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IL GIORNALISTA DEL “FATTO”: “SALVINI, DENUNCERO’ ALLA POLIZIA POSTALE CHI TRA I SUOI FANS MI MINACCIA”

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

“SONO CERTO CHE SALVINI FARA’ ALTRETTANTO E INDICHERA’ PUBBLICAMENTE I LORO NOMI” … IL SOLITO SISTEMA DA VIGLIACCHI, GETTARE IL SASSO E NASCONDERE LA MANO

“Se questo è un ‘educatore’ io sono Batman”. Sono bastate queste otto parole al ministro dell’Interno Matteo Salvini per scatenare il suo esercito contro di me “colpevole” di aver criticato una parte dell’elettorato del leader della Lega in un post sul Fatto Quotidiano.it.
Sinceramente da un ministro intelligente e perspicace qual è Salvini mi sarei aspettato qualcosa in più sul mio post.
Avrebbe potuto sprecare qualche parola sulla “sostanza” di ciò che ho scritto mettendo in discussione la mia analisi.
Invece no, ha preferito mettermi all’indice con tanto di fotografia e lasciare il trofeo quotidiano in pasto ai suoi.
Una tecnica ben studiata dal suo staff che ogni giorno mette in scena una sorta di “shitstorm” causando una vera e propria tempesta di insulti e minacce.
Eccone un campionario delle centinaia che ho ricevuto (errori grammaticali compresi):
“Stai attento perchè stiamo tornando” (Juri)
“Sei una merda e nella fogna soffocherai” (Dino)
“Tu sei solo un deficiente. Stai zitto”. “Secondo me la rovina dell’Italia è proprio gente come te che non hai mai lavorato veramente in vita sua e va a fare il filosofo sui social” (Mauro)-
“Infame, quindi sarei povero ignorante senza cultura etc etc perchè voto Salvini? Ma vuoi che vengo a farti un saluto? No dimmi perchè se te le cerchi poi le trovi” (Francesco)
“Analfabeta di merda. Ammazzati che fai un favore a tutti noi italiani” (Andrea)
“Idiota” (Caterina)
“Mavaacagà ” (Claudia)
“Bastardo, tu sei povero senz’altro ma di animo. Il 40% degli italiani è con Salvini. Fallito morto di fame, cane” (Moreno)
“Un colpetto di lanciafiamme anche a te” (Pier)
“Vergogna zecca” (Giancarlo)
“Hai avuto successo comunista pezzo di merda. Bastardo, muori” (Moreno)
“Coglione pippa di meno” (Mauro)
“Che uomo di merda. Pezzente!” (Alessandro
)
Peccato che a parte qualche raro caso, nessuno sia entrato nel merito di ciò che ho scritto. Ma, forse, Batman voleva proprio questo.
Gli insulti me li prendo ma, d’accordo con il direttore Peter Gomez, denuncerò alla Polizia postale chi con le minacce ha messo a repentaglio la mia incolumità , certo che il ministro dell’Interno Matteo Salvini chiederà  alle autorità  competenti di individuare coloro che hanno commesso un reato nei miei confronti, postando i loro nomi sulla sua pagina Facebook.

Alex Corlazzoli
(da “il Fatto Quotidiano”)

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CHE GUEVARA ADDIO, ORA DI BATTISTA E’ LA CHIARA FERRAGNI DEL M5S

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

SI ATTEGGIAVA A RIVOLUZIONARIO, E’ DIVENTATO UN BRAND… LUI E I SUOI VIAGGI, LUI E LA SUA COMPAGNA, LUI E SUO FIGLIO…NON E’ PIU’ PAGATO DAGLI ITALIANI , MA SPONSORIZZATO

L’evoluzione ha qualcosa di sorprendente, eppure in fondo era nelle cose.
Alessandro Di Battista, 40 anni, trascinatore di piazze, ex animatore di villaggi vacanze (a San Vito lo Capo i detrattori lo chiamavano «cuore di panna»), ex deputato (a Montecitorio i detrattori lo chiamavano l’«anguilla») il frontman e incarnazione del movimentismo grillino si è impercettibilmente, ma visibilmente, mutato di asse.
Da Che Guevara di Vigna Stelluti, ribellista chic in stile Roma Nord, è diventato, nel volgere di pochi mesi, una specie di Chiara Ferragni della politica a Cinque stelle. Non più eletto, ma influencer.
Non più pagato dagli italiani: piuttosto, sponsorizzato.
La politica invece che la moda. Marketing a spron battuto, comunque.
Anche M5S, in fondo, è un brand: e lui è il suo profeta. O, al limite, rischia di diventarlo il Dibba stesso, un marchio.
Dal viaggio per l’Italia in motorino per il No al referendum 2016 al «Viaggia con Alessandro Di Battista» che è lo spot sul Loft, la web tv del Fatto che gli ha pagato (non s’è saputo quanto) i reportage dal Sudamerica. Il passo in fondo è breve, come s’è visto col repentino passaggio dall’uno all’altro.
Lui e i suoi viaggi. Lui e la sua compagna. Lui e il piccolo Dibba. Lui e la potenza di non essersi ricandidato. Lui e Luigi. Il suo amico, il suo fraterno amico, il suo-sempre-più-amico. Un pacchetto unico, una tribù, una comunità  come ce ne sono varie nella terra d’origine dei Casaleggio.
È stato proprio Di Maio, ospite l’altra sera in tv da Floris, a svelare il mistero su quale sia, al momento, il mestiere di Di Battista, inseguito dalle polemiche dacchè dopo aver propagandato il mito della trasparenza è passato a posizioni tipo «come campo con la mia famiglia sono cazzi miei» (cit.).
«Lo pagano gli italiani? No, vive del suo lavoro», ha spiegato paziente il vicepremier Di Maio. Quale lavoro? «È il primo attivista d’Italia». Ah ecco.
In effetti, specie da quando è tornato dal Sudamerica, Di Battista sta svolgendo appieno il suo lavoro.
A fianco a Di Maio, come il 14 gennaio nel Van grigio per sei ore da Milano a Strasburgo, con telecamera fissa e dirette Facebook variabili, per il battesimo antieuropeista della campagna per le elezioni di maggio.
Obiettivo: togliere almeno un po’ la patina di grigio burocrate dalle spalle del vicepremier grillino, che peraltro tragicamente era quello prescelto a guidare – come Jean-Louis Trintignant a fianco di Vittorio Gassman ne Il sorpasso.
Aiutarlo a brillare, a non appassire, e, nel frattempo, presentarsi in naturale contiguità  con lui. Una comunità , un blocco.
Modello damanhuriani nella val Chiusella, ha mormorato qualcuno nei corridoi del Senato. Il messaggio del resto è liscio come un blocco di alabastro.
Basta estrarre a caso alcune delle più recenti affermazioni del vicepremier grillino per capire che rivalità  non può essercene. «Alessandro è un fratello», «sono contento di averlo al mio fianco», «insieme io lui siamo sempre stati una forza perchè abbiamo due personalità  diverse ma ci capiamo al volo», «siamo sempre stati amici, di questa grande esperienza e di questa grande battaglia».
Amici e più amici: possibile anche questo, nell’M5S. «Con Alessandro di Battista si è rafforzato il rapporto. Quando due amici si rivedono dopo tanto tempo sono più amici», ha detto Di Maio dopo capodanno, ad Alleghe.
Prima spiegava: «Non vedo l’ora di rivederlo» · «Non vedo l’ora che torni. Passeremo le vacanze insieme».
Proprio le vacanze di Natale, i giorni a sciare a Moena, in Val di Fassa, hanno rappresentato l’apoteosi di quella narrazione. Con Di Maio che si fa fotografare esibendo il piccolo Dibba in piedi sul tavolo, come in un trionfo. Una contiguità  assoluta, anche qui.
Del resto a fronte delle grandi sbracciate dimaiane, anche Di Battista ricambia, con una posizione molto precisa e ancora più eloquente.
Dice che loro due hanno un legame «indissolubile». Lo testimonia, fra l’altro, una foto sulla pagina Facebook di Dibba.
Lui seduto a terra, Di Maio in piedi alle sue spalle: si guardano. Una foto che l’ex deputato non ha mai tolto, negli anni. «Se dovessi tornare in prima linea sarei legato indissolubilmente a Luigi perchè la pensiamo allo stesso modo», ha detto Di Battista a settembre in un collegamento dal Guatemala.
«La forza del M5S sta anche in questo legame indissolubile che abbiamo io e lui», spiegava a maggio a Otto e Mezzo, prima della formazione del governo.
La forza sta qui: la pensano in modi diversi, ma anche nello stesso modo. «Siamo diversi eppure inseparabili. Non so se capita anche a voi con i vostri amici, ma a volte ci scriviamo in chat nello stesso momento un’idea o una soluzione che ci era venuta in mente», aveva raccontato Di Battista in primavera, alla presentazione a Ostuni del suo secondo libro con Rizzoli (50 mila euro per i due volumi, ha raccontato lui).
«Io e Luigi siamo uniti in maniera fraterna, lo considero il miglior portavoce del M5S», ha aggiunto. Curioso: portavoce l’uno, attivista l’altro, niente insomma che faccia presagire un qualche legame col potere e col governo, no? Per Di Maio, Di Battista tira fuori anche l’ingombrante figura del padre, come ha fatto in una diretta facebook dal Guatemala, nel momento delle polemiche sui rispettivi genitori: «Mio padre l’ho sempre preso come modello di onestà , è stato un grande esempio, come è un esempio Di Maio».
È Di Battista del resto che può maneggiare il concetto di famiglia con naturalezza, dagli ascendenti ai discendenti, dai genitori ai figli.
A differenza, anche in questo, del trentaduenne Di Maio che una sua propria, almeno per ora, non ce l’ha. L’aveva vagheggiata ai tempi della sua convivenza con Silvia Virgulti, ex fidanzata che questa estate voci davano per ritornante (lei del resto non ha mai abbandonato il gruppo comunicazione, segue da vicino anche i ministri, stava al tavolo del gruppo di lavoro per le europee): sia lei che lui, peraltro hanno esibito proprio negli ultimi mesi una foto col piccolo Andrea.
Di Maio come si è detto tra i legni del Trentino, mentre Virgulti tra i legni messicani, su un molo della laguna di Bacalar, questa estate.
La famiglia è invece per Dibba il veicolo sempre più potente della comunicazione. La cifra del suo presentarsi in pubblico.
In astratto, sin da quando dopo aver accompagnato in ospedale la compagna che stava per partorire, sentì la necessità  di diffondere un video in cui leggeva il discorso che aveva preparato per l’Italia a Cinque stelle di Rimini e proclamava: «Tra poche ore diventerò papà . La politica viene dopo la famiglia» (e la comunicazione, evidentemente, le precede entrambe).
Poi, dopo la nascita e soprattutto col viaggio, con post da decine di migliaia di like e video da centinaia di migliaia di visualizzazioni. Una vera potenza mediatica: stile Ferragnez, con le dovute proporzioni.
All’interno del percorso, una evoluzione precisa. Prima c’è lui. Dibba. Poi lui e lei. La Fedez della situazione. Colei che non c’entrava nulla coi cinque stelle prima di diventare l’unica possibile first lady grillina.
Sahra Lahouasnia, giovane e bella francese, piombata a Roma con l’Erasmus, poi per un master in «economia e gestione della comunicazione e dei media» , infine per l’impiego alla Renault Italia, dove è stata assunta a tempo indeterminato nel 2014 (l’ultimo incarico risulta «variable expenses executive», qualsiasi cosa voglia dire). «Vedere il sole tramontare dalla finestra dell’ufficio anche di venerdì è… Un’esperienza!», scriveva appunto all’epoca lei, sospirosa.
Tutt’altra cosa è diventata la sua vita dacchè, a fine 2016, ha conosciuto Dibba.
Tre mesi dopo incinta, un anno e mezzo dopo girava tra Usa, Messico, Guatemala, Nicaragua. Anzitutto loro due, dunque,molto coppia. Infine, l’apoteosi: Andrea.
Un bambino pubblico. Un figlio sempre più pubblico, col passare dei mesi.
Turbo esposto, come il figlio della Ferragni e di Fedez, Leone.
Nato nei giorni della festa riminese Cinque stelle, annunciato via social con un piedino, di Andrea nel tempo abbiamo visto parecchio. Con una evidente evoluzione. Prudentemente nascosto finchè era in passeggino, o in braccio ai genitori che lo riprendevano sempre di spalle – o comunque lo rendevano poco riconoscibile – alla fine si è messo proprio al centro della scena.
Ne sono prova palmare le foto dei vari account pubblici. Di lui, di lei, dell’Orizzonte lontano (il nome dell’impresa ispirato a Jack Kerouac). Andrea mostrato sempre di più. E sempre più al centro.
Un esempio. A luglio, in uno dei primi video, ci sono soltanto i genitori. Di Battista che parla di quanto si spende («dieci euro a testa negli ostelli») e definisce Tap e Tav «opere stupide», Sahra racconta di come Andrea mangi pappe e omogeneizzati.
Il pupo cattura l’attenzione, ma resta fuori scena.
Nell’ultimo video prima del ritorno in Italia, a dicembre, lui parla di quanto hanno speso («19 mila euro»), Sahra porge una banana al figlio, inquadrato pure lui, che mangia e dice cose. Alla fine salutano tutti. Ciao ciao.
Una specie di Reality, nel quale il terzetto sembra una sacra famiglia in pellegrinaggio. Pronta a riapprodare tra le braccia di Di Maio: e il vicepremier ancor di più che «non vede l’ora».
E con il piccolo esibito come se fosse la più forte garanzia di un futuro pentastellato. Come in quello scatto, assai criticato all’epoca dalla rete, in cui il piccolo Dibba sembrava addirittura emanare luce, finendo per illuminare (modello schermo di computer) le cinque stelle del logo M5S impresse sulla candida felpa di Dibba che lo teneva in braccio. Quasi messianico.

(da “L’Espresso”)

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TONINELLI E L’ENNESIMA FIGURACCIA SULLA SIERRA LEONE

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

IN UN TWEET SBAGLIA IL NOME DELLA NAVE E IL PORTO DI SBARCO

Dopo l’appello della nave al largo delle coste libiche che aveva inviato una richiesta di soccorso senza che nessuno rispondesse a Tripoli, ieri il ministro delle Infrastrutture, dei Trasporti e soprattutto dei porti Danilo Toninelli, che secondo Di Battista è il migliore di questo governo ma è diffamato dai Benetton, ha voluto dimostrare a tutti di stare sempre sul pezzo pubblicando un tweet in cui ci assicurava che erano iniziate le operazioni di soccorso: “La nave Sierra Leone, sotto coordinamento libico, sta iniziando a prendere a bordo i 100 migranti dal gommone. Tutto si svolge secondo le convenzioni internazionali, i naufraghi andranno a Tripoli. Seguo con attenzione, nella speranza che l’operazione si concluda senza problemi”.
Siccome lo dice Di Battista — e Di Battista è uomo d’onore, direbbe Antonio nell’orazione funebre per Cesare — non possiamo dubitare che Toninelli sia il miglior ministro di questo governo.
Solo ad onor del vero, però, pare giusto segnalare che quello che ha tirato su i migranti era un cargo (e non una nave), che si chiamava Lady Sham (che sui giornali è stata “soprannominata” Lady Sharm) e solo la sua provenienza risalisse alla Sierra Leone, e infine che i naufraghi sono stati portati a Misurata e non a Tripoli.
Non parliamo poi delle “convenzioni internazionali”, rispettate a pene di segugio soprattutto per quanto concerne i porti chiusi.
Ma a parte queste lievi imprecisioni, è evidente che Toninelli sia uno dei migliori ministri di questo governo.
Solo che a questo punto tocca preoccuparsi: se lui è il migliore, figuriamoci gli altri.

(da “NextQuotidiano”)

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INGANNATI: TENSIONE A BORDO DEL MERCATILE CHE RIPORTA I PROFUGHI IN LIBIA, IN VIOLAZIONE DELLE NORME INTERNAZIONALI

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

QUEL CAPITANO AL PRIMO PORTO CIVILE VA ARRESTATO E PROCESSATO: LA LIBIA NON E’ UN PORTO SICURO … I PROFUGHI ERANO IN ACQUE INTERNAZIONALI, L’ITALIA DOVEVA E POTEVA INTERVENIRE

Gli hanno detto che sarebbero sbarcati in Italia e quando hanno scoperto che invece Lady Sharm, il cargo battente bandiera della Sierra Leone, li stava riportando a Misurata in Libia, sono iniziate le tensioni a bordo.
Secondo Alarm Phone i 100 migranti, che ieri avevano lanciato l’allarme a 50 miglia dalle coste libiche, dicendo che stavano congelando, sono “sotto choc” e si rifiutano di sbarcare.
Le comunicazioni però sono molto difficoltose: non ci sono giornalisti sul posto e mancano conferme ufficiali.
L’episodio ricorda quello della nave Nivin, quando a novembre scorso un gruppo di migranti si rifiutò per giorni di scendere e l’esercito libico decise di fare irruzione sull’imbarcazione.
Poco dopo la mezzanotte era terminato il trasbordo sul mercantile inviato da Tripoli in loro soccorso.
Le persone — tra cui venti donne e dodici bambini, uno dei quali potrebbe essere morto di stenti — sono state in balia del mare e del freddo per ore.
Ore di angoscia che sono terminate con l’invio dei soccorsi: in serata il mercantile dirottato sul posto dalla Guardia costiera libica ha raggiunto la carretta, cominciando ad imbarcare i migranti.
Parallelamente altri 47 migranti, salvati dalla ong Sea Watch, attendono di avere notizie sulla loro destinazione finale: “Sono terrorizzati” dal possibile ritorno in Libia. “Le loro condizioni di salute sono buone e stazionarie”, ha detto all’agenzia Ansa l’equipaggio, “ma ora a preoccupare sono le condizioni meteo in peggioramento“.

(da agenzie)

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“E’ FALSO CHE I MIGRANTI PORTINO MALATTIE”

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’: “SEMMAI E’ L’OPPOSTO, MOLTI SI AMMALANO PER LA CATTIVE CONDIZIONI IN CUI VIVONO IN EUROPA”

Quello che ‘i migranti portano le malattiè è un falso mito, mentre è forte il rischio che la loro salute peggiori una volta arrivati nei Paesi di destinazione a causa delle cattive condizioni in cui vivono.
Altro falso mito è che siano sempre più numerosi, mentre nei 54 paesi compresi nell’area dell’Oms-Europa sono appena il 10% della popolazione.
E’ quanto evidenzia il primo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità  (Oms) sulla salute dei migranti e dei rifugiati in Europa presentato oggi a Ginevra.
Il documento, realizzato in collaborazione con l’Istituto Nazionale salute, Migrazioni e Povertà  (INMP) italiano, si basa sui dati di oltre 13mila documenti raccolti nei 54 paesi che fanno parte della regione Europa dell’Oms.
Il primo falso mito, si legge, è nel numero dei migranti, che oggi in tutta la regione sono appena il 10% della popolazione, mentre in alcuni paesi europei la popolazione pensa che siano 3 o 4 volte di più.
Dal punto di vista sanitario poi, la salute delle persone che arrivano è buona. Il rischio di malattie non trasmissibili, come tumori o problemi cardiaci, è più basso che nella popolazione generale, ma aumenta all’aumentare del periodo di permanenza a causa del mancato accesso ai servizi sanitari e delle condizioni igieniche spesso insufficienti.
“Anche per le malattie infettive l’aneddotica non corrisponde alla realtà  – sottolinea Santino Severoni, coordinatore del programma Oms Europa sulla migrazione e la salute -. E’ vero che lo spostamento delle popolazioni viene considerato una fonte di rischio, e per questo c’è un monitoraggio, ma riguarda tutti gli spostamenti. Si pensi ai 400mila che sono arrivati via mare in Italia nel 2016 e ai 20 milioni di passeggeri dell’aeroporto di Fiumicino. La verità  è che anche quando arrivano persone con infezioni l’evento è così sporadico che non costituisce un problema per la salute pubblica, come dimostra il fatto che non abbiamo mai registrato un contagio alla popolazione residente”.

(da agenzie)

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“LIBIA, UN INFERNO SENZA USCITA”: IL DOSSIER DI HUMAN RIGHTS WATCH

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

“ABUSI E TERRORE CHE LE POLITICHE DI ITALIA ED EUROPA HANNO CONTRIBUITO A CREARE”

“Un inferno senza uscita”. Questa è la condizione dei migranti in Libia. La stessa che si troveranno a vivere di nuovo anche i cento salvati la scorsa notte, dopo un soccorso lanciato solo per le pressioni di Palazzo Chigi, ora diretti a Misurata.
Ma un dossier di Human Rights Watch ricorda a tutti la grande ipocrisia dell’Europa: fingere che la Libia offra condizioni dignitose ai migranti.
No, in quel Paese c’è “un ciclo estremo di abuso che proprio le politiche dell’Italia e dell’Ue hanno contribuito a creare”.
Human Rights Watch documenta i gironi di questo inferno.
Una grave sovrappopolazione carceraria, mancanza di igiene, malnutrizione, assenza di cure sanitarie adeguate.
“Gravi violenze sono state registrate in quattro centri di detenzione nell’ovest del Paese, incluse percosse e frustate”.
Non sono deduzioni, non sono notizie di seconda mano ma il risultato delle ispezioni condotte sul campo. Che hanno messo in luce la situazione disperata in cui sopravvivono decine di bambini, compresi alcuni neonati, “costretti in locali spartani e inadeguati in tre dei quattro centri visitati”.
Quelle piccole vittime non sono un’eccezione: il 20 per cento degli arrivi totali in Europa dalla Libia è rappresentato da bambini.
“Migranti e richiedenti asilo detenuti in Libia, anche bambini, sono intrappolati in un incubo – afferma Judith Sunderland, condirettrice per l’Europa di Hrw – e i governi dell’Ue non fanno che perpetuare questo stato di cose, invece di sottrarre i migranti agli abusi”.
“Mettere toppe per migliorare le condizioni in cui si trovano – aggiunge – non assolvono l’Ue dalla responsabilità  di aver consentito in prima battuta un sistema barbaro di detenzione”.
Parlare di autorità  libiche è un eufemismo. Tutta la Cirenaica, da dove partono i barconi verso l’Europa, è nel caos.
Persino a Tripoli si è combattuto per l’intera scorsa settimana, con lanci di razzi e cannonate che hanno ucciso tredici persone e lasciato a terra 52 feriti. Il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite appare sempre più fragile, sgretolato dalle faide interne.
E nel Paese c’è un solo potere: quello delle milizie. Le stesse che spesso si arricchiscono con il doppiogioco: gestiscono il traffico di migranti e poi incassano gli aiuti europei per fermarlo.
Aprono e chiudono il rubinetto degli imbarchi secondo il loro tornaconto, trattando gli esseri umani come merce da sfruttare al massimo. “Le milizie hanno terrorizzato sia i libici che i migranti mentre nessuna autorità  osa tenergli testa ed assicurare giustizia”, ha detto Hanan Salah, ricercatrice esperta sulla Libia a Human Rights Watch.

(da agenzie)

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INTERVISTA ALL’EX LEADER AFD PETRY: “IL PARTITO E’ DIVENTATO RAZZISTA ED ESTREMISTA, PER QUELLO ME NE SONO ANDATA”

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

AFD SOTTO INCHIESTA, INDAGINI DELLE AUTORITA’ PER IL SUO POSSIBILE SCIOGLIMENTO

Il suo addio aveva stupito tutto il partito e il resto della politica tedesca perchè avvenuto proprio in concomitanza con la sua storica elezione al Bundestag, nel 2017. Ma dopo l’annuncio dell’avvio di indagini da parte dell’Ufficio per la difesa della Costituzione sull’operato di Alternative fà¼r Deutschland (Afd) per verificare se esistano le basi per l’avvio di una procedura di incostituzionalità , Frauke Petry, ex leader della formazione di estrema destra tedesca e fondatrice di Die Blaue Partei, racconta a Ilfattoquotidiano.it di vedere confermati i propri timori: il partito “liberale e conservatore” che aveva sognato si è trasformato in un movimento “nazionalista e autoritario”.
E’ sorpresa per le indagini dell’Ufficio per la Difesa della Costituzione sull’operato di Afd?
“Sorpresa? Niente affatto. Anzi, penso che queste indagini siano state avviate in ritardo. Fino al 2017 ho guidato Alternative fà¼r Deutschland e dal 2016 fino al mio addio, a settembre, ho potuto vivere in prima persona il processo di radicalizzazione all’interno del partito. Mi chiedevo: ‘Se lo vedo io, come possono non accorgersene le autorità ?’”
Lei ha lasciato il partito in un momento estremamente positivo. Tra l’altro, era appena stata eletta al Bundestag. Cosa l’ha portata al passo indietro?
“Voglio fare una premessa: non credo, come molti hanno scritto, di aver lasciato il partito nel suo momento migliore. Voglio ricordare che nel 2016, nella prima parte del mio mandato, eravamo tra il 17 e il 20% di consensi. Nel 2017 abbiamo preso ‘solo’ il 13,6%. In quel momento, mentre tutti festeggiavano, io ho visto la decadenza del partito. Non avevamo vinto, stavamo perdendo terreno. E le cause vanno ricercate, a mio parere, in ciò che è stato deciso nel Congresso del 2017: lì, la maggioranza di Afd decise che non voleva diventare la nuova destra tedesca, un partito liberale e conservatore, ma prevalsero le istanze di protesta, l’estremismo e le aspirazioni distruttive più che costruttive. A quel punto capii che non c’era più spazio per me nel partito”.
Le indagini dei servizi si stanno concentrando soprattutto su Junge Alternative, l’organizzazione giovanile, e su Bjà¶rn Hà¶cke, esponente dell’ala più estremista. Lei tentò di estrometterlo quando definì il Memoriale sull’Olocausto “un monumento della vergogna”. Aveva visto il pericolo di una svolta verso l’estremismo di destra?
“L’ala più radicale del partito, Der Flà¼gel (L’Ala, ndr), è stata fondata nel 2015 proprio da personaggi come Bjà¶rn Hà¶cke con l’intento di imprimere una svolta nazionalista ed estremista. Quella che inizialmente era una minoranza ha guadagnato terreno piano piano, fino a rappresentare la maggioranza dei membri nel 2017. Questo gruppo è appoggiato da personaggi importanti come il leader di Afd nel Bundestag, Alexander Gauland, oltre che da politici che prima avevano una visione più moderata e che sono stati anche miei collaboratori, come Alice Weidel e Beatrix von Storch (quest’ultima nipote del ministro delle Finanze di Hitler più volte finita sotto accusa per esternazioni razziste, ndr). Questo perchè nel partito si è instaurata una corsa alla scalata, alla popolarità , al potere. La maggioranza ha inseguito il successo politico a spese dei principi che ci avevano unito e lo hanno fatto pensando che appoggiare Hà¶cke fosse la strada vincente. Il partito oggi è questo: se si cancella Der Flà¼gel, si cancella il partito”.
Con lei la linea da seguire era: mai fare alleanze o avvicinarsi agli estremisti. Nel 2018, a Chemnitz abbiamo visto sfilare i leader di Afd al fianco dei vertici di Pegida. In quell’occasione, Lutz Bachmann, leader storico del movimento anti-Islam, disse: “Ecco la vera natura dell’Afd”. È d’accordo?
“Sì, l’Afd di oggi è proprio questo, ha ragione Bachmann, un partito che strizza l’occhio all’estremismo di destra. Basta vedere come è organizzato oggi: Der Flà¼gel ha imposto alla formazione una struttura totalitaria e verticistica che fa capo a Hà¶cke, Gauland e pochi altri. Ma queste strutture sono quasi impenetrabili, invisibili, ben nascoste. È difficile che un esterno possa accorgersi di questa organizzazione di tipo autoritario”.
Vista la sua conoscenza del partito, crede che un suo scioglimento per incostituzionalità  sia possibile e giustificato?
“Non lo so, sinceramente. Le indagini sono appena state avviate, non sono ancora saltate fuori delle prove che facciano pensare a uno scioglimento. Ci vorranno anni per vedere i risultati del lavoro investigativo. So solo due cose. La prima, che in Germania esistono movimenti ancora più estremisti di Alternative fà¼r Deutschland che non sono stati sciogliti, ad esempio la Npd (Partito Nazionaldemocratico di Germania, ndr). La seconda, è difficile che l’Ufficio per la Difesa della Costituzione trovi prove così schiaccianti da giustificare la messa al bando di un partito che ha il 14-15% dei consensi. Non si tratta di cancellare un partitino, ma una delle principali forze politiche del Paese”.
Vede delle somiglianze con altre formazioni sovraniste europee? Ad esempio con la Lega di Salvini in Italia.
“Credo sia difficile fare dei paralleli con Afd e altre formazioni europee. Tralasciando il fatto che il sistema politico tedesco è decisamente diverso da quello italiano, noto una differenza sostanziale tra Alternative fà¼r Deutschland e partiti come Lega, Front National, Fpà¶ o Diritto e Giustizia: la formazione tedesca è l’unica che non cerca e non vuole alleanze. Quando sono diventata leader del partito, nessuno all’interno si era mai occupato di intessere rapporti con altre formazioni tedesche o europee. Lo abbiamo fatto io e mio marito, Markus Pretzell. Da quando sono uscita, la tendenza isolazionista è tornata. A differenza di Salvini, che sta cercando di fare alleanze con diversi movimenti, Afd è isolata in campo europeo. Ad esempio, non ci sono contatti personali fra i leader di Afd e Salvini. Inoltre, la Lega governa in Italia in coalizione con il Movimento 5 Stelle, Fpà¶ fa lo stesso in Austria, mentre Afd rifiuta qualsiasi coalizione anche interna alla Germania. È un partito di protesta e di rottura. Non vuole il potere nelle proprie mani, se non con una maggioranza assoluta in Parlamento”.
Adesso lei ha fondato un nuovo partito, Die Blaue Partei (#TeamPetry). Cosa ha portato via dalla sua Afd e cosa invece ha deciso di abbandonare?
“Ho lasciato una retorica fatta di richiami alla Seconda Guerra Mondiale, che vorrei ricordare è finita 70 anni fa, ho lasciato una politica economica non più liberale ma di sinistra, che difende il salario minimo (con il 40% di contributi sociali), un principio ancora giovane in Germania e che noi non condividiamo. Ho lasciato un partito patriottico non nel senso della ricerca di una convivenza culturale anche europea, come facciamo noi, ma basato sulle distinzioni di tipo etnico e razziale. Ho invece preso il pensiero conservatore e liberale che caratterizzava il partito durante il mio mandato, fondato su alcuni pilastri fondamentali: famiglia, sicurezza garantita dallo Stato, controllo dei confini, uno Stato responsabile dell’educazione e dello sviluppo infrastrutturale ma mai interventista in campo economico, il sostegno alle piccole e medie imprese”.
E dell’Europa che visione avete?
“Vogliamo un’Europa più tollerante riguardo all’autonomia dello Stato e alle decisioni interne. Crediamo nella diversità  culturale europea e ci piace che l’Ue sfrutti questa situazione. Accettiamo le differenze ma vogliamo sfruttare anche gli aspetti che ci tengono uniti, come la libertà  di movimento o il mercato unico europeo. Siamo contro un sistema fiscale europeo e, in fondo, anche alla moneta unica che ha danneggiato alcuni Paesi europei, non solo l’Italia ma anche la Germania. Siamo favorevoli a una difesa comune e a una collaborazione europea nel controllo dei confini esterni. Non crediamo, però, nel principio di delega a prescindere nei confronti dell’Ue: è inutile chiedere a Bruxelles di occuparsi di certe tematiche se le strutture non funzionano. A quel punto, meglio che ogni Stato le gestisca autonomamente. Infine, vogliamo un’Unione più trasparente, che permetta ai cittadini di sapere chi si occupa di certe questioni e come lo fa. Vogliamo riformare la struttura e i poteri di Commissione e Parlamento europeo proprio per favorirne la trasparenza”.

(da “il Fatto Quotidiano”)

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BREXODUS: COSI’ GLI ITALIANI NEL REGNO UNITO DECIDONO DI ANDARSENE

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

“E’ UN PAESE CHE VA INCONTRO ALLA MORTE, NON VEDO IL MOTIVO DI STARCI”… QUANDO SALVINI E DI MAIO FACEVANO IL TIFO PER LA BREXIT CHE AVREBBE DANNEGGIATO 600.000 ITALIANI RESIDENTI IN GRAN BRETAGNA   E POI DICONO “PRIMA GLI ITALIANI”

Theresa May è in cerca di un piano B per scongiurare un’uscita del Regno Unito dall’Europa senza accordo. Ma per molti dei circa seicentomila italiani residenti in Gran Bretagna anche la prospettiva di un’uscita concordato di Londra dal club dei Ventisette non offre molti motivi di sollievo: c’è la sensazione di essere in un limbo, preoccupati per il proprio futuro e abbandonati da un Paese che consideravano casa.
E in molti comincia a prendere corpo un’idea nuova, quella del “Brexodus”, ovvero lasciare il Paese che magari per decenni li ha ospitati e in cui sono integrati perfettamente.
«Siamo molto arrabbiati e dispiaciuti, anche perchè tutto questo è successo sopra le nostre teste. Non abbiamo potuto votare al referendum del 2016», dice Andrea Moro in Gran Bretagna da undici anni, docente di finanza all’università  di Cranfield, nord di Londra.
In estate si trasferirà  in Svezia con la famiglia, per evitare di trovarsi disoccupato a seguito dello stop dei finanziamenti europei alla sua università .
Università  e sistema sanitario sono due dei settori che beneficiano più di tutti del rapporto del Regno Unito con la Ue non solo da un punto di vista finanziario ma anche come forza-lavoro.
L’effetto della Brexit sul sistema sanitario nazionale si sta già  sentendo, dice Caterina Cattel, medico primario che sei anni fa ha lasciato Roma per lavorare all’ospedale di Nottingham, tant’è che molti infermieri europei e italiani se ne sono già  andati.
In caso di “no deal”, poi, la possibile scarsità  di farmaci renderà  il lavoro più difficile. Per quanto speri che il governo decida di revocare Brexit, Cattel ha preso la sua decisione in caso di no deal: “Se questo è un paese che va incontro alla morte non vedo il motivo di starci”.
«Il Brexodus non è una bufala, ci sono già  tanti italiani che se sono andati», dice Dimitri Scarlato, rappresentante di The Three Million, la più grande organizzazione che si batte per i diritti dei circa tre milioni di cittadini europei nel Regno Unito.
Deal o no deal, gli europei che intendono rimanere in Gran Bretagna dopo il 29 marzo dovranno provare il proprio stato di legalità  richiedendo il “settled status” se sono già  nel paese da cinque anni, o il “pre-settled status” se sono lì da meno.
E per quanto Londra continui a rassicurare che non ci saranno problemi, molti sono preoccupati. Preoccupati del fatto che il settled status non è un diritto acquisito in automatico, e che il pre-settled status non consente di rimanere nel paese indefinitamente ma solo per cinque anni.
«Il Settled Status è una domanda, non una registrazione, quindi non automatica», spiega Elena Remigi, autrice di due libri chiamati In Limbo che raccolgono le testimonianze degli europei e dei britannici impattati dalla Brexit.
Gli italiani che invece potranno rimanere nel paese senza condizioni, oltre a chi ha già  la cittadinanza, sono quelli che arrivarono con permessi di soggiorno speciali nel dopoguerra per lavorare nelle fabbriche britanniche.
Senza condizioni, sì, ma non senza burocrazia. E molti di questi cittadini, perlopiù anziani, faticano a trovare i documenti relativi al loro arrivo che pensavano di non dover mai più mostrare, o semplicemente non si capacitano di doverlo fare.
«Tante di queste persone non capiscono perchè devono fare domanda, o non hanno nessuno che li aiuta», spiega Maria Philburn, che racconta di averci messo settimane per recuperare i documenti di arrivo della madre 91enne che arrivò da Caserta nel 1961.
E se il Regno Unito è stato la terra de sogni per gli italiani ben oltre gli anni Sessanta, chi il “Brexodus” l’ha già  fatto pensa anche a quel sogno europeo che non potrà  più vivere oltremanica.
«Per me trasferirmi da un paese all’altro all’interno dell’Unione Europea è sempre stato come trasferirmi per esempio da Milano a Torino. Considero l’Europa la mia unica e vera patria», dice Luciano Santoro, informatico italiano che ha appena lasciato Londra per Francoforte.
«Ricominciare a 40 anni non è affatto facile, ma mi rifiuto categoricamente di rinunciare ai miei diritti come cittadino europeo in Europa».

(da “La Repubblica”)

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“IL FRANCO FCA HA PORTATO STABILITA’ E IN OGNI CASO I PAESI AFRICANI POSSONO USCIRNE”: INTERVISTA AL’EX AMBASCIATORE PIERRE JACQUEMONT CHE SBUGIARDA I DELIRI GRILLINI

Gennaio 21st, 2019 Riccardo Fucile

“QUESTI PAESI SONO INDIPENDENTI E SONO LIBERI DI FARE LE LORO SCELTE”… I DATI DEL VIMINALE SMENTISCONO DI MAIO: DA COSTA D’AVORIO E MALI ARRIVANO POCHI PROFUGHI, IL GRILLINO NON SA NEANCHE DI COSA PARLA

“Quando si denuncia il colonialismo francese si insultano i paesi africani perchè non si riconosce la loro indipendenza e la loro capacità  nel difendere la sovranità “.
Pierre Jacquemot, ricercatore esperto di questioni africane all’Istituto delle relazioni internazionali e strategiche (Iris) di Parigi ed ex ambasciatore, bolla così le recenti dichiarazioni del ministro per lo Sviluppo Luigi Di Maio, che in queste ultime ore ha aperto una nuova crisi con la Francia.
Commentando i flussi migratori provenienti dall’Africa subsahariana, Di Maio ha puntato il dito contro i cugini d’oltralpe, colpevoli di continuare a sfruttare le ex colonie africane attraverso il franco CFA, la moneta creata nel 1945 e ad oggi adottata in 14 paesi dell’Africa occidentale e centrale.
Uno strumento di instabilità  per il ministro, utilizzato da Parigi per sfruttare gli stati che fino agli inizi degli anni sessanta erano sotto il suo dominio coloniale.
Parole che hanno suscitato l’irritazione del ministero degli Esteri francese, che questo pomeriggio ha convocato d’urgenza l’ambasciatrice, Teresa Castaldo, definendo le dichiarazioni di Di Maio “ostili e senza motivo”.
Un discorso polemico”, secondo Jacquemot, che ricorda come “non tutti i paesi che hanno il franco CFA sono delle ex colonie francesi”.
Il franco CFA è attualmente utilizzato in due unioni monetarie: la Comunità  economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC) e l’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale (Uemoa).
“Ci sono due banche centrali che sono totalmente africane e la Francia è presente nei rispettivi consigli di amministrazione” spiega il ricercatore.
Da anni al centro di forti polemiche, questa moneta è considerata da molti osservatori come un retaggio dell’epoca coloniale francese e un freno allo sviluppo dei paesi che la utilizzano.
Ma per Jacquemot, la moneta è prima di tutto sinonimo di “stabilità ” visto che nei paesi dove viene utilizzata il tasso di inflazione resta basso.
Un dibattito inutile quindi, soprattutto perchè ormai “la Francia non ha più la sua moneta ed oggi il franco CFA ha un cambio fisso con l’euro”.
“Ci sono molte false idee sulla ‘zona franco’ — continua Jacquemot – e mi sembra importante insistere sul fatto che questi paesi sono indipendenti e sono liberi di fare le loro scelte economiche e politiche”.
Tuttavia, Parigi mantiene dei legami molto stretti con il franco CFA: gli stati africani devono versare ogni anno al ministero delle Finanze francese il 50% delle loro riserve di cambio, per ricevere in seguito gli interessi da parte della Banca di Francia.
Una sorta di “conto in banca” per Jacquemot, che rappresenta un “vantaggio” visto che in questo modo “i paesi membri possono ottenere la valuta necessaria per garantire le importazioni di beni di prima necessità “.
Ma “i paesi possono scegliere di abbandonare il franco CFA” quando vogliono, sottolinea lo specialista, ricordando l’esempio della Mauritania e del Madagascar.
Una scelta, però, che rischia di portare a “un’importante inflazione” che farebbe aumentare il prezzo delle importazioni di prima necessità , come ad esempio quelle di generi alimentari
Del resto, anche il presidente Emmanuel Macron in occasione della sua ultima visita in Africa a fine novembre ha ribadito la piena libertà  dei paesi africani nel decidere se continuare o meno ad adottare la valuta.
“L’uscita può avvenire progressivamente” spiega poi Jacquemot, ricordando però che “c’è un’altra opzione che potrebbe essere più interessante e consisterebbe nel creare una zona monetaria totalmente africana su base regionale”.
In ogni caso, “è un scelta che devono prendere gli africani e non la Francia”. “Ormai — continua Jacquemot — la Francia con le sue ex colonie non ha più quella relazione privilegiata che poteva esserci trenta o quaranta anni fa”.
Le uniche “vestigia” di un colonialismo ormai passato vengono testimoniate dalla lingua francese ancora parlata nelle ex colonie.
Del resto, a confermare il fatto che il franco CFA non è la causa principale dei flussi migratori ci sono anche i dati forniti dal Ministero degli Interni italiano sul suo sito. Le prime cinque nazioni tra il 1997 e il 2017 per numero di richiedenti asilo sono state Nigeria, Pakistan, Ex Jugoslavia, Iraq e Bangladesh. Paesi che non dispongono del franco CFA come moneta corrente.

(da “Huffingtonpost”)

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