Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
CONSULTAZIONI A GEOMETRIA VARIABILE SULLA LETTERA UE… SALVINI E DI MAIO D’ACCORDO SOLO NEL DIRE NO A TRIA
Risposta last minute. D’altronde il governo l’aveva detto, e si appresta a farlo. La risposta all’Europa sulla bocciatura della manovra arriverà in un Consiglio dei ministri fissato per la sera dell’ultimo giorno utile.
Una lettera-fotocopia rispetto al Documento programmatico di bilancio già inviato – e rispedito al mittente – non potrà esserlo. Perchè la temperatura dei rapporti tra Roma e Bruxelles è già bollente e ricopiare, passaggio dopo passaggio, i numeri e le considerazioni già note avrebbe l’effetto della presa in giro.
Effetto, questo, che andrebbe ad accelerare l’avvio della procedura d’infrazione. Una reazione a catena dagli effetti alquanto devastanti perchè i tempi della deflagrazione si farebbero più brevi e coinciderebbero con uno dei passaggi più delicati per Lega e 5 Stelle, cioè la campagna elettorale per le europee.
Di questo hanno parlato stamattina Giuseppe Conte e i due vicepremier. In un vertice. Anzi no, in due incontri separati.
Già perchè la mattinata del lunedì passa con la maggioranza gialloverde impegnata, con pazzoidi stop&go, a rintuzzare e spegnere di volta in volta un cortocircuito comunicativo totale.
Alle 8.30 viene fatto filtrare che i tre si vedranno a breve a Palazzo Chigi. Passano un paio d’ore, e fonti del Movimento 5 stelle ribattono che non c’è nessunissimo incontro della war room della maggioranza.
Finita qui? Macchè. Perchè poco dopo ecco che viene diramata una nota del ministro dell’Interno, a colloquio con il premier insieme a Giancarlo Giorgetti: “Un incontro positivo, servito per fare il punto sulla Libia e la manovra, in vista dell’invio della lettera”.
Al quale sarebbero stati presenti anche Riccardo Fraccaro, Laura Castelli, Massimo Garavaglia e Armando Siri.
Contemporaneamente ecco materializzarsi Di Maio. Sì ma a Montecitorio, dove ha rilasciato qualche battuta ai giornalisti, plasticamente, per far vedere materialmente che lui con Salvini proprio non era.
Il tempo di metabolizzare, ed ecco l’ultima coda: il ministro del Lavoro e dello Sviluppo ha attraversato la strada che separa la Camera dalla presidenza del Consiglio, ha incontrato Conte e con lui ha parlato, quando ormai il collega leghista viaggiava verso altri lidi. Parlato di cosa? Ma di “manovra e Libia”, ovviamente. Immaginate il tutto con la musichetta del Benny Hill Show in sottofondo, ed ecco che avrete confezionata la sit-com mattutina del cambiamento.
Ironia a parte, un quadro paradigmatico per capire come nel governo ci siano due gambe diverse, due comunicazioni diverse, due agende sostanzialmente diverse.
Al punto che poi si è dovuto correre ai ripari: specificare che un vertice a tre alla fine sì ci sarà , ma solo martedì pomeriggio, al ritorno di Conte da Palermo a vertice sulla Libia concluso. Forse a quattro.
Perchè il grande assente del vasto programma di incontri mattutini del presidente del Consiglio non ha mai incluso Giovanni Tria. Chi lo ha sentito parla di un mite professore diventato furibondo. Perchè gli venivano sottoposti lanci di agenzia sclerotici su vertici di cui non aveva nessuna contezza.
Lo stesso ministro d’altronde fino all’ultimo ha provato a limare l’intransigenza di Di Maio e di Salvini. Che su questo si sono uniti, facendo fronte comune e rifiutando qualunque tipo di cedimento sul deficit e sui saldi generali della legge di bilancio.
Come uscire, allora, dalla scadenza obbligata della risposta all’Europa senza mettere a repentaglio l’architettura dei conti che mira a scardinare le regole europee con la stima del deficit al 2,4% nel 2019?
Ci saranno solo piccole aggiunte, accorgimenti, ma l’impianto non cambierà . Nella lettera, che sarà firmata dal ministro dell’Economia, il numero che ha permesso a Matteo Salvini e Luigi Di Maio di creare quello spazio necessario per finanziare il reddito di cittadinanza e la quota 100 per le pensioni resterà lo stesso.
In questo ambito interverrà una sorta di cordone sanitario: sarà scritto, cioè, che quel tetto non sarà oltrepassato. Come garantirlo? Con un doppio meccanismo: una verifica trimestrale della spesa e l’utilizzo dei risparmi che potrebbero derivare dai due Fondi destinati al reddito e alle pensioni.
Se cioè, durante il 2019, la spesa aumenterà a dismisura, mettendo a repentaglio il limite del 2,4% a fine anno, ecco che potranno intervenire i risparmi.
Una via, tuttavia, fragile perchè rischia di togliere ossigeno alle due misure e questo Di Maio, ancora più di Salvini, non vogliono affatto permetterlo. Ma soprattutto futuristica e futuribile, perchè andrà – nel caso – a impattare sui saldi dell’anno prossimo, correggendo lievemente la rotta di numeri che al momento rimangono scolpiti sul granito.
Un terzo argine — ancora in fase di valutazione — sarebbe quello di indicare dei generici tagli di spesa automatici che interverrebbero nel caso di esplosione della spesa.
Tagli che, tuttavia, si vogliono scongiurare perchè avrebbero un prezzo elettorale pesantissimo, senza considerare le difficoltà ataviche che si sono riscontrate quando si è trattato di tagliare la spesa pubblica.
Lo sa anche il governo visto che nella manovra le forbici sono riuscite solamente a tagliuzzare poche centinaia di milioni di sprechi. E lo stesso esecutivo sa che se non si inseriscono i dettagli dei tagli, questo elemento più che rasserenare Bruxelles rischia di aumentarne l’ira.
Resta, quindi, il deficit al 2,4 per cento. Tria ribadirà nella lettera che il calcolo si basa sulla crescita tendenziale (+0,9%) e per questo il deficit non schizzerà anche se la crescita, alla fine, sarà inferiore a quanto previsto.
Resteranno immutate anche le stime sulla super crescita, con il Pil a +1,5% il prossimo anno. Neppure le valutazioni dell’Ufficio parlamentare di bilancio, che ha confermato una stima inferiore (1,1%), aggiungendo ulteriori rischio al ribasso, hanno portato Di Maio a Salvini a ipotizzare una strada diversa.
Non a caso i 5 Stelle dalle audizioni in Parlamento hanno estratto e rilanciato solo la parte che gli sorride, quella cioè di un impatto positivo del reddito di cittadinanza sul Pil dello 0,2%-0,3 per cento.
All’orizzonte si profilano anche fibrillazioni interne.
La presidente della commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco, sta portando avanti una sua personale proposta di legge. Reca il titolo: “Disposizioni per la semplificazione fiscale, il sostegno delle attività economiche e delle famiglie e il contrasto dell’evasione fiscale”.
Norme che si accavallano, qua e là contraddicono, il decreto fiscale come anche l’impianto del decreto semplificazioni.
Sta andando avanti, nonostante la sessione di bilancio sia già stata aperta. Si fermerà : ma costituisce una sorta di “manifesto” alternativo dell’ala critica dei 5 stelle.
Forse solo i prodromi di un problema che verrà alla luce nelle prossime settimane.
Ma nella war room verdestellata la bussola è una e la convinzione politica resta la stessa: reddito e quota 100 generano crescita e bisogna insistere su questo percorso. Non la pensa così Tria, che nelle ultime ore ha spinto per inserire nella lettera una stima del Pil più bassa.
Alla fine — spiegano fonti di governo — alzerà bandiera bianca di fronte al pressing di Salvini e Di Maio. Cambiare qualcosa per non cambiare nulla.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
SI CERTIFICA IL BLUFF DI SALVINI… IL MONITORAGGIO DEL GARANTE NAZIONALE DELLE CARCERI
Nel 2017 l’Italia è riuscita a rimandare nei paesi d’origine 6.514. Nel 2018, nonostante i
quotidiani annunci del ministro Salvini, la macchina dei rimpatri ha rallentato procedendo a un ritmo tra i 450 e i 500 al mese.
Al 31 ottobre sono 5306 gli irregolari espulsi che sono stati accompagnati indietro.
Sono i dati aggiornati della Direzione centrale dell’immigrazione della Polizia diffusi oggi dal garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà che, come prevede la legge, ha effettuato il monitoraggio delle operazioni di rimpatrio verificandone la legittimità e le condizioni, a cominciare dalle informazioni tempestive date agli immigrati destinatari dei provvedimenti di espulsione e poi di rimpatrio.
Diciassette i voli monitorati, tutti charter, alcuni con scorta internazionale, altri senza, che hanno portato indietri 524 persone.
Dalla lista dei voli si evince come dei quattri accordi che sulla carta l’Italia ha in atto con i paesi di provenienza dei migranti funzionano solo quelli con la Tunisia e con la Nigeria.
Dei 17 voli monitorati dal garante tredici sono partiti alla volta di Tunisi o Hammamet, quattro verso Lagos.
Il garante ha girato le proprie raccomandazioni alla polizia di Stato sottolineando la necessità che in tutte le fasi di un’operazione di rimpatrio, o almeno nei voli charter, siano previsti mediatori linguistici.
Altra questione fondamentale riguarda la necessità che ai rimpatriandi sia comunicato in tempo utile la data della partenza in modo da consentire loro di organizzarsi per il viaggio, avvisare i familiari e l’avvocato, per venire a conoscenza di eventuali aggiornamenti riguardanti la loro posizione giuridica.
Di estrema delicatezza l’uso delle misure coercitive nel corso delle operazioni di rimpatrio forzato solo come misura di ultima istanza o in caso di serio e immediato rischio di fuga.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
LA DONNA DI ORIGINE SOMALA AVEVA UN FOULARD IN TESTA E VOLTO SCOPERTO, MA IL DIRETTORE RAZZISTA L’HA MANDATA VIA ILLEGALMENTE… L’AZIENDA PRENDE LE DISTANZE, MA DOVREBBE SEMPLICEMENTE CACCIARE IL RAZZISTA A CALCI IN CULO
Ai razzisti a volte va male. Di rado, purtroppo, ma a volte capita. È capitato ad esempio al dottor Giuseppe De Luca, direttore dell’ufficio postale di Corso di porta Ticinese, angolo via Urbano III, nel centro di Milano. Uno degli uffici postali storici della città .
A lui è andata male perchè la donna nera che ha cacciato dal suo ufficio postale non solo è cittadina italiana, ma fa anche da badante a due anziani avvocati.
Che, nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni.
Ma c’è di più, per lo sfortunato direttore delle poste di via Urbano III: uno dei due avvocati ha il figlio che da un po’ di anni fa il giornalista. Cioè chi scrive, qui.
Allora, andiamo con ordine.
È venerdì 2 novembre, sono le 2 del pomeriggio e la signora O. decide di passare all’ufficio postale durante la sua pausa pranzo, prima di andare da mio padre. È correntista, deve sbrigare delle pratiche.
La signora O. è un’italiana di origine somala, da 25 anni nel nostro Paese. Nera, di religione musulmana, quando è fuori casa indossa un foulard che le copre i capelli e le spalle, lasciandole libera la fronte e libero il mento. Non è neppure un hijab, tecnicamente. È proprio un semplice e sobrio foulard sul capo.
Quando è in casa di mio papà se lo toglie – O. è tutto fuori che una bacchettona, la conosco da molti anni. Quando esce invece si mette questo benedetto foulard, per rispetto, dice.
Ogni tanto, quando scendiamo in farmacia o per un’altra commissione, qualcuno ci guarda di traverso, ma poi la smette; una volta una signora in un negozio le ha detto di tornarsene a casa sua (che peraltro è a Milano); ma finora O. non era mai stata cacciata via da nessuna parte. Ora è successo.
Il 2 novembre, appunto, in corso di porta Ticinese, nel pieno centro di Milano. O. è entrata nell’ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare.
Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L’impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di lui è passato il direttore dell’ufficio postale, il signor De Luca appunto.
Un uomo di mezza età , con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì – e anche subito.
O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perchè. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all’ingresso? . Via via, fuori di qui.
O. se n’è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere. Poi gli ha raccontato l’accaduto. Mio padre ha 88 anni. Mio zio 85. Insieme hanno fatto gli avvocati per piu di mezzo secolo. E insieme erano quando O. spiegava quello che le era successo.
Sono scesi, l’ufficio postale è sotto casa. Hanno chiesto di parlare col direttore.
Dopo un po’ ce l’hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c’era il cartello all’ingresso.
Il cartello all’ingresso mostra un casco e un passamontagna barrati. Non si può entrare con il volto coperto. Il che ha senso, per ovvi motivi di sicurezza.
Peccato che O. non avesse affatto il volto coperto. Non ce l’ha mai. Ha un foulard. Non ha il capo coperto più di una suora. Anzi meno. Chissà se il direttore De Luca caccia anche le suore, quando entrano nel suo ufficio postale. Non credo.
In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell’ufficio.
Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard – che lascia libero tutto il viso – nella foto della carta d’identità : documento che mio padre ha dato al direttore di quell’ufficio, ma che non è bastato a farla entrare.
Lo dicono poi la legge (numero 533 del 1977) e la giurisprudenza: la questione si pone ovviamente in caso di burqa (volto interamente coperto) e anche di niqab (solo gli occhi scoperti), ma non in caso di hijab (volto scoperto fino al mento compreso), figuriamoci di foulard (solo capo coperto).
Lo dice perfino la delibera regionale lombarda del 2016 (fatta da una giunta leghista) che proibisce l’ingresso negli uffici pubblici solo a chi «non è riconoscibile».
Lo dice infine l’azienda Poste Italiane che, contattata, ha specificato che ovviamente il divieto d’ingresso nei suoi uffici riguarda chi indossa caschi da moto, passamontagna o in generale ha il volto coperto e non riconoscibile: nessun altro.
O. all’inizio non voleva rendere pubblica questa denuncia. “Ho paura di avere problemi”, diceva. È normale.
È orribile ma è normale, in questa Italia, in questo periodo. Poi si è convinta, con fatica. Pensando ai suoi figli. Italiani come lei, neri come lei. Che in questo Paese sono nati e vivranno.
Non si può lasciare passare tutto, se si pensa a loro. Ha chiesto l’anonimato in pubblico, almeno. E spero che lo si possa mantenere, per lei che ha curato mia mamma fino all’ultimo giorno.
Spero che la questione si risolva in una indagine aziendale interna, niente tribunali.
I due anziani avvocati possono testimoniare, se Poste Italiane crede. Anche se forse impedire senza motivo a una persona di entrare in un locale pubblico qualche profilo legale ce l’ha, in effetti. Ma non importa.
Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano.
Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone.
Anche se in realtà il direttore d’ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà .
(da “L’Espresso”)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
UGO FORELLO SOSTITUITO DOPO UNA RIUNIONE CARBONARA
Il capogruppo del MoVimento 5 Stelle a Palermo ed ex candidato sindaco grillino Ugo Forello
è stato rimosso dall’incarico per le critiche a Di Maio e Di Battista. Forello, secondo quanto racconta, è stato rimosso dopo una riunione carbonara dei consiglieri M5S a cui non sono stati invitati nè lui nè Giulia Argiroffi, consigliera considerata a lui vicina.
I consiglieri comunali e di circoscrizione del M5S di Palermo, si legge pagina Fb del M5s Palermo, “nel ringraziare per il lavoro svolto in questi mesi il consigliere Ugo Forello, augurano buon lavoro al nuovo capogruppo Antonino Randazzo. La rotazione, già prevista dall’inizio della consiliatura, sarà formalizzata domani presso gli uffici competenti con il passaggio di consegne. La rotazione del capogruppo è una delle caratteristiche distintive del M5S, volta a garantire ai vari portavoce eletti di rappresentare il Movimento 5 Stelle in Consiglio comunale”.
Lui invece su Facebook non sembra aver colto la normalità del gesto: “Tutto ciò rappresenterebbe un gravissimo sgarbo politico e istituzionale che, guarda caso, sarebbe avvenuto all’indomani di una mia presa di posizione sulle polemiche e attacchi indifferenziati ricevuti dai giornalisti. Non vorrei pensare ad un’azione di epurazione e sanzionatoria volta a impedire a ciascuno di noi, nel rispetto dei ruoli e funzioni, a esprime un libero pensiero. Rimango capogruppo fin quando non si svolgerà una riunione regolare e legittima fra i cinque consiglieri comunali di Palermo, gli unici che hanno il potere di decidere se, quando e come sostituire il capogruppo. Fino a prova contraria e salvo che la decisione presa all’unanimità in una precedente riunione del gruppo verrà confutata da tutti, quando rassegnerò le dimissioni a sostituirmi sarà la Cons. Giulia Argiroffi“.
Non solo: Forello tiene anche a fare nomi e cognomi dei presunti mandanti dell’operazione: “Non vorrei che dietro tutto ciò ci fosse la mano dei vertici del movimento, certo è un fatto notorio che quello che (allo stato illegittimamente) verrebbe indicato come capogruppo è persona di fiducia e legata a doppio mandato con il deputato all’Ars, Giancarlo Cancelleri, e il deputato nazionale, Adriano Varrica“.
È utile ricordare che l’oggi deputato Varrica era uno dei protagonisti della polemica interna al M5S palermitano che poi è sfociata nella storia delle firme false per la corsa al sindaco e all’esclusione di Nuti, Di Vita e Mannino dal M5S.
Grillino della prima ora, molto vicino ai deputati regionali, in particolare a Claudia La Rocca che, assieme al collega Giorgio Ciaccio, ha scelto di collaborare con i pm, Varrica all’epoca era vicino a Forello; oggi evidentemente la politica li mette su due sponde opposte.
Qualche tempo fa aveva abbandonato il M5S Igor Gelarda, sindacalista di polizia che era passato alla Lega Nord accusando Forello di essere “fuori linea” rispetto al M5S nazionale sulla questione politica dell’immigrazione.
Oggi tocca a Forello, che a questo punto è già un passo fuori dal M5S.
(da agenzie)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
ORMAI STA EMERGENDO LA VERITA’: CI SAREBBERO VOLUTI 28 MILIARDI E NON SOLO 9 PER MANTENERE LE PROMESSE
Ora che la povertà è stata finalmente abolita possiamo concentrarci su quanto il Reddito di Cittadinanza — che non è ancora ben chiaro come verrà erogato — contribuirà ai bilanci delle famiglie che potranno beneficiarne.
Secondo quanto annunciato dal MoVimento 5 Stelle il reddito di cittadinanza verrà erogato a quelle famiglie che hanno una dichiarazione ISEE fino a 9.369 euro l’anno. Questo significa quindi che tutte quelle persone a fine mese avranno un reddito pari a 780 euro? Non proprio.
Per capirlo bisogna farsi una semplice domanda. Quante sono le persone che hanno presentato un’ISEE al di sotto della soglia necessaria per poter accedere alla misura di sostegno al reddito del governo del Cambiamento?
Il Sole 24 Ore oggi ha calcolato che sono 2.5 milioni le famiglie che nel 2016 hanno presentato una ISEE (il che non significa che siano tutti i possibili beneficiari) al di sotto dei novemila euro.
Qualcuno potrebbe aggiungersi nel corso del 2019, presentando la domanda anche se non l’ha presentata prima proprio in virtù della possibilità di percepire il RdC ma i numeri sono più o meno quelli.
Nella manovra del Popolo sono stati stanziati, sempre per il 2019, nove miliardi di euro.
A conti fatti quindi mediamente a chi otterrà il Reddito di Cittadinanza andranno 293,85 euro al mese per nove mesi (non per 12 mesi perchè il RdC dovrebbe partire da aprile 2019).
Una quota pro-capite non molto più alta di quella percepita dai beneficiari del Reddito di Inclusione (il REI) che è mediamente intorno ai trecento euro.
A differenza del RdC il REI però ha una platea decisamente più ridotta (378mila famiglie per un totale di 1 milioni di persone in difficoltà ) e ha uno stanziamento di 1,8 miliardi di euro.
Il MoVimento 5 Stelle ha sempre specificato che il Reddito di Cittadinanza non sarebbe stato utilizzato unicamente per portare gli italiani in stato di povertà dal reddito zero al reddito minimo (780 euro mensile) ma anche come “integrazione” al reddito per portarlo a quota 780 euro.
Questo però significa che qualora il governo avesse intenzione davvero di innalzare a 780 euro il reddito di tutti coloro che sono a ISEE zero (riuscendo ad evitare i furbetti) in questo modo se ne andranno 4,4 dei 9 miliardi stanziati per il Reddito di Cittadinanza.
Secondo l’Istat, nel 2017 c’erano infatti circa 5 milioni di individui in povertà assoluta. Non tutti sono italiani (si stima che gli stranieri siano circa 1,3 milioni) e il governo potrebbe limare le cifre escludendo i residenti di origine straniera, ma ad oggi non ha ancora deciso come farlo.
In questo modo però tutti coloro che invece non hanno ISEE ordinario pari a zero (ma al tempo stesso hanno presentato una ISEE inferiore ai 9mila euro) saranno costretti ad accontentarsi di molto meno dei 294 euro mensili di cui sopra e vedranno l’eventuale assegno di sostegno ridursi fino a 184 euro al mese (sempre in media).
I conti insomma continuano a non tornare.
Già qualche giorno fa lo Svimez — l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno — aveva calcolato che per poter dare il Reddito di Cittadinanza nella forma originariamente prevista e promessa dal MoVimento 5 Stelle a tutti i nuclei famigliari con una dichiarazione ISEE inferiore ai 6000 euro (quindi con criteri più stringenti di quelli dichiarati dal governo) sarebbero stati necessari sedici miliardi di euro, quasi il doppio dello stanziamento nella manovra di bilancio gialloverde.
Che quello che il governo si appresta a varare possa essere un Reddito di Cittadinanza dimezzato è evidente anche da un confronto con quello che il partito di Di Maio diceva e scriveva in campagna elettorale.
All’epoca il M5S scriveva che il RdC avrebbe dovuto costare tra i 15 e i 17 miliardi di euro l’anno. Importo per cui c’era già la famosa “bollinatura” da parte della Ragioneria dello Stato.
Un fact checking de LaVoce.info però aveva calcolato che il costo complessivo della manovra sarebbe stato di circa 29 miliardi di euro se davvero, come scritto nel Ddl presentato dal MoVimento, si vuole tener conto dei criteri Eurostat per il calcolo della soglia di povertà relativa.
Qualche giorno fa anche Federico Fubini sul Corriere ricordava come «I dati sui redditi messi a disposizione dal Dipartimento delle Finanze permettono di calcolare che servirebbero 28 miliardi per mantenere la promessa dell’integrazione a 9.360 euro l’anno per i circa tre milioni di redditi fino a mille euro l’anno».
Cifre alla mano quindi il Reddito di Cittadinanza sarà molto più limitato — per importo o per numero di beneficiari — rispetto a quanto previsto e promesso.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
“SUI NUMERI CI SIAMO SBAGLIATI, PREVISIONI SMENTITE DAI FATTI”… L’OPERA NON SI GIUSTIFICA MA SI FARA’ LO STESSO PER L’INTERESSE DI COSTRUTTORI E OPERATORI FERROVIARI
Dicono che il tempo è galantuomo. Forse è così. Un esempio è quello che emerge dalla lettura
di un recente documento dell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino — Lione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri: “Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi 10 anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione europea, siano state smentite dai fatti, soprattutto per effetto della grave crisi economica… Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni”.
Scusateci, sembrano dire i tecnici dell’Osservatorio, ma dieci anni fa era impossibile prevedere quanto sarebbe emerso in seguito.
Verrebbe da domandarsi il perchè, allora, fare delle previsioni. Ma la realtà è molto diversa da quella narrata nel documento.
A più riprese, fin dal 2005, ben prima dunque del manifestarsi della recessione economica, sono stati pubblicati numerosi contributi di economisti dei trasporti che mostravano come le previsioni di crescita dei traffici fossero del tutto irrealistiche. Vediamo alcuni numeri: in base alle previsioni governative, nel 2035 lungo il corridoio di progetto del Tav avrebbero dovuto transitare oltre 43 milioni di tonnellate di merci su strada e 15 su ferrovia; a metà secolo i flussi su strada avrebbero dovuto superare gli 80 milioni di tonnellate.
Tali previsioni erano incoerenti con l’evoluzione storica dei traffici.
La strada aveva conosciuto una rapida crescita fino alla prima metà degli anni ’90 dello scorso secolo per poi declinare, anche in ragione del forte aumento dei pedaggi praticati lungo i trafori del Monte Bianco e del Frèjus, nella decade successiva e ulteriormente in quella immediatamente alle nostre spalle.
Il traffico su ferrovia ha oscillato tra gli 8 e i 10 milioni di tonnellate tra il 1980 e il 2000.
Tra il 2003 e il 2011 la galleria è stata ammodernata con forte limitazione della circolazione dei convogli. Nel periodo successivo alla conclusione dei lavori non si è registrata alcuna ripresa dei flussi che si attestano attualmente intorno ai 3 milioni di tonnellate (lo stesso valore registrato a fine anni ’60).
Seppure in clamoroso ritardo, sono ora gli stessi proponenti del progetto a porsi l’interrogativo.
Leggiamo ancora nel documento: “La domanda che i decisori devono farsi è invece un’altra: ‘Al punto in cui siamo arrivati, avendo realizzato ciò che già abbiamo fatto, ha senso continuare come previsto allora? Oppure c’è qualcosa da cambiare? O, addirittura, è meglio interrompere e rimettere tutto com’era prima?’ ”.
Purtroppo, la risposta che viene data all’interrogativo sembra dare ragione a quanto scrisse Henry Kissinger: “Quando un ragguardevole prestigio burocratico è stato investito in una politica è più facile vederla fallire che abbandonare”.
Si riesuma la retorica dell’anello mancante della rete ferroviaria europea, si ripropongono le già più volte confutate motivazioni ambientali a favore del trasferimento modale dalla strada alla ferrovia.
La qualità dell’aria, a Torino, in Valsusa come in tutta Europa è in miglioramento da decenni. Tale tendenza proseguirà in futuro grazie alla progressiva sostituzione dei mezzi più inquinanti: dieci veicoli pesanti a standard Euro VI emettono come uno solo Euro 0.
Gli storici utenti del Frèjus e del Monte Bianco sanno molto bene come la qualità dell’aria nei trafori un paio di decenni fa fosse ben peggiore di oggi. Si può aggiungere, tra parentesi, che la qualità dell’aria al confine italo-francese dove il 93% delle merci utilizza la strada è migliore rispetto a quella lungo il confine svizzero.
Si riafferma di voler proseguire lungo il percorso intrapreso senza peraltro fornire alcun nuovo elemento quantitativo a sostegno della fattibilità economica del progetto. Per molti decenni non si registrerà infatti alcun vincolo di capacità sulla rete stradale, unico fattore che potrebbe, a determinate condizioni, giustificare l’opera.
I tunnel stradali sul versante occidentale delle Alpi sono infatti utilizzati all’incirca per un terzo ed è in fase di realizzazione una seconda “canna” del traforo del Frèjus che allontanerà ulteriormente la prospettiva di saturazione delle infrastrutture esistenti.
Come dimostra l’esperienza svizzera, neppure con il tunnel di base la ferrovia potrebbe diventare competitiva con la strada e dovrà continuare a essere pesantemente sussidiata.
Non solo, come ebbe a dire tempo fa l’ex presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta: “Toccherà al governo mettere in campo politiche di disincentivo economico del trasporto su gomma a favore di un trasferimento modale, specie delle merci, verso il ferro”. Politiche di disincentivo economico significano un incremento artificiale dei costi del trasporto: è come se un’impresa incapace di contrastare un concorrente di maggior successo chiedesse al governo di incrementare il livello di tassazione che grava sui servizi prodotti da quest’ultimo per metterlo fuori mercato o, peggio, ne impedisse l’acquisto.
La conferma del progetto non può che essere giudicata un pessima scelta: costosa per i contribuenti che pagheranno prima per la costruzione e dopo per incentivare l’uso dei servizi, dannosa per l’economia come dimostrano le analisi costi-benefici indipendenti e irrilevante per l’ambiente.
Ma assai gradita dai costruttori e da un manipolo di operatori ferroviari che vorrebbero prosperare a nostre spese.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
LA POSSIBILITA’ DI VENDERE AI PRIVATI I BENI SEQUESTRATI AI CLAN E’ UN FAVORE AI MAFIOSI
È sufficiente fare la voce grossa con i migranti, trasformati in un’emergenza che non c’è e in un capro espiatorio, e fingere che non esistano altri problemi per la sicurezza degli italiani.
Così il ministro dell’Interno Matteo Salvini — leader della Lega e (vice)premier — è riuscito a fare approvare anche dai pentastellati il suo Decreto sicurezza: il Senato gli ha già dato ragione; presto toccherà alla Camera, pare il 23 novembre.
Intanto Salvini con quel decreto ha fatto scomparire per magia un’emergenza vera, quella rappresentata dalle mafie italiane.
Eppure queste possono contare, ogni anno, su circa 150 miliardi di ricavi e, a fronte di poco più di 35 miliardi di costi, su utili per oltre 100 miliardi. Roba da fare invidia ai colossi europei dell’energia.
Andiamo per punti.
Prima di tutto, Salvini nel decreto non si occupa delle cosche, perchè evidentemente non ritiene che minaccino la sicurezza. D’altra parte, da qualche anno, i mafiosi non fanno stragi, sanno come votare, cercano di passare inosservati. Quindi non ci rendono “insicuri”.
Pertanto — siccome un decreto legge si fa quando ci sono i presupposti di necessità e urgenza — non citare i boss significa considerarli un problema secondario.
Al contrario, chi vive nei territori in cui questi incombono è ben consapevole del fatto che sono al lavoro, eccome. Silenziosamente le mafie riciclano — corrompendo chi è necessario corrompere — centinaia e centinaia di milioni nel cuore delle città d’Italia e d’Europa: acquistano ristoranti, negozi, hotel, palazzi, farmacie, imprese.
Indisturbate o quasi, nonostante alcune inchieste e processi in corso nel Nord della Penisola, un tempo caro alla vecchia Lega, mostrino quanto siano in forma pure a quelle latitudini.
Però, nel decreto Salvini introduce una novità : la possibilità di vendere anche a privati i beni confiscati ai clan.
Secondo Enzo Ciconte — fra i massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose, docente universitario di Storia della criminalità organizzata — è “un segnale molto pericoloso”.
Spiega: “Chi conosce le dinamiche mafiose sa bene che mettere in vendita questi beni significa offrire su un piatto d’argento la possibilità ai mafiosi di riacquistarli. Se ciò avvenisse — e con molta probabilità avverrà — lo Stato ne risulterebbe sconfitto perchè i mafiosi potrebbero dire ai paesani: avete visto? Noi siamo più forti dello Stato. E questa è una verità incontrovertibile. Qualche speculatore potrebbe comprarsi grosse fette di questo patrimonio, magari utilizzando ditte e imprese ‘partecipate’ dal capitale mafioso”.
Il rischio è stato segnalato anche da Libera, cartello di associazioni contro le mafie fondato da don Luigi Ciotti, in un comunicato scritto subito dopo all’approvazione da parte del Senato: “La vendita di quei beni significherà una cosa soltanto: che lo Stato si arrende di fronte alle difficoltà del loro pieno ed effettivo riutilizzo sociale, come prevede la legge. E il ritorno di quei beni nelle disponibilità dei clan a cui erano stati sottratti, grazie al lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, avrà un effetto dirompente sulla stessa credibilità delle istituzioni. Insomma, un vero regalo alle mafie e ai corrotti”.
Gli enti del terzo settore (che perseguono senza finalità di lucro finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale) e il mondo dell’associazionismo da settimane criticano la “liberalizzazione“. Anche perchè il terzo settore pare il vero bersaglio (neppure tanto velatamente) del capo della Lega.
Antonio Maria Mira, giornalista esperto di mafia e antimafia, sempre su Avvenire ricorda che il boss Francesco Inzerillo nel 2008 diceva: “Cosa più brutta del sequestro dei beni non c’è”.
Quel sequestro è uno strumento nato nel 1982 grazie a Pio La Torre (segretario del Pci siciliano pagò con la vita: è stato assassinato dalla mafia nel 1982, insieme all’autista Rosario Di Salvo); fu rafforzato nel 1996 dalla legge 109, che prevedeva l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie.
Oggi coinvolge quasi ottocento associazioni (tra cui Libera), cooperative sociali, diocesi, parrocchie, gruppi scout. Ed ecco spuntare il sedicente Decreto Sicurezza, che riprende una proposta avanzata nel 2008 dal ministro leghista dell’Interno Roberto Maroni (governo Berlusconi IV). Le proteste allora la bloccarono. Però (che strano) l’ha ritirata fuori Salvini.
Scrive Mira: “C’è la concreta preoccupazione che i beni messi all’asta non solo siano venduti a prezzi svalutati (chi in certe zone avrà il coraggio di partecipare all’asta per la villa del boss locale?), ma che l’acquisto possa essere realizzato da professionisti, imprenditori, faccendieri, che agiscono formalmente nella legalità , ma in realtà operano per il riciclaggio del denaro sporco (…) Alcune inchieste giudiziarie hanno smascherato i tentativi delle mafie di reimpossessarsi dei beni confiscati (…) Per i mafiosi perdere i beni è una perdita di credibilità , di autorità , di controllo del territorio. Soprattutto se poi vengono utilizzati a fini sociali, dando lavoro pulito ed educando i giovani alla legalità ”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
NEGATO IL PARERE AL GOVERNO: “NON INDICA IN MODO CHIARO LE SCELTE OPERATE E LE MODALITA’ PER RAGGIUNGERE GLI OBIETTIVI”
«Diteci cosa volete fare, come e perchè»: non solo dai motivi ma nei toni si capisce che il
Consiglio di Stato (specificatamente, la Sezione consultiva per gli atti normativi) non appare esattamente convinto di quel che intende fare il ministero dei Beni culturali.
Perchè il quesito — che modifica un solo articolo della legge in vigore —, propedeutico al decreto non è riuscito a spiegare gli intendimenti del ministro.
In ballo, lo «Schema di regolamento recante modifiche al decreto ministeriale 11 dicembre 1997, n. 507_Norme per l’istituzione del biglietto d’ingresso ai monumenti, musei, gallerie, scavi di antichità , parchi e giardini monumentali dello Stato».
In sostanza, la vexata quaestio delle domeniche gratuite care a Dario Franceschini che Bonisoli prima ha detto di voler abolire e successivamente modificare in modo che… a suo tempo si capirà
Un passo determinante — premette il Mibac — è costituito dal «presente schema di decreto, secondo quanto rappresentato nella relazione ministeriale, che “si prefigge l’obbiettivo di razionalizzare i periodi di libero accesso ai luoghi della cultura, non già nel senso di una loro diminuzione, ma in quello di una diversificazione e modulazione dell’offerta di ingresso libero, in considerazione delle specifiche esigenze del bacino di utenza e del territorio di riferimento di ciascuna istituzione culturale, ferma restando la finalità di incoraggiare lo studio e la conoscenza dell’arte, quali stimoli e occasioni di un generale progresso civico e culturale”».
La «scaletta» delle modifiche: all’abolizione dell’ingresso gratuito ogni prima domenica del mese, il libero accesso sarà riservato alle «prime domeniche dei mesi da ottobre a marzo» con l’aggiunta della «settimana dedicata alla promozione dei musei e dei luoghi di cultura, compresa nei mesi da gennaio a marzo, individuata ogni anno dal ministro».
Ai direttori viene delegata la facoltà di stabilire ulteriori otto giornate o, in alternativa, fasce orarie di libero accesso in una misura complessiva corrispondente a otto giornate, tenendo conto delle esigenze dell’utenza e delle caratteristiche del territorio e che il relativo calendario sia adeguatamente pubblicizzato. Seguono la riduzione a due euro del costo del biglietto e la redazione di una relazione biennale sull’andamento della nuova regolamentazione.
Un affastellarsi di competenze e di date sul quale il Consiglio di Stato annota che «non appaiono sufficientemente chiari gli obiettivi delle modifiche previste, nè sembrano adeguatamente definite le modalità attraverso le quali potranno essere raggiunti».
In sostanza, non avete specificato «se l’obiettivo prioritario sia quello della riduzione dei costi della misura, o quello di una maggiore flessibilità dell’offerta di ingresso libero, oppure quello di assicurare la migliore gestione del flusso degli utenti anche a tutela dei beni culturali»
Segue la stoccata: «Pertanto, posto che il regolamento ministeriale deve indicare in modo sufficientemente chiaro le scelte operate e le modalità di raggiungimento dei relativi obiettivi, si invita l’amministrazione ad esplicitare nelle relazioni di accompagnamento al decreto e nella scheda tali profili».
Quindi la prima versione del decreto è da cancellare.
I soldi infine. Nemmeno questi si prestano a un giudizio. Perchè il Mibac, annota il CdS, «ha fornito delle tabelle da cui emergerebbero “maggiori introiti” (rectius minori costi) a seguito dell’introduzione delle modifiche proposte per un ammontare di euro 5.353.930,26». Peccato che manchino «elementi esplicativi».
Per questi motivi, il Consiglio di Stato «sospende l’espressione del parere in attesa che l’amministrazione fornisca gli elementi e i chiarimenti» richiesti.
Insomma, se lo sarà ancora, il ministro torni alla prossima sessione d’esame.
(da Globalist)
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Novembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
LE PRIME TRE CITTA’ SONO CROTONE, NAPOLI E PALERMO… ADDIO 780 EURO, SARANNO IN MEDIA DI 294 A FAMIGLIA
Ci sono 34 province del Sud e delle Isole in testa alla classifica dei potenziali beneficiari del reddito di cittadinanza.
A Crotone quasi una famiglia su tre ha un Isee sotto 9mila euro, così da rientrare nel perimetro della misura annunciata dal governo. A Napoli, Palermo e Caltanissetta rientra una famiglia su cinque. A Bolzano invece ha i requisiti solo una famiglia su 40, a Belluno e Sondrio una su 30.
Lo dimostra l’analisi del Sole 24 Ore del lunedì sugli Isee ordinari presentati in Italia nel 2016 (ultimo dato disponibile) e monitorati dal ministero del Lavoro.
Secondo quanto annunciato, potranno avere il reddito di cittadinanza le famiglie con un Isee fino a 9.360 euro annui.
I valori dell’Isee sono storicamente più bassi nel mezzogiorno. Dove i redditi sono inferiori, la disoccupazione più alta, le famiglie mediamente più numerose e i depositi bancari e gli investimenti minori
Fatte 100, dunque le famiglie con i requisiti d’ammissione, 49 sono al Sud e nelle Isole, 19 al Centro e 32 al Nord.
Venendo al nodo risorse, se l’obiettivo è raggiungere i due milioni e mezzo di famiglie con i requisiti di Isee, i 9 miliardi stanziati si traducono in una media di 294 euro mensili a famiglia.
Meno della metà dei 780 euro indicati come obiettivo e meno dei 305 euro che sono oggi il valore medio del reddito d’inclusione. Con la differenza che quest’ultimo va a una platea sei volte più piccola, di 370mila famiglie.
(da “NextQuotidiano”)
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