Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
IL LINCIAGGIO DI UNDICI IMMIGRATI ITALIANI: QUEI RACCONTI RICORDANO IL CLIMA CHE SI RESPIRA OGGI IN ITALIA
Ci vuole una vecchia vignetta pubblicata sul quotidiano di New Orleans The Mascot, un libro del saggista Richard Gambino dal titolo Vendetta e un articolo di recensione sul Corriere della Sera ad opera di Gian Antonio Stella ad aprirci gli occhi su cosa sia il razzismo?
Non basta la crudeltà quotidiana nella quale stiamo vivendo e che ci mostra, attraverso episodi o commenti censurabili, quanto sia deprecabile l’odio su base etnica?
Ha fatto molto discutere l’articolo di Gian Antonio Stella, dicevamo, pubblicato oggi sul quotidiano di via Solferino in cui si descrive un episodio avvenuto a New Orleans nel 1891.
Il 14 marzo di quello stesso anno, 11 italiani — tra cui un infermo mentale di nome Emmanuele Polizzi — furono accusati dell’omicidio del poliziotto David Hennessy. Tutti i coinvolti in quell’episodio, tuttavia, vennero ritenuti innocenti dal giudice.
Bastò questo per far scattare il linciaggio da parte della popolazione di New Orleans, che si accanì nei confronti degli italiani fino a ucciderli.
Addirittura, si racconta che i loro corpi senza vita furono esposti per cinque lunghissime ore, alla mercè di tutti — anche di 2500 donne e bambini — che sfilarono davanti ai cadaveri anche solo per avere un ricordo di quanto avvenuto
Si trattò di un episodio in cui venne fuori, in maniera brutale, l’odio nei confronti degli italiani.
Lo stesso sindaco di New Orleans definì i siciliani come gli «individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistano tra noi».
Il razzismo partì da una vignetta pubblicata qualche anno prima sul The Mascot. In quella produzione, si vedevano persone con i tratti tipici degli italiani bighellonare in strada o dormire in affollati dormitori, o messi in gabbie degli accalappiacani o, ancora, buttati in acqua come pesci.
Sono immagini che rievocano una certa (brutta) satira dei giorni nostri.
Questa volta non più diretta nei confronti degli italiani. E che viene portata avanti proprio in quel Paese che fu trattato così poco più di un secolo fa da quelle persone a cui aveva chiesto ospitalità e accoglienza per avere un futuro migliore rispetto a quello riservato loro dalla patria.
(da Globalist)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
HA CAMBIATO LE REGOLE IN CORSO E MOLTI CANDIDATI CHE AVEVANO SUPERATO LA PROVA SI SONO TROVATI ESCLUSI
Le decine di foto di Matteo Salvini con magliette, giacche e cappellini della Polizia
potrebbero far pensare che il ministro dell’Interno sia il migliore amico degli agenti della Polizia di Stato.
Un amore che il ministro dell’Interno non manca di ricordare. Come quando oggi, dopo aver partecipato alle celebrazioni del 167esimo anniversario della Polizia di Stato ha fatto sapere che il 25 aprile non parteciperà a sfilate «ma sarò in mezzo alle Forze dell’Ordine a Corleone».
In mezzo a questo tripudio di messaggi d’affetto e di stima compaiono ogni tanto dei commenti che fanno trapelare un certo nervosismo.
Perchè Salvini non sembra proprio essere il ministro più amato dagli aspiranti agenti della Polizia.
A gennaio 2019 il ministro ha cambiato i requisiti per l’accesso al bando pubblico per la selezione di 1148 Allievi agenti della Polizia di Stato.
Si tratta di un concorso pubblico del 2017, il primo per la selezione di agenti di Polizia dal 1996, anno in cui si era tenuto l’ultimo concorso.
Con il nuovo governo, quello del Cambiamento, è stata abbassata l’età di accesso. Con i requisiti del 2017 era sufficiente avere trent’anni no compiuti. Salvini ha emanato un decreto che ha escluso tutti gli over 26 (diventato legge con l’approvazione del Decreto Semplificazioni n. 12/2019).
Questo nonostante gli aspiranti allievi avessero già superato la prova scritta e fossero così entrati nella graduatoria a scorrimento. L’emendamento approvato dall’attuale governo ad un concorso di due anni fa ha invece estromesso dalla graduatoria coloro che alla data del 1 gennaio 2019 avessero compiuto il ventiseiesimo anno di età e che non fossero in possesso di diploma di scuola secondaria di secondo grado.
Questo anche se il bando del concorso prevedeva come soglia il non superamento del trentesimo anno di età e il possesso della licenza di scuola media.
Ma qual è il problema? Il problema è che l’iter concorsuale si stava già concludendo.
Nel maggio 2017 a quel concorso presero parte 80.000 persone. Il 27 Ottobre 2017 venne pubblicata la graduatoria degli idonei alla prova scritta e alla fine del fine del 2018 vengono avviati alle scuole 1600 allievi che avevano superato tutte le prove.
La decisione di Salvini (e del governo) impedisce a quegli allievi che hanno più di 26 anni (e solo la terza media) di ultimare l’iter concorsuale.
Una decisione che agli esclusi è sembrata del tutto arbitraria anche perchè c’è chi pur avendo ottenuto un punteggio più alto si è trovato superato da chi aveva qualche mese o anno in meno.
Tra gli esclusi ci sono anche 61 idonei non vincitori che provengono dalle forze armate, e che oltre ad aver già superato tutte le prove di idoneità fisica hanno almeno 3 anni di carriera alle spalle.
L’aspetto paradossale di questa vicenda è che non solo il Viminale non ha detto una parola ma nel frattempo è stato indetto un nuovo concorso per la Polizia riservato ai soli militari.
Eppure ancora il 14 marzo scorso Salvini nel rispondere ad alcuni aspiranti allievi di Polizia continuava a fare vaghe promesse dicendo che in ogni caso era necessario abbassare l’età media del Corpo (che si abbasserebbe in ogni caso di appena due mesi) e che quella cui avevano partecipato gli esclusi (magari di 27 anni) era una semplice prova preselettiva.
Oggi alla Camera sono stati presentati sette emendamenti per risolvere quella che gli esclusi considerano una vera e propria ingiustizia e consentire anche agli over 26 di terminare l’iter
concorsuale. Sono stati tutti bocciati da M5S e Lega.
(da “NextQuotidiano”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
CERCANO DI DARE L’ILLUSIONE DI UN RILANCIO MA FINO A SETTEMBRE RESTERANNO SOLO PROMESSE
È mattino presto quando Giuseppe Conte chiama i due vicepremier: “Il pranzo è confermato”.
La notte appena trascorsa è sembrata da fine impero. L’incubo, certificato da Giovanni Tria con i numeri del Def, non è svanito con le prime luci del giorno.
Un chiarimento a tre è necessario. Seduti allo stesso tavolo si ritrovano il presidente del Consiglio, Matteo Salvini e Luigi Di Maio.
Davanti a loro il Contratto di governo per capire come andare avanti considerato che soldi non ce ne sono. Bisogna anzi tirare fuori 23 miliardi per la manovra d’autunno. Questi sono i dati, ma nella sala da pranzo di palazzo Chigi il messaggio che viene confezionato è quello di un nuovo inizio, che con enfasi viene chiamato “fase 2”.
Il brusco risveglio ha innestato una nuova dose di fibrillazione nei rapporti tra i due vicepremier. L’allarme di Tria su un aumento delle tasse per poter realizzare quanto prevede il Contratto, a iniziare dalla flat tax, ha curvato i già fragili equilibri.
Se il segretario della Lega è il più esposto perchè la tassa piatta è un suo cavallo di battaglia, anche Di Maio non può esultare perchè la rincorsa per trovare le risorse necessarie a coprire la prossima legge di bilancio non lascia spazio alla possibilità di andare avanti con i propri progetti.
Per questo l’incontro di oggi è stato più un messaggio di ottimismo da lanciare all’esterno che una vera e propria programmazione dei prossimi mesi. La prova del nove è l’accettazione, confermata dalle parole di Conte, che la flat tax per ora resterà una promessa, così come è stata scritta nel Def.
Solo dopo l’estate si inizierà a ragionare sulle aliquote, ma il problema di dove recuperare le risorse è la portata principale di questo pranzo a tre, in cui il grande assente è il ministro dell’Economia, volato a Washington, ma forse non troppo gradito da alcuni dei commensali.
Spending review, revisione delle agevolazioni fiscali, crescita nel secondo trimestre: le soluzioni annunciate da Conte e Salvini al termine del vertice svelano la fragilità dei prossimi passi che il governo intende compiere per ottemperare agli obblighi sui conti pubblici.
Sono coperture a cui ci si è aggrappati più volte nel recento passato, dai governi di centrodestra a quelli del Pd: mai nessuno è riuscito nell’intento. La revisione della spesa pubblica si è schiantata contro privilegi e interessi, mettere mano alle agevolazioni significa scontentare chi oggi ne gode.
Sperare ancora nella crescita durante il secondo semestre è alquanto complesso e soprattutto irreale. A maggior ragione che al momento non ci sono segnali positivi in vista.
Ma nel day after l’ostentazione della serenità è alla base della strategia comunicativa. “Non prevediamo la patrimoniale e eviteremo l’aumento dell’Iva”, ribadisce Conte da Bruxelles. “Non ci saranno nuove tasse, niente aumento dell’Iva, niente tasse sulle casse, niente tasse sui risparmi, niente patrimoniale”, conferma Salvini parlando con i giornalisti davanti a palazzo Chigi.
Ma il tono di voce tradisce più di qualche dubbio di non riuscire le promesse elettorali, trovandosi così in grande difficoltà già pensando a una flat tax che potrebbe non arrivare mai. Davanti a questa debolezza, che forse Salvini non aveva mai provato fino ad ora, l’antidoto è lanciarsi in un bagno di folla. Il vicepremier leghista percorre a piedi il centro di Roma, in maniche di camicia bianca. È qui,
nel cuore della Capitale, in uno dei posti più affollati dai turisti si fa riprendere dalle telecamere mentre scatta un selfie dopo l’altro con i suoi ammiratori incrociati per strada per far vedere che il consenso è ancora dalla sua parte.
Ora le parole suonano come frasi di circostanza, ma l’allarme lanciato da Tria è già scattato.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
CONTESTANO LE NUOVE REGOLE E LA MAGISTRATURA POTREBBE DAR LORO RAGIONE
Nuovi problemi per il M5S sui soldi che i parlamentari versano al Movimento ogni mese a
titolo di restituzione ai cittadini.
Una ventina di senatori e deputati, infatti, contestano infatti il nuovo meccanismo ideato dai vertici che prevede un versamento mensile di almeno 2mila euro su un conto per la restituzione ad un comitato ad hoc, intestato a Luigi DI Maio e ai due capigruppo di Camera e Senato Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli, e dicono che questa “imposizione” per avere la certezza delle restituzioni ed evitare il ripetersi di nuovi casi di “furbetti del bonifico”, potrebbe essere nulla.
I contestatori, una ventina scrive l’agenzia di Stampa AdnKronos, si appellano infatti all’articolo 782 del Codice civile, in base al quale “la donazione deve essere fatta per atto pubblico” redatto da un notaio o da altro pubblico ufficiale, a pena di nullità .
Questo passaggio, spiega un deputato, non avviene: ogni mese, infatti, gli eletti devono semplicemente versare almeno 2mila euro su un conto corrente.
La legge non prevede il passaggio dell’atto pubblico nel caso di donazioni di “modico valore”.
Ma il punto su cui diversi parlamentari si stanno interrogando è proprio questo: i 2mila euro donati ogni mese possono essere considerati una somma di “modico valore”? . “I vertici chiariscano – minaccia uno dei parlamentari – altrimenti non verseremo più un euro”.
La fronda si alimenta anche grazie a una scheda, che circola nelle chat interne, elaborata dal sito studiocataldi.it sul tema delle donazioni, dove si legge che “la legge non offre un riferimento ben preciso ma si limita a stabilire, nel secondo comma dell’articolo 783 del codice civile”, e che ‘la modicità deve essere valutata anche in rapporto alle condizioni economiche del donante”.
La questione si complica di più perchè l’autore del post è l’avvocato Roberto Cataldi, curatore del portale ‘Studio Cataldì e soprattutto deputato del Movimento 5 Stelle.
“Se si dovesse aprire un contenzioso” sulla legittimità delle donazioni “il giudice dovrebbe valutare tanti elementi e la sua non sarebbe una decisione scontata. Non escludo ci possa essere una pronuncia che dichiari nulla la donazione”, ammette Cataldi.
Secondo l’avvocato, tutto è rimesso alla “valutazione discrezionale del magistrato. Occorre verificare ad esempio – spiega – se la donazione incide in maniera rilevante sul patrimonio del donante. E dal momento che la legge si limita a fissare principi generali ed astratti, senza indicare una cifra ‘esatta’, la questione potrebbe essere decisa in modo diverso per ciascun soggetto. Il problema si potrebbe porre in particolare per chi percepisce solo lo stipendio da parlamentare e non ha altri redditi” ma la decisione del giudice non sarebbe affatto scontata”.
Per Cataldi “siamo sul filo del rasoio”. I circa 2mila euro al mese che gli onorevoli 5 Stelle si decurtano dallo stipendio per versarli sul conto del Comitato “in un anno diventano una cifra importante” e quindi “non si può escludere a priori che una sentenza possa considerare non modica quella cifra”. A pesare sulla decisione è in ogni caso la capacità patrimoniale complessiva del donante.
La questione è stata posta all’attenzione di D’Uva, presidente dei deputati grillini. Il quale prova a gettare acqua sul fuoco: “Qualora ci fossero dubbi – dice il capogruppo -, questi verranno fugati. Il Comitato rimborsi è stato costituito per creare un conto intermedio, che servirà a far decidere agli iscritti su Rousseau la destinazione delle restituzioni e a evitare una nuova ‘rimborsopoli’. Noi andiamo avanti su questa strada. Poi, ripeto: se qualcuno ha dei dubbi, li fugheremo”.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
IL 77% DEL PATRIMONIO IMMOBILIARE E’ OCCUPATO DALLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE E NON E’ DISPONIBILE
Il governo di Lega e Movimento 5 stelle va avanti sul piano di dismissioni immobiliari già inserito nella legge di bilancio 2019.
Si legge, infatti, nella bozza del Documento di economia e finanza (Def) circolata il 9 aprile: “Per il 2018 i proventi derivanti dalle vendite di immobili pubblici dovrebbero ammontare a 600 milioni. Nel triennio 2019-2021 il programma di dismissioni immobiliari prevede un ammontare di 1,25 miliardi, oltre agli 1,84 già previsti”.
In altri termini, da qui al 2021, agli 1,84 miliardi di cessioni ordinarie già preventivate, si aggiungono 1,25 miliardi da operazioni straordinarie. Quest’ultima cifra, del resto, era già stata inserita nell’ultima legge di bilancio, che la suddivideva in 950 milioni per il 2019 più 150 milioni sia per il 2020 sia per il 2021.
In totale, quindi, il governo, che fa sapere di avere realizzato proventi per circa 600 milioni da quest’attività l’anno scorso, conferma per il triennio al 2021 la sua stima di 3 miliardi abbondanti di guadagni dalla vendita di palazzi, caserme e fabbricati.
Un obiettivo che potrebbe sembrare tutto sommato semplice da raggiungere, se si considera che le ultime stime disponibili elaborate dal ministero dell’Economia e risalenti al maggio del 2018 (ma su dati del 2015) fotografavano un valore patrimoniale dei fabbricati pubblici, vale a dire circa 1 milione di unità catastali per una superficie di 325 milioni di metri quadrati, pari a 283 miliardi di euro. Guadagnare 3 miliardi vedendo attività valutate 283 potrebbe, insomma, apparire come un’impresa non certo impossibile.
Ma c’è un piccolo problema che fa notare lo stesso ministero dell’Economia nella nota del maggio del 2018 con cui diffonde i risultati del censimento: gran parte di questo patrimonio immobiliare, ossia il 77% corrispondente a un valore stimato di circa 217 miliardi, è “riconducibile a fabbricati utilizzati direttamente dalla pubblica amministrazione e quindi non disponibili, nel breve e medio termine, per progetti di valorizzazione e dismissione”.
Il restante 23% “è dato in uso, a titolo gratuito o oneroso, a privati (51 miliardi), oppure risulta non utilizzato (12 miliardi) o in ristrutturazione (3 miliardi)”.
Questo significa che, per guadagnare quei 3 miliardi cui ambisce, lo Stato potrà verosimilmente contare soltanto su questo 23%, corrispondente a una porzione di patrimonio per un valore stimato di circa 66 miliardi e non di 283.
L’impresa di vendere immobili pubblici per fare cassa, quindi, è più ardua di quanto lì per lì possa sembrare. Senza contare che, in generale, il mercato immobiliare non sembra avere ripreso lo slancio di un tempo.
La vendita di immobili pubblici rientra nel grande calderone delle privatizzazioni, dalle quali il governo lo scorso autunno aveva fatto sapere di attendersi 18 miliardi solo nel 2019.
Si legge, così, nella bozza del Def che il debito pubblico quest’anno salirà al 132,7% del Prodotto interno lordo “pur includendo proventi da privatizzazioni pari all’uno per cento del Pil”, dunque in area 16-17 miliardi.
Immobili a parte, da cui come visto si conta di ottenere 3 miliardi di guadagni circa in tutto nel triennio, non sarà semplice raggiungere l’obiettivo di 13-15 miliardi dalla cessione di quote in società pubbliche o a controllo pubblico.
Anche perchè a fine novembre il vicepremier Luigi Di Maio aveva puntualizzato che non si sarebbero venduti “gioielli” bensì — aveva lasciato intendere — attività di poco valore: “Non stiamo parlando di asset strategici, di gioielli di Stato, stiamo parlando principalmente di immobili o partecipazioni inutili come quelle che si facevano negli anni per fare un favore al politico o a qualche lobby”.
(da “Business Insider”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
IL SETTIMANALE TEDESCO CRITICA LA SINDACA: “E’ FELICE, TWITTA E SU FB PUBBLICA FOTO DI BUCHE RIEMPITE”
Tutto il mondo le guarda. Da una parte la Capitale che le classifiche di qualche giorno fa
incoronavano come città più visitata d’Italia. Dall’altra lei, la sindaca di Roma Virginia Raggi alla quale il settimanale tedesco Der Spiegel dedica un ampio articolo non proprio celebrativo.
«Raggi da speranza a incubo» sintetizzano i reporter d’Oltralpe. Moltiplicando come in un gioco di specchi le loro opinioni critiche nei confronti della prima cittadina a cinque stelle e della Città eterna che, in questi ultimi mesi, si è abituata a vedersi “sporca, brutta e cattiva” sulla stampa internazionale. Basti pensare al reportage del New York Times lo scorso Natale intitolato “Rome in ruins” in cui l’Urbe veniva vivisezionata nei suoi problemi di degrado quotidiano.
Stavolta però l’attacco è ancora più diretto e fa il nome e il cognome che riconduce allo scranno più alto del Campidoglio.
Nell’articolo intitolato “ Mà¼ll, Gier und Ratten” (rifiuti, avidità e ratti) si legge: «A Roma si assiste al clamore di una città che muore. Regnano spazzatura, avidità e topi. La Raggi da grande speranza è divenuta un un incubo, mentre i ratti e i gabbiani sono più aggressivi di un pterosauro. I romani devono già convivere con il fatto che tre stazioni centrali della metropolitana sono paralizzate a causa di scale mobili difettose; che gli autobus restanti sono affollati, perchè in media ogni settimana uno dei veicoli obsoleti va in fiamme e che in alcune strade della capitale italiana la spazzatura si ammucchiava come altrimenti solo a Mumbai o Dhaka».
Quindi l’affondo: «Eppure la Raggi è felice, twitta e rilancia su Facebook post di buche appena riempite o di pochi metri di piste ciclabili di nuova creazione. È orgogliosa del fatto che ora ci sono domeniche senza auto a Roma e non pensa che sia un male che per mesi nella sua immensa metropoli nessun consiglio comunale abbia trovato una soluzione per la spazzatura».
Non mancano riferimenti alla cronaca giudiziaria recente e all’evento che ha visto il Pontefice in visita al Comune: «Tre stretti collaboratori del sindaco, popolarmente noti come “Raggis Rasputins”, sono finiti in galera per accuse di corruzione -viene ricordato-.
Secondo Papa Francesco, Roma deve essere trattata come un “organismo fragile”, con cui bisogna fare attenzione, “affinchè non si perda l’intero splendore della città . Ma la Raggi ha capito il suggerimento? Se la sua città sprofonda nel caos della neve come nel 2018, Raggi pubblica ancora le foto che la mostrano in bicicletta con la maglietta di partecipante alla conferenza Women4climate a Città del Messico».
Dalle stanze di palazzo Senatorio, almeno finora, non è arrivata nessuna risposta, nessuna “difesa d’ufficio”. Che non c’era stata in verità neanche quando fu pubblicato il pezzo sul Nyt.
Fra i cittadini invece non mancano i commenti all’ennesima stilettata a Roma. In piazza del Campidoglio i romani che si mescolano ai tanti turisti danno in parte ragione al giornale tedesco ma si dicono anche «stufi che si parli sempre e soltanto di cose negative».
A sostenerlo è un gruppo di giovani architetti che lavorano in zona e quasi ogni giorno in pausa pranzo sale la cordonata fino alla statua del Marc’Aurelio. Per poi andare ad affacciarsi dalla terrazza che dà sul Foro Romano. Hanno fra i 25 e i 30 anni e pur ammettendo la realtà dei problemi puntano il dito
verso loro stessi. «Non ci piace generalizzare -sostengono-, ma noi italiani in genere non sappiamo nè apprezzare nè valorizzare quel che abbiamo, lo diamo per scontato. Se ci tenessimo di più non ci limiteremmo a lamentarci per i rifiuti per le metro chiuse per i mezzi che non funzionano, senza poi far nulla di concreto. Dovremmo diventare noi stessi turisti e guardare le nostre città come se fosse sempre la prima volta. Allora forse non ci saranno più articoli come questo del giornale tedesco».
(da “La Stampa”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
SOLO 50° NELLA LISTA DEGLI 88 PALAZZI OCCUPATI DA LIBERARE
L’edificio di via Napoleone III che oggi è sede di Casapound verrà sgomberato nel 2030.
Lo calcola oggi il Fatto Quotidiano in un articolo a firma di Vincenzo Bisbiglia in cui si raccontano i ranking per le decisioni sugli sgomberi a Roma:
L’edificio di via Napoleone III è inserito nella lista degli 88 palazzi occupati da liberare, stilata dalla Prefettura di Roma in base a un ranking ottenuto dalla somma dei criteri dettati dal ministero dell’Interno, che sono le criticità strutturali e —da qualche mese —la presenza di decreti di sequestro preventivo o di rilascio intimato dall’autorità giudiziaria.
Nessuno di questi, però, interessa al momento CasaPound. Il palazzo che la ospita e in cui abitano alcune famiglie vicine al movimento di estrema destra si troverebbe molto indietro nella “classifica” della prefettura. Pare non prima della posizione 50.
Considerando che a Roma gli sgomberi procedono al ritmo di un’operazione ogni tre mesi (quattro o cinque all’anno) e che altre occupazioni potrebbero aggiungersi alla lista, si calcola che il turno del palazzo di via Napoleone III non arriverà primadel 2030.Salvo, ovviamente, che non subentri un’accelerazione “politica”.
Qualche giorno fa il capo politico M5S chiedeva di “sgomberare CasaPound così come chiunque occupi in modo illegittimo un’abitazione o uno stabile già assegnato a chi ne ha realmente bisogno”. Ma nonostante gli auspici di Di Maio, la tartaruga frecciata per il momento sembra essere in una botte di ferro.
(da agenzie)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
IN SPAGNA CRESCITA DEL 2,6%, TRE VOLTE L’ITALIA, IN PORTOGALLO DEL 2%
Europa, buoni esempi mediterranei. La Spagna cresciuta del 2,6% nel 2018 (il triplo,
rispetto allo stentato 0,9% dell’Italia) e con la previsione di crescere del 2,2% nel 2019 (contro una crescita zero o sottozero dell’Italia).
E il Portogallo, con un Pil in crescita del 2% nel 2018 (dopo un buon 2,7% del 2017) e con una stima di un altro 1,5% nel 2019. Sono entrambe economie fragili, naturalmente.
Vengono fuori da una stagione di pesante recessione, con un severo lavoro di aggiustamento dei conti pubblici, tutt’altro che privo di costi sociali.
Risentono di arretratezze produttive e di parziale assenza dai settori strategici dell’economia digitale. Eppure cambiano, crescono, innovano, attraggono investimenti, s’impegnano a costruire nuovi equilibri economici e sociali.
E in tempi difficili di crisi e contestazioni verso la Ue, scelgono di restare chiaramente legate alle regole e alle strategie di Bruxelles, come cardine dell’impegno di risanamento e rilancio, invece che indulgere a populismi anti-euro e a sovranismi senza prospettive.
Sino a pochi anni fa erano considerati un problema per l’Europa, uno dei quattro “Pigs”, acronimo dall’eco volgare per indicare appunto Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, la deriva mediterranea, i focolai di crisi che minacciavano la stabilità della Ue, il cattivo esempio della sponda Sud. Adesso quella sigla non è più d’attualità nel discorso pubblico europeo.
Spagna e Portogallo non hanno conti pubblici a rischio, non alimentano polemiche rozze contro la moneta unica, non occupano il dibattito politico contestando “i burocrati” di Bruxelles e, soprattutto, le loro economie sono in netta ripresa anche in questi ultimi mesi difficili di rallentamento delle economie globali.
La Grecia sta faticosamente camminando lungo la strada del risanamento, archiviata la stagione velleitaria ed estremistica di Tsipras-Varoufakis: l’ex ministro dell’Economia, fuori dai giochi politici, se ne va in giro a fare conferenze, il premier Tsipras, dopo aver condotto il suo Paese sull’orlo della Grexit e del fallimento, ora è interprete di politiche responsabili.
Resta aperto il caso Italia: nessuna crescita, deficit pubblico in allarmante aumento verso le soglie di tolleranza ex Maastricht, debito pubblico ben oltre il 130% del Pil e senza segnali credibili di riduzione. E spread molto maggiore di quelli di Spagna e Portogallo, sempre al di sopra di quota 250, dunque con ricadute sul costo parecchio più elevato per finanziare il debito. In tempi, appunto, di crisi globale e con un governo che fa delle polemiche con la Ue un fondamento d’una campagna elettorale dai toni accesi, l’Italia è l’anello debole dell’Europa. Un problema per noi e per tutta l’area dell’euro.
Vale la pena considerare alcuni altri dati (“Il Sole24Ore” sta dedicando proprio in queste settimane accurati reportage all’Europa mediterranea).
Gli investimenti internazionali, per esempio: la Spagna (dati dell’Ufficio studi del Banco Santander) ha uno stock di investimenti esteri di 650 miliardi di dollari), equivalenti al 50% del Pil, rispetto al 30% di Germania e Francia e al 20% dell’Italia.
Il deficit spagnolo è sceso al 2,6% del Pil, uno dei più alti della Ue, ma caratterizzato da un percorso
virtuoso di riduzione che dovrebbe portare, nei prossimi mesi, alla conclusione della procedura Ue per deficit eccessivo. Il debito è in costante calo, al 97,2% del Pil alla fine del 2018, quasi un punto in meno di quello del 2017. Basso lo spread, dunque, un terzo di quello italiano.
Risanamento dei conti pubblici e investimenti ripresa sono i cardini d’una politica economica di successo. Esportazioni e attrazione di capitali internazionali. E stimoli alla domanda interna.
Tutto sempre dentro i solidi confini dell’Europa e dell’euro.
Le scelte politiche di fondo sono state condivise dai governi che si sono succeduti nel tempo, i popolari e poi i socialisti, pur in presenza di fragilità delle alleanze politiche, ma anche di gravi tensioni (l’autonomismo catalano estremizzato, con le dure polemiche tra Barcellona e Madrid). E, nonostante limiti e contraddizioni, stanno pagando in termini di equilibri, ripresa, riavvio del benessere.
Anche il Portogallo ha dati su cui riflettere.
Il deficit è appena allo 0,5% del Pil, sintomo d’una ottima condizione dei conti pubblici che libera risorse per investimenti (nel 2017 quel deficit era al 3%, dopo aver toccato l’11% al culmine della Grande Crisi). Il debito resta sopra il 120% del Pil, ma l’avanzo primario che si sta generando permette di nutrire fiducia in un percorso chiaro di rientro.
“Il Portogallo è riuscito a conquistare un livello di credibilità che non avevamo mai avuto”, sostiene Mario Centeno, ministro delle Finanze del governo guidato dal socialista Antonio Costa e, dal 2018, presidente dell’Eurogruppo di Bruxelles (l’organismo di coordinamento di tutti i ministri delle Finanze dei 19 paesi dell’euro).
Insiste Centeno: “Abbiamo riavviato un meccanismo virtuoso che, partendo dalla crescita, dai conti pubblici e dalla conseguente credibilità , ha moltiplicato la fiducia dei mercati che si è tradotta in una riduzione dei tassi d’interesse ai minimi storici”.
Anche a Lisbona, i governi conservatore prima e poi, dal 2016, socialista hanno condiviso i percorsi di risanamento e di rilancio, con uno sguardo lungimirante sul primato degli interessi del Portogallo e non della propaganda elettorale. Nessun populismo, nessun sovranismo. E intelligente legame con Bruxelles, compreso il buon utilizzo dei fondi europei a disposizione (proprio quelli che l’Italia, soprattutto nelle regioni del Sud, si dimostra incapace di usare).
Commenta Carlo Cottarelli, che da direttore esecutivo del Fondo Monetario, ha monitorato a lungo la situazione portoghese: “Il governo Costa ha sempre confermato il suo fermo impegno a formulare e implementare politiche economiche e fiscali che promuovono una crescita sostenuta ed equa, in un contesto di consolidamento fiscale”, promuovendo “un aggiustamento fiscale del tutto in linea con gli impegni internazionali”, soprattutto con “un controllo della spesa, eliminando gli sprechi, com’è necessario in un paese con un elevato debito pubblico”.
Gli effetti: due paesi in crescita, nel contesto di un’Europa che li considera esempi positivi.
La loro lezione mediterranea potrebbe far bene all’Italia.
(da “Huffingtonpost”)
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Aprile 10th, 2019 Riccardo Fucile
IN POCHE ORE E’ DIVENTATA UNA ICONA MONDIALE
Questa ragazza in piedi sul tetto di un automobile con un braccio alzato verso la folla sembra un quadro, una statua, un simbolo di coraggio, testa alta e resistenza.
Ieri tanti suoi coetanei in Sudan l’hanno immortalata così con il loro smartphone mentre gridava “Thowra!” (“Rivoluzione!”, in arabo).
Si chiama Alaa Salah, ha soli 22 anni ed è una studentessa di Ingegneria. In questo momento la giovane, diventata nel giro di poche ore una icona mondiale, simboleggia la protesta antigovernativa contro Omar al-Bashir.
Chi afferma che Alaa è la “statua della libertà sudanese” ha ragione. Ogni rivoluzione che si rispetti ha una sua immagine simbolo, forte che squarcia l’indifferenza intorno a una rivolta.
A scattare questa fotografa è stata Lana Haroun a Khartoum, capitale del Sudan. “Alaa stava provando a dare un po’ di speranza e di energia positiva, e ci è riuscita”, ha raccontato la fotografa alla CNN. “In quel momento rappresentava tutte le donne e le ragazze sudanesi presenti al sit-in, stava mostrando loro la via. Alaa stava raccontando la storia della donna sudanese… era perfetta”.
Il noto vignettista sudanese Khalid Albaih, in esilio a Copenaghen ha dichiarato “Il suo è il volto e il nome della nostra rivoluzione”. “Promettetemi che dopo la caduta di al-Bashir mi aiuterete a buttare giù quelle orribili sculture militari nell’area del sit-in e a costruire un’enorme scultura di bronzo con l’immagine di Alaa Salah circondata dai martiri della rivoluzione”, ha scritto Albaih su Twitter, postando una vignetta che rappresenta Alaa.
Come ha scritto Federico Marconi sull’Huffington post, Alaa è diventata un simbolo nel paese arabo in cui le donne subiscono una costante repressione da parte dello Stato.
Ma proprio le donne stanno giocando un ruolo importante nelle manifestazioni contro il presidente al-Bashir degli ultimi mesi, in cui gli uomini sono quasi sempre una minoranza. E per questo molte attiviste sono state arrestate sin dall’inizio dell’ondata di proteste alla fine dello scorso anno.
Un report di Human Rights Watch ha descritto come i servizi di sicurezza nazionale abbiano preso di mira le donne negli ultimi mesi, arrestate a decine per futili motivi: anche per il loro modo di vestire.
Il vero motivo di questi arresti è che sono il vero cuore di una protesta sempre più dura contro un regime che dura dal 1989 e che più volte ha violato i diritti umani. I manifestanti chiedono ai militari di smettere di proteggere il presidente al-Bashir
Cosa sta succedendo in Sudan? Si protesta da sabato scorso ininterrottamente. I soldati hanno iniziato a proteggere i manifestanti da altre forze del regime che invece hanno ricevuto ordine dal rais, Omar al Bashir, di disperdere la folla.
L’insofferenza era montata a dicembre, quando erano state introdotte misure di austerità che toglievano sussidi e facevano aumentare i prezzi, in particolare del pane e dei beni di prima necessità .
(da Globalist)
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