro e sulle imprese, senza cedolari o imposte sostitutive, per aumentare la tassazione sui grandi patrimoni, sulle ricchezze improduttive, possedute da chi non ha fatto nulla per generarle. Un sistema progressivo generale favorirebbe la crescita economica e risponderebbe ai principi di equità  e redistribuzione dei redditi codificati dalla Costituzione».

(da “L’Espresso”)

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ZAGREBELSKY MASSACRA IL CONTRATTO DI GOVERNO: “E’ UN PATTO DI POTERE, SU SICUREZZA STATO SPIETATO CON I DEBOLI E I POVERI””

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE EMERITO DELLA CORTE COSTITUZIONALE: “UMILIAZIONE DEL PARLAMENTO E DEL PRESIDENTE, UNA PARTITOCRAZIA MAI VISTA”

Da una parte c’è il voto del 4 marzo che “ha detto una cosa semplice e una difficile. Quella semplice è un desiderio di rottura; quella difficile è il compito ricostruttivo“. Dall’altra ci sono i poteri di Sergio Marttarella che “teoricamente potrebbe respingere le proposte fattegli. Ma, se lo immagina il caos che ne deriverebbe?”.
Sono gli scenari disegnati da Gustavo Zagrebelsky in un’intervista al quotidiano Repubblica.
Il capo dello Stato riceverà  nel pomeriggio le delegazioni di Lega e Movimento 5 stelle per le consultazioni che potrebbero essere decisive per il governo.
Ma non è scontato che dal presidente della Repubblica arrivi un avallo totale alle proposte di Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
“Sembra si stia configurando un governo a composizione e contenuti predeterminati, totalmente estranei al Parlamento e al presidente della Repubblica. Il quale rischia di trovarsi con le spalle al muro per effetto di un contratto firmato davanti al notaio. Eppure, la nomina del governo spetta a lui. Lui non è un notaio che asseconda muto”, ha detto il presidente emerito della Corte costituzionale.
“Se egli accettasse a scatola chiusa ciò che gli viene messo davanti, si creerebbe un precedente verso il potere diretto e immediato dei partiti, un’umiliazione di Parlamento e presidente della Repubblica, una partitocrazia finora mai vista”.
Quindi, come si comporterà  il capo dello Stato?
“Il presidente, ricordando vicende del passato, ha detto con chiarezza ch’egli intende far valere le sue prerogative. Potrebbe procedere a nuove consultazioni, e poi conferire un incarico corredato da condizioni che spetta a lui dettare, come rappresentante dell’ unità  nazionale e primo garante della Costituzione“.
Zagrebelsky ha qualche perplessità  anche sui contenuti del contratto di governo siglato da Lega e M5s.
“Questo — spiega — non è un contratto ma un accordo per andare insieme al governo. Insomma, un patto di potere, sia pure per fare cose insieme. Niente di male. Ma chiamarlo contratto è cosa vana e serve solo a dare l’idea di un vincolo giuridico che non può esistere”.
A focalizzare la preoccupazione del costituzionalista sono soprattutto “i vincoli generali di bilancio. Mi pare che, sulle proposte che implicano spese o riduzioni di entrate, si discuta come se non ci fosse l’ articolo 81 della Costituzione che impone il principio di equilibrio nei conti dello Stato e limiti rigorosi all’ indebitamento. Ciò non deriva (soltanto) dai vincoli europei esterni, ma prima di tutto da un vincolo costituzionale interno che non riguarda singoli provvedimenti controllabili uno per uno, ma politiche complessive”.
L’ex presidente della Consulta si dice poi “colpito dalla superficialità  con la quale si trattano i problemi della sicurezza. Dall’insieme, emerge uno Stato dal volto spietato verso i deboli e i diversi”, dall’autodifesa all’uso del Taser”, fino alle misure contro l’immigrazione clandestina: il presidente della Repubblica avrebbe motivo di intervenire, “contro involuzioni che travolgono traguardi di civiltà  faticosamente raggiunti”.
Quanto al “comitato di conciliazione“, osserva, è “cosa piuttosto innocua se rimane nella dinamica dei rapporti politici tra i contraenti. Cosa pericolosissima, anzi anticostituzionale, se dalle decisioni di tale comitato si volessero far derivare obblighi di comportamento nelle sedi istituzionali, del presidente del Consiglio, dei ministri, dei parlamentari”.

(da “Il Fatto Quotidiano”)

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COTTARELLI: “VA IN SCENA IL NUOVO STATALISMO, ALTRO CHE GOVERNO DEL CAMBIAMENTO”

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

NON SI PARLA PIU’ DI CONCORRENZA E MERITO, MISURE ASSISTENZIALI FINE A SE STESSE E FAVORI ALLE BANCHE E A PARTECIPATE

I commenti apparsi sulla stampa dopo la pubblicazione della versione finale del «contratto per il governo del cambiamento» si sono focalizzati sulla genericità  e talvolta contraddittorietà  del documento, nato dalla fusione di due anime, quella dei 5 stelle e quella leghista.
Insomma, il contratto non sarebbe caratterizzato da una sua identità , se non da un generico desiderio di cambiamento.
Che il contratto rifletta un compromesso tra due anime è evidente. Ma esiste secondo me un chiaro elemento unificatore e riguarda il ruolo che lo Stato dovrebbe avere nella nuova Italia «pentalegata».
Il contratto prevede un chiaro rafforzamento del ruolo dello Stato nell’economia, in aperta rottura con gli sviluppi degli ultimi due-tre decenni in cui nei principali Paesi avanzati lo stato era arretrato rispetto al mercato.
Beh, non è che nel nostro Paese il mercato abbia poi fatto mai tanta strada. Se da un lato si privatizzavano molte imprese a livello nazionale, dall’altro il «capitalismo degli enti locali» cresceva a dismisura (con le sue oltre 10.000 società  partecipate).
Anche a livello nazionale, la Cassa Depositi e Prestiti ha pian piano ampliato il proprio ruolo come gestore di imprese.
E la prescrizione, introdotta nel 2009, di approvare ogni anno una legge sulla concorrenza ha prodotto una singola legge, quella del 2017, legge peraltro annacquata dal Parlamento rispetto alla versione iniziale. Insomma, non proprio un trionfo del liberismo.
Ma la novità  è che il contratto pentalegato si muove decisamente in senso opposto, verso un allargamento del ruolo dello Stato nell’economia e una deresponsabilizzazione dell’individuo.
Facciamo qualche esempio. Quello più evidente è l’accettazione del principio del deficit pubblico come motore della crescita attraverso più «investimenti ad alto moltiplicatore e politiche di sostegno al potere d’acquisto delle famiglie».
Il contratto comporta aumenti di spesa pubblica di oltre cinquanta miliardi.
Poi però, visto che lo Stato, oltre ad essere presente, deve anche essere generoso viene pure previsto un taglio massiccio della tassazione attraverso la flat tax, la sterilizzazione dell’aumento dell’Iva e tagli alle accise, con un potenziale effetto complessivo sul deficit tra i 110 e i 125 miliardi di euro a regime.
Il contratto non dice quasi nulla sulle coperture: si prevede una copertura attraverso tagli degli sprechi (quali?), una miglior gestione del debito pubblico (come?) e un aumento, e questo è il punto, del deficit, anche se «appropriato e limitato» (che significa?) come dice la versione finale del contratto.
Ma questo è solo l’inizio.
Troviamo nel contratto tante altre cose che ampliano il ruolo dello Stato nell’economia.
C’è la banca per gli investimenti, che dovrebbe fra l’altro effettuare finanziamenti all’innovazione «con il fine di perseguire le politiche di indirizzo del ministero dell’Economia e delle finanze».
Sempre nel settore finanziario, c’e l’intenzione di mantenere il Monte dei Paschi di Siena nell’area pubblica («lo Stato azionista deve provvedere alla ridefinizione della mission… in un’ottica di servizio»).
C’è lo Stato che interviene in soccorso di chi sembrerebbe penalizzato dalle logiche di mercato, compresi i piccoli azionisti delle banche (che verrebbero esclusi da un eventuale bail-in), e, naturalmente chi non ha un reddito superiore ai 780 euro e che quindi riceverebbe il reddito di cittadinanza (fra l’altro, al contrario di quanto scritto da alcuni giornali, il contratto non prevede che il diritto al reddito di cittadinanza duri solo due anni; la formulazione è poco chiara ma sembrerebbe che i due anni si riferiscano al periodo di tempo entro il quale tre offerte di lavoro possono essere rifiutate prima che il diritto al reddito venga meno; dopo due anni si riprenderebbe quindi a contare il numero dei rifiuti).
Il contratto promette anche di ridurre al minimo la compartecipazione dei cittadini alla sanità , anche di quelli che magari potrebbero permettersi di pagare qualcosa.
È anche interessante notare quello che non c’è.
Non si parla di concorrenza come elemento essenziale per migliorare l’efficienza economica.
Anzi si considera necessario superare gli «effetti pregiudizievoli per gli interessi nazionali derivanti dalla direttiva Bolkenstein» (sulla liberalizzazione del mercato dei servizi).
Il contratto non parla quasi mai di merito: dove è andata a finire la proposta dei Cinque stelle di creare un ministero della meritocrazia?
Ora, non sarò certo io a sostenere la sacralità  del mercato. Il mercato va regolato per evitarne gli eccessi. Ma qualche domanda me la pongo. P
ossibile che l’Italia non possa crescere più rapidamente se non facendo più deficit pubblico? Non è pericoloso riporre troppa fiducia nella capacità  dello Stato di risolvere tutti i problemi?
Non si finisce per proteggere posizioni di rendita se non si aumenta la concorrenza? E’ una buona idea tornare alle banche pubbliche?
Cosa eviterà  il loro uso come strumento di interessi politici particolari, come accaduto in passato?
Perchè quelli che fino a pochi mesi fa avevano ripetutamente criticato la mala gestione delle oltre 10.000 società  partecipate dagli enti locali, ora intendono estendere la partecipazione pubblica a livello nazionale?
Un reddito di cittadinanza a vita è appropriato? Non scarica sullo Stato l’onere che gli individui dovrebbero avere di cercarsi un lavoro?
E, perchè se una banca va bene i piccoli azionisti dovrebbero incassarne i profitti, ma se la banca va male deve essere lo Stato e quindi tutti i contribuenti a pagarne le conseguenze?

Carlo Cottarelli
(da “La Stampa”)

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I TECNICI DELLA SQUADRA DI DI MAIO SONO STATI ROTTAMATI ANCORA PRIMA DI INIZIARE

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

PRIMA DELLE ELEZIONI AVEVA INDICATO UNA SERIE DI MINISTRI, ORA A QUESTI E’ STATO DATO IL BENSERITO… DOVEVANO SERVIRE COME SPECCHIETTO DELLE ALLODOLE

Tre giorni prima delle politiche, il primo marzo, Luigi Di Maio presentava con grande pompa a Roma, al Salone delle Fontane, la squadra di governo al completo in caso di vittoria dei cinquestelle alle elezioni.
In tutto 17 ministri, più Di Maio premier, con cinque donne di cui tre in posizioni chiave (Interno, Difesa ed Esteri).
Di quella squadra oggi, nel giorno decisivo in cui Di Maio e Salvini salgono al Colle per proporre il governo Conte, rimane poco o niente: la maggior parte dei ministri tecnici è stata “rottamata” prima ancora di cominciare l’avventura politica.
Di fatto l’unico “promosso” è proprio il giurista Giuseppe Conte che, da un ministero non di primo piano come la Pubblica amministrazione, si ritrova a ricoprire la potenziale casella di premier.
Più amaro invece il destino dei tecnici sedotti e “usati” ai fini della propaganda pentastellata e poi abbandonati lungo la via della lunga e tormentata trattativa con il Carroccio.
Come nel caso di Paola Giannetakis, criminologa e candidata al ministero dell’Interno (nonostante avesse firmato un appello per il sì al referendum costituzionale voluto da Renzi). Il suo posto sarà  preso quasi sicuramente da Matteo Salvini, che punta ad avere mani libere su sicurezza e migranti.
O di Salvatore Giuliano, vulcanico preside dell’Itis Majorana di Brindisi, ministro dell’Istruzione in pectore. U
na casella che probabilmente sarà  invece ricoperta da Vincenzo Spadafora, già  Garante dell’infanzia e adolescenza e nello staff di Francesco Rutelli quando era ministro della Cultura, dal 2016 braccio destro di Di Maio.
Anche alla Difesa l’ipotetico esecutivo cinquestelle prevedeva una donna, Elisabetta Trenta, candidata al Senato per il M5S ma non eletta, vicedirettore del Master in Intelligence e sicurezza dell’Università  Link Campus di Roma.
Ma Di Maio punta ora su Riccardo Fraccaro, deputato cinquestelle e questore anziano in prima linea contro i vitalizi, il cui nome però è in partita anche per il ministero della Semplificazione.
Quanto agli Esteri, la professoressa di sociologia politica Emanuela Del Re sarà  rimpiazzata probabilmente da Giampiero Massolo, diplomatico di lungo corso e da due anni presidente di Fincantieri.
Breve anche la parabola di Andrea Roventini, professore di Economia politica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, a cui era stata promessa la poltrona del ministero del Tesoro.
Allo Sviluppo economico e Lavoro, i nomi di Lorenzo Fioramonti, professore ordinario di Economia politica all’Università  di Pretoria e di Pasquale Tridico, docente di economia del lavoro e politica economica a Roma tre, sono stati di fatto “assorbiti” dal leader cinquestelle Luigi Di Maio, che prenderebbe per sè la guida di un superministero che ne accorperebbe due dopo l’addio alla premiership.
Anche alle Politiche agricole Alessandra Pesce, dirigente del Crea, ente di ricerca del ministero, viene sostituita dal leghista Nicola Molteni. Da sempre infatti questo dicastero è importante per il Carroccio: fu trampolino di lancio anche per Luca Zaia, attuale governatore del Veneto.
Forse gli unici tecnici del “dream team” di Di Maio che potrebbero essere ancora in corsa sono Armando Bartolazzi, anatomopatologo   del S.Andrea di Roma, a cui andrebbe il ministero della Salute, e il generale dei carabinieri che guidò in Campania l’inchiesta sulla “Terra dei fuochi” Sergio Costa per l’Ambiente.

(da “La Repubblica”)

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POPOLARI CONTRO POPULISTI: “STATE GIOCANDO COL FUOCO”

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

WEBER (PPE): “L’ITALIA E’ PESANTEMENTE INDEBITATA, ATTENTI A QUELLO CHE FATE”… PREOCCUPAZIONE IN EUROPA PER IL GOVERNO DEI CAZZARI AL SERVIZIO DI PUTIN

“State giocando col fuoco perchè l’Italia è pesantemente indebitata”. Lo afferma il leader dei Popolari europei (Ppe), Manfred Weber, in una dichiarazione ai media tedeschi precisando che “le azioni irrazionali o populiste”, da parte del futuro governo targato M5S-Lega “potrebbero provocare una nuova crisi dell’euro”.
Weber prosegue lanciando “un appello a restare entro i confini della ragione”.
“Nella vita di tutti i giorni, non c’è alternativa che lavorare a stretto contatto e in collaborazione con i nostri vicini in Europa”, prosegue Weber.
“Per questo spero che le persone finiscano per rendersi conto che il populismo diffonde molte bugie e non offre nessuna risposta costruttiva”, conclude il leader dei Popolari europei, precisando di “rispettare” comunque il “risultato elettorale” degli italiani.
Le proposte dei partiti che si apprestano a formare il nuovo governo in Italia “stanno creando molto nervosismo” ha detto invece l’esponente del consiglio direttivo della Banca centrale europea Ewald Nowotny ad una conferenza a Praga – riferisce Bloomberg – auspicando che le politiche saranno “molto più sagge” delle proposte.
La preoccupazione si respira anche sulla stampa internazionale.
Il Financial Times segnala che “un dilettante della politica, semi-sconosciuto”, Giuseppe Conte, è in pole position per guidare il governo M5S-Lega.
“Italia: il nuovo governo euroscettico sta per essere svelato” titola Le Monde.
Le prime tre pagine e due editoriali, “Teatro all’italiana” e “L’avventura all’italiana”, dominano l’edizione odierna di Le Figaro che analizza “lo scenario che da 10 anni fa sudare freddo a Bruxelles, Francoforte, Berlino o Parigi: una squadra antisistema al potere in un paese della zona euro troppo grande per fallire, diversamente dai casi della Grecia, dell’Irlanda e del Portogallo”.

(da agenzie)

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OGGI SARA’ IL GIORNO DI CONTE PREMIER? MA IL SI’ DEL COLLE NON E’ SCONTATO

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

IL PROF PRIMA CONGELATO CHE E’ RITORNATO IN POLE POSITION… LA LEGA FAMELICA ALL’ASSALTO DELLE POLTRONE

E alla fine il nome per Palazzo Chigi potrebbe essere proprio lui, il candidato “congelato” lunedì scorso da un perplesso Matteo Salvini.
Ovvero l’avvocato e docente universitario Giuseppe Conte, 54 anni, pugliese ma trapiantato a Roma, già  ministro alla Pubblica amministrazione nella squadra di governo presentata da Luigi Di Maio prima delle Politiche.
E le parole di ieri di Alessandro Di Battista su La 7 (“Il nome del premier non vi stupirà , non viene da Marte”) sembrano confermare che sarà  lui “la figura terza”.
Indicata da quel Di Maio che a questo punto prenderà  un superministero, quello che dovrebbe nascere dall’accorpamento del dicastero del Lavoro con lo Sviluppo economico. E che terrà  in pancia anche le Telecomunicazioni, materia che interessa a quello che è rimasto fuori a inveire, a Silvio Berlusconi. Mentre Matteo Salvini è destinato all’Interno.
Ed entrambi i leader dovrebbero essere anche vicepremier, per dare sostegno (e di fatto la rotta) al presidente terzo, Conte. Anche se ieri i boatos, rimbalzati anche sul sito Dagospia, davano come possibile alternativa Paolo Savona, 81 anni, economista con un lungo passato in Banca d’Italia, già  ministro all’Industria con Carlo Azeglio Ciampi.
Ma a quanto emerso ieri sera Savona sarebbe in realtà  il nome indicato dal Carroccio per il ministero dell’Economia. Scelta che però potrebbe lasciare perplesso il Quirinale.
Perchè Savona è un deciso oppositore della linea dell’austerità  dell’Europa. E non solo. Ieri in ambienti politici ricordavano una intercettazione del 2005 in cui Savona, allora presidente della società  di costruzioni Impregilo, parlava con l’economista Carlo Pelanda del Ponte di Messina, per la cui costruzione Impregilo era in corsa. E Pelanda gli riferiva: “La gara per il ponte sullo Stretto la vincerà  Impregilo, me lo ha detto Marcello Dell’Utri”.
Vecchia storia, senza alcuna rilevanza penale. Mentre tutti sciorinano aneddoti su Conte: docente di Diritto privato a Firenze, quindi diretta conoscenza di Alfonso Bonafede, dimaiano doc che a Firenze esercita la professione di avvocato. E che salvo sorprese sarà  il Guardasigilli del governo giallo-verde. È stato lui il vero fautore dell’ascesa di Conte, presenza fissa ai convegni sulla giustizia del M5S.
Avvocato cassazionista, esperto in arbitrati, dal 2013 è membro del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, l’organo di autogoverno del Tar e del Consiglio di Stato.
Ora invece potrebbe diventare premier al posto di Di Maio, che ci ha provato fino a poche ore fa. Ma la Lega ha fatto muro, fino all’ultimo. “Salvini non poteva reggerlo con i nostri” ripetono i leghisti.
Però c’è sempre la possibilità  che Mattarella respinga come troppo leggero il nome di Conte. O di un altro tecnico. E allora Di Maio, come leader del Movimento primo per consensi, tornerebbe in prima fila. Una speranza che il grillino ha conservato, forse. “Ma a quel punto potrebbe saltare il banco”, ammettono M5S. Mentre impazza il totonomi per la squadra di governo.
Con la Lega che pare fare incetta di ministeri pesanti, per compensare il premier indicato dai 5Stelle.
Nell’attesa le ultime indiscrezioni danno agli Affari europei su indicazione del Movimento il giurista Enzo Moavero Milanesi, classe 1954: già  sottosegretario a Palazzo Chigi con Ciampi, ministro proprio agli Affari europei prima con Mario Monti e poi con Enrico Letta. Gradito al Quirinale.
Mentre per gli Esteri rimane favorito Giampiero Massolo, già  direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, anche lui sponsorizzato dal Colle. La Lega invece vuole l’ avvocato Giulia Bongiorno, già  legale di Giulio Andreotti, per le Riforme e i Rapporti con il Parlamento, e prenderà  l’Agricoltura con Nicola Molteni, vice capogruppo alla Camera. Giancarlo Giorgetti, numero due del Carroccio, sarà  invece il sottosegretario “forte” alla presidenza del Consiglio. E sottosegretario a Palazzo Chigi, con delega ai Servizi segreti, sarà  anche il senatore grillino Vito Crimi.
Poi però c’è un nodo, il ministero delle Infrastrutture. Sembrava destinato alla 5Stelle Laura Castelli, deputata e storica No Tav. Ma ieri, forse sfruttando le polemiche sullo stop all’opera, la Lega ha chiesto il dicastero. E il nome di Salvini è Giuseppe Bonomi, ex deputato e assessore a Milano, già  presidente della società  di gestione aeroportuale Sea.
Mentre Castelli potrebbe prendere la Pubblica amministrazione. E c’è battaglia anche per l’Ambiente, con il Carroccio che pare destinato a prenderlo. E sarebbe una ferita, per il M5S che dell’ambiente aveva fatto un totem.
Altro nodo è la Difesa, per cui sarebbe in prima fila il leghista Lorenzo Fontana. Ma il Colle potrebbe preferire un tecnico. Di certo nel governo ci sarà  anche un fedelissimo di Di Maio come il deputato Vincenzo Spadafora, forse a un ministero ad hoc, quello alla Famiglia.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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IL PREMIER “NON ELETTO DAL POPOLO”

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

DOPO TANTO ACCUSARE GLI ALTRI PREMIER, SALVINI E DI MAIO SI SONO RIDOTTI A INDICARE UN ESECUTORE TESTAMENTARIO, MAI VOTATO E CHE IN EUROPA NON CONOSCE NESSUNO

Massimo Franco sul Corriere della Sera oggi segnala il paradosso in cui Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono caduti indicando Giuseppe Conte come presidente del Consiglio del governo Lega-M5S
Entrambi hanno detto di avere vinto il 4 marzo, ma sanno di non averlo fatto a sufficienza per rivendicare direttamente per sè la premiership. La contraddizione nasce dal fatto che, se oggi al Quirinale non ci saranno sorprese sempre possibili, sarebbe un «terzo», non eletto, a diventare premier come soluzione di mediazione e di garanzia.
Può darsi che una soluzione del genere si riveli una scelta felice: sempre che la persona indicata dimostri di avere quella personalità  politica e quella credibilità , necessarie per compensare un’eventuale carenza di gravitas nei rapporti sia con la maggioranza, sia con le istituzioni europee.
La figura di un capo del governo ridotto a «esecutore», soprattutto in una fase cruciale come questa, susciterebbe molte perplessità . E di certo, se finirà  così, a Cinque Stelle e Lega sarà  difficile puntare il dito sul Quirinale, di ieri e di oggi, accusandolo di mandare a Palazzo Chigi chi non aveva un’investitura popolare.
Però, spiega l’editorialista del Corriere, non è certo per questo che M5S e Lega perderanno consensi; nè, soprattutto, che li acquisterà  chi ha perso le elezioni:
Ma chi, tra gli avversari, già  pregusta questo fallimento, convinto che un Paese deluso dalla diarchia nascente M5S-Lega torni verso equilibri e lidi più tradizionali, probabilmente si illude. Il 4 marzo è finito non un equilibrio di governo ma un sistema.
Nel futuro, prossimo o meno, la scommessa non è su un ritorno indietro, ma su passi avanti che ancora non si vedono: da parte di nessuno.
Altrimenti, oggi al Quirinale non salirebbero Di Maio e Salvini, ma i loro avversari prigionieri di schemi e logiche finiti.
Non migliori o peggiori, ma figli del passato.

(da “NextQuotidiano”)

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MA CHE REDDITO DI CITTADINANZA, E’ UN SEMPLICE “SUSSIDIO DI DISOCCUPAZIONE” CHE NON RISOLVE LE COSE

Maggio 21st, 2018 Riccardo Fucile

OCCORRE INTERVENIRE SUL 6,3% DEGLI ITALIANI IN “POVERTA ASSOLUTA” CON INTERVENTI CHE RILANCINO OCCUPAZIONE E DIGNITA’

Appurato che ormai siamo al varo del governo giallo-verde, vale la pena di concentrarsi su quanto viene strombazzato come la grande innovazione politica del tempo: il Contratto e i suoi contenuti.
Campo in cui i due contraenti hanno dato sfogo ai rispettivi umori progettuali.
Il reddito di cittadinanza per Di Maio, il vasto arsenale reazionario per Salvini, che va dalla destra plutocratica della flat tax (a pagina 19 del Contratto. Un provvedimento che sembra un “Robin Hood alla rovescia” che toglie ai poveri per dare ai ricchi) alla destra pistolera della giustizia fai-da-te (pagina 22 del Contratto, la disposizione “difesa domiciliare sempre legittima” da America trumpista che brandisce una 44 magnum).
Mi limito a prendere visione del testo sulla previdenza sociale a pag. 34.
Per appurare che i Cinquestelle, capo politico compreso, quando parlano del tanto conclamato reddito che assicurerebbe cittadinanza a tutti, combattendo l’indigenza, dimostrano chiaramente che non sanno ciò che dicono.
Prendiamo la definizione che ne fornisce, in un volumetto de il Mulino, Stefano Toso, docente di Scienza delle finanze all’Università  di Bologna: “Il reddito di cittadinanza è l’espressione più autenticamente universale di un welfare state che intende fornire una garanzia incondizionata di reddito a tutti, in quanto cittadini, a prescindere da qualsiasi caratteristica socio-economica (reddito, età , condizione professionale, disponibilità  a lavorare)”; cui si contrappone “il reddito minimo” che consiste nel trasferire reddito a soggetti indigenti.
Con l’ulteriore dato che la misura universalistica (Rdc) non è mai stata applicata; quella selettiva (Rm) è presente in quasi tutti i sistemi di welfare, eccetto Grecia e — guarda un po’ — Italia
Reddito di cittadinanza o reddito minimo
Non deve suscitare scandalo se autonominati “rivoluzionari” vogliono realizzare un sistema universalistico che altrove non c’è.
Il problema — semmai — è che quanto presentano non ha nulla del tanto auspicato reddito di cittadinanza.
Difatti, a pag. 34 del Contratto scrivono: “Il reddito di cittadinanza è una misura attiva rivolta ai cittadini italiani al fine di reinserirli nella vita sociale e lavorativa del Paese. Garantisce la dignità  dell’individuo e funge da volano per esprimere le potenzialità  lavorative del nostro Paese, favorendo la crescita occupazionale ed economica. […] Al fine di consentire il reinserimento nel mondo del lavoro, l’erogazione del Reddito di Cittadinanza presuppone un impegno attivo del beneficiario che dovrà  aderire alle offerte di lavoro provenienti dai centri dell’impiego (massimo tre proposte nell’arco temporale di due anni) con decadenza del beneficio in caso di rifiuto”.
Insomma, nient’altro che un semplice sussidio alla disoccupazione.
Ma la perdita di lavoro richiede altro per essere sanata: una politica industriale che promuova occupazione, di cui nel Contratto non c’è traccia.
Soprattutto difetta la consapevolezza di chi davvero ha bisogno di un reddito per sopravvivere e riacquistare dignità : la distinzione tra povertà  relativa (largamente occupazionale) e povertà  assoluta, dipendente da quello che il sociologo Bauman chiamava “sottoconsumo”.
Una sacca di miseria insanabile con l’occupabilità  perchè composta da soggetti non autosufficienti e spesso abbandonati (disabili e anziani in primis).
Stando ai calcoli Istat 2016 una popolazione pari al 6,3% dell’intero campione nazionale. Ma di cui nessuno sembra interessarsi.
Forse perchè Di Maio, mal consigliato da qualche boccalone delle università  virtuali che bazzica, confonde RdC e New Deal.
Qui non si tratta di un volano per lo sviluppo, come l’investimento anticiclico keynesiano, ma di un semplice sussidio di sopravvivenza; socialmente benemerito quanto economicamente inerte.
O forse perchè i poveri assoluti non vanno a votare, quindi risultano un target di nessun interesse.
Anche per giovani politicanti in carriera.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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