NERA ITALIANA CACCIATA DALL’UFFICIO POSTALE: “LEI QUA NON PUO’ ENTRARE”
LA DONNA DI ORIGINE SOMALA AVEVA UN FOULARD IN TESTA E VOLTO SCOPERTO, MA IL DIRETTORE RAZZISTA L’HA MANDATA VIA ILLEGALMENTE… L’AZIENDA PRENDE LE DISTANZE, MA DOVREBBE SEMPLICEMENTE CACCIARE IL RAZZISTA A CALCI IN CULO
Ai razzisti a volte va male. Di rado, purtroppo, ma a volte capita. È capitato ad esempio al dottor Giuseppe De Luca, direttore dell’ufficio postale di Corso di porta Ticinese, angolo via Urbano III, nel centro di Milano. Uno degli uffici postali storici della città .
A lui è andata male perchè la donna nera che ha cacciato dal suo ufficio postale non solo è cittadina italiana, ma fa anche da badante a due anziani avvocati.
Che, nonostante gli anni, sono scesi dal loro appartamento per constatare con i loro occhi se quello che denunciava la donna era vero. Era vero: e loro ne sono stati testimoni.
Ma c’è di più, per lo sfortunato direttore delle poste di via Urbano III: uno dei due avvocati ha il figlio che da un po’ di anni fa il giornalista. Cioè chi scrive, qui.
Allora, andiamo con ordine.
È venerdì 2 novembre, sono le 2 del pomeriggio e la signora O. decide di passare all’ufficio postale durante la sua pausa pranzo, prima di andare da mio padre. È correntista, deve sbrigare delle pratiche.
La signora O. è un’italiana di origine somala, da 25 anni nel nostro Paese. Nera, di religione musulmana, quando è fuori casa indossa un foulard che le copre i capelli e le spalle, lasciandole libera la fronte e libero il mento. Non è neppure un hijab, tecnicamente. È proprio un semplice e sobrio foulard sul capo.
Quando è in casa di mio papà se lo toglie – O. è tutto fuori che una bacchettona, la conosco da molti anni. Quando esce invece si mette questo benedetto foulard, per rispetto, dice.
Ogni tanto, quando scendiamo in farmacia o per un’altra commissione, qualcuno ci guarda di traverso, ma poi la smette; una volta una signora in un negozio le ha detto di tornarsene a casa sua (che peraltro è a Milano); ma finora O. non era mai stata cacciata via da nessuna parte. Ora è successo.
Il 2 novembre, appunto, in corso di porta Ticinese, nel pieno centro di Milano. O. è entrata nell’ufficio postale. Ha preso il numeretto. Si è seduta ad aspettare.
Quando è arrivato il suo turno, è andata al bancone. L’impiegato stava per iniziare a sbrigare, quando dietro di lui è passato il direttore dell’ufficio postale, il signor De Luca appunto.
Un uomo di mezza età , con i capelli bianchi e gli occhiali. Ha guardato O. e ha preso a urlare che lei se ne doveva andare di lì – e anche subito.
O., che è sempre e entrata senza problemi in tutti gli altri uffici postali, ha chiesto perchè. Quello ha ricominciato a gridare che lì non ci poteva stare con il foulard che aveva: se ne andasse subito, non aveva visto il cartello all’ingresso? . Via via, fuori di qui.
O. se n’è andata piangendo. È salita a casa di mio padre in uno stato psicologico difficile da descrivere. Poi gli ha raccontato l’accaduto. Mio padre ha 88 anni. Mio zio 85. Insieme hanno fatto gli avvocati per piu di mezzo secolo. E insieme erano quando O. spiegava quello che le era successo.
Sono scesi, l’ufficio postale è sotto casa. Hanno chiesto di parlare col direttore.
Dopo un po’ ce l’hanno fatta. Il direttore però ha sbraitato anche con loro. E no, quella donna non poteva entrare, doveva andarsene, c’era il cartello all’ingresso.
Il cartello all’ingresso mostra un casco e un passamontagna barrati. Non si può entrare con il volto coperto. Il che ha senso, per ovvi motivi di sicurezza.
Peccato che O. non avesse affatto il volto coperto. Non ce l’ha mai. Ha un foulard. Non ha il capo coperto più di una suora. Anzi meno. Chissà se il direttore De Luca caccia anche le suore, quando entrano nel suo ufficio postale. Non credo.
In ogni caso, il volto di O. era perfettamente riconoscibile e lei aveva pieno diritto a entrare in quell’ufficio.
Non lo dico io, lo dice lo Stato italiano che ha timbrato una foto con quel foulard – che lascia libero tutto il viso – nella foto della carta d’identità : documento che mio padre ha dato al direttore di quell’ufficio, ma che non è bastato a farla entrare.
Lo dicono poi la legge (numero 533 del 1977) e la giurisprudenza: la questione si pone ovviamente in caso di burqa (volto interamente coperto) e anche di niqab (solo gli occhi scoperti), ma non in caso di hijab (volto scoperto fino al mento compreso), figuriamoci di foulard (solo capo coperto).
Lo dice perfino la delibera regionale lombarda del 2016 (fatta da una giunta leghista) che proibisce l’ingresso negli uffici pubblici solo a chi «non è riconoscibile».
Lo dice infine l’azienda Poste Italiane che, contattata, ha specificato che ovviamente il divieto d’ingresso nei suoi uffici riguarda chi indossa caschi da moto, passamontagna o in generale ha il volto coperto e non riconoscibile: nessun altro.
O. all’inizio non voleva rendere pubblica questa denuncia. “Ho paura di avere problemi”, diceva. È normale.
È orribile ma è normale, in questa Italia, in questo periodo. Poi si è convinta, con fatica. Pensando ai suoi figli. Italiani come lei, neri come lei. Che in questo Paese sono nati e vivranno.
Non si può lasciare passare tutto, se si pensa a loro. Ha chiesto l’anonimato in pubblico, almeno. E spero che lo si possa mantenere, per lei che ha curato mia mamma fino all’ultimo giorno.
Spero che la questione si risolva in una indagine aziendale interna, niente tribunali.
I due anziani avvocati possono testimoniare, se Poste Italiane crede. Anche se forse impedire senza motivo a una persona di entrare in un locale pubblico qualche profilo legale ce l’ha, in effetti. Ma non importa.
Quello che importa è che Poste Italiane si scusi, e molto. E che mandi subito quel direttore a contare i francobolli in un paesino lontano.
Lontano da tutto ma soprattutto dalle persone.
Anche se in realtà il direttore d’ufficio postale Giuseppe De Luca è già lontano: da ogni rispetto, da ogni civiltà .
(da “L’Espresso”)
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