Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
IN REALTA’ E’ UN’OTTIMA REFERENZA IN TEMPI IN CUI GLI ATTUALI SOVRANISTI SI PULIVANO IL CULO CON IL TRICOLORE O SI FACEVANO LE CANNE NEI CENTRI SOCIALI
Un divorzio annunciato? Tra gli azzurri è diffusa la convinzione che il divorzio da Carfagna sia
solo una questione di tempo.
Secondo un big di Forza Italia “Mara vuole fare i gruppi autonomi non si capisce a che pro, solo per darci fastidio”
Carfagna non vuole commentare il ‘richiamo’ di Berlusconi
L’azzurra prende tempo – è in partenza per Tokyo, dove parteciperà al sesto vertice dei presidenti dei parlamenti dei paesi membri del G20
Ma la nota firmata dagli otto senatori di FI, critica rispetto alla posizione del partito sulla commissione Segre, potrebbe essere la base eventuale per formare un gruppo autonomo, magari avvalendosi al simbolo dell’Udc.
Come previsto è iniziato il tentativo di gettare fango sulla Carfagna, segno del nervosismo crescente tra i sovranisti che nei loro giornali (eufemismo) ricordano una frase di Mara Carfagna di una decina di anni fa: “Prima di votare Berlusconi, votavo per il Msi. Non c’era stata la svolta di Fiuggi voluta da Gianfranco Fini. Mio padre diceva che io e mio fratello, che ha due anni più di me e votava Msi come me, eravamo i fascisti di casa».
I sovranisti neanche si rendono conto che, ricordandolo, fanno un favore a Mara: lei evidentemente ha sempre amato il tricolore, a differenza di qualcun altro che con la bandiera italiana si puliva il culo e ora fa il sovranista russo .
O di qualcun altro che ha tradito i valori sociali del Msi per fare poi carriera grazie a Fini, altrimenti sarebbe a pulire i cessi .
(da agenzie)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
“RENZI E DI MAIO STANNO OGNI GIORNO SOLO A RIVENDICARE BANDERINE, INVECE CHE LAVORARE PER LA SQUADRA”
Nicola Zingaretti si è stufato e cambia schema. All’improvviso esce fuori il segretario del PD che non ti aspetti. È spazientito, forse anche deluso per l’atteggiamento dei compagni di avventura che ogni santo giorno stanno lì a rivendicare una bandierina, un risultato. E non fanno altro che indebolire l’esecutivo. Leggi alla voce Luigi Di Maio e Matteo Renzi.
E lui, invece, come una bella statuina, ad incassare, a smussare gli angoli, a cercare di tenere insieme la baracca giallorosso per senso di responsabilità . No, no, da ora in poi Zingaretti dice basta alla narrazione dello scolaro obbediente che incassa e sta zitto.
La mossa definitiva che stana tutti, avversari interni ed esterni, si concretizza alle 18 e 26 quando dall’innercircle del capo del Nazareno filtra che “nei prossimi giorni il segretario chiederà il ritiro o la modifica dei decreti sicurezza, come stabilito dal programma di governo”. Boom.
Non se ne parlava più delle famose misure targate Salvini che avevano già fatto discutere nei giorni della loro approvazione. E che nelle ore della formazione del governo erano state oggetto della contesa tra dem e grillini.
Con il segretario del Pd che, in pieno agosto, quando il governo giallorosso era in stato embrionale, evocava la cancellazione delle due misure antimigranti in segno di discontinuità dall’esecutivo gialloverde. E con Di Maio che opponeva una certa resistenza. Si arriva a una sintesi, che prevede l’inserimento della proposta del Pd all’interno del programma dell’esecutivo.
Inizialmente, vuoi perchè occorre scrivere la legge di bilancio e sterilizzare le famose clausola di salvaguardia, vuoi perchè Luigi Di Maio non intende fare retromarcia sulle misure securitarie dei decreti Salvini 1 e 2, il dossier sicurezza sparisce dall’agenda dell’esecutivo.
Ora però la musica cambia. Visto che la politica funziona così, a colpi di tweet, di frasi ad effetto, e di uscite utili a risalire la china nei sondaggi, Zingaretti coglie la palla al balzo e contrattacca rivendicando un punto del programma insidioso, che divide i cinquestelle, e che mette in difficoltà anche lo stesso premier Giuseppe Conte.
“A differenza di Di Maio e Conte, Nicola lo può dire senza alcuna remora: i decreti sicurezza devono essere cancellati. Nicola non era al governo con Salvini e Calderoli”, sospira un alto dirigente del Pd.
In un attimo il segretario si riprende la scena. Prima verga una dozzina di righe che pubblica sui social e che hanno il sapore della rivalsa. Con un post scriptum che dice tutto sulla strategia zingarettiana. Eccolo: “Toc, toc…. C’è qualche altro leader che sostiene e che ha voluto questo governo, che lo difende dalle bugie e dagli attacchi della destra?”.
Non solo si pone come anti Salvini, ma risulta evidente che il messaggio sia rivolto a Luigi Di Maio e Matteo Renzi, entrambi guastafeste, entrambi ogni santo giorno pronti ad alzare il ditino e a sferzare il governo.
Non a caso proprio questa sera il ministro degli Esteri scrive un post su facebook in cui ribadisce che i risultati della legge di bilancio sono ascrivibili: ”[…] se (la manovra) è cambiata molto, se le multe dei pos sono state rimandate e se altre tasse superflue sono state cancellate è grazie MoVimento”. Cui poi segue un dettaglio di non poco conto: “Noi siamo al governo per fare le cose. Non ci interessa nè destra, nè la sinistra”. Ed è un’altra uscita che chiude definitivamente le porte alla potenziale coalizione tra Pd e Cinquestelle.
Eppure da ora in avanti Di Maio e company se la dovranno vedere con un Zingaretti diverso, agguerrito, che non indosserà più i panni del leader responsabile che accetterà qualunque cosa, ma pungolerà l’esecutivo in ogni circostanza, seguendo più lo schema contrattuale che era stato seguito all’epoca del governo gialloverde. Insomma, dal Nazareno il messaggio suona più o meno così: la pacchia è finita. Per Di Maio, Renzi e per chiunque altro…
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
SPUNTANO DUE DOCUMENTI CHE CONFERMANO CHE L’ITALIA FINANZA LE MILIZIE LIBICHE
Ogni conflitto ha il suo tariffario. In Libia si paga nella valuta sudicia dei diritti umani
calpestati, in quella sporca del petrolio contrabbandato a tonnellate verso un’Europa che lascia sbarcare i barili di frodo ma abbandona in mare i naufraghi. E negli euro che ricoprono d’oro i capi milizie.
Solo a settembre sono stati assegnati per la sola area che va da Tripoli al confine con la Tunisia oltre 5,7 milioni di euro ai combattenti che sostengono il governo del premier al-Serraj contro l’avanzata del generale Haftar.
Tra i principali beneficiari le brigate al Nasr, del clan a cui appartiene Bija, guardacoste e presunto trafficante, guidato dai fratelli Koshlaf. Una cifra colossale in un Paese dove il carburante costa 10 cent.
Alcune fonti in loco sostengono che, per come viene spesa quella montagna di soldi, bastano appena per qualche settimana di scontri. Un cortocircuito che mostra come Tripoli sia diventato un labirinto senza uscita per i governi europei che finanziano indirettamente i clan libici.
I documenti visionati da Avvenire confermano l’accordo nero su bianco e risalgono all’estate appena trascorsa.
Ma non è l’unico segreto sull’asse Bruxelles-Roma-Tripoli. Anche sulle relazioni tra le guardie costiere europee e quella libica continua a prevalere la linea d’ombra.
Ancora una volta, dopo una delle numerose richieste di accesso agli atti indirizzata alle autorità italiane, la risposta è quella solita: segreto di Stato.
L’avvocato Alessandra Ballerini, per conto dell’Associazione Diritti e Frontiere, aveva chiesto chiarimenti sul caso “Ocean Viking”, la nave di Medici senza frontiere e Sos Mediterranèe, rimasta in ostaggio del solito flipper tra cancellerie europee.
E così dal Comando delle Capitanerie di porto fanno sapere che la documentazione «investe rapporti con altri Stati, in specie Libia e Malta, i quali potrebbero sentirsi lesi nelle proprie prerogative dalla scelta italiana di ostendere atti recanti informazioni che possono in qualche modo riguardarli con il conseguente concreto pregiudizio ai rapporti che intercorrono tra Stati ed alle relazioni tra soggetti internazionali (Governo libico e maltese)».
Cosa ci sia da nascondere, se le norme internazionali sono state rispettate, non è dato da sapere. In altre parole, «le ragionevoli aspettative di confidenzialità dei diretti interessati» prevalgono ancora una volta sulla trasparenza.
Anche gli accordi tra Roma e Tripoli, in corso di imminente rinnovo, hanno molti capitoli coperti dal segreto nella parte attuativa. Si sa, ad esempio che «la parte italiana si impegna a fornire supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina, e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa, e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno».
Ma come avvengano i finanziamenti e chi ne controlli l’effettiva destinazione finale nessuno lo sa. Ancora più anomalo che il Memorandum Italia-Libia non sia stato mai votato dal Parlamento.
«Sono stati usati i soldi dei contribuenti della cooperazione per l’Africa per creare una guardia costiera che fa quello che noi, Paese occidentale, non possiamo fare: violazione sistematica dei diritti umani», dice Antonello Ciervo, dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).
Un capitolo riguarda, a parole, il contrasto al contrabbando di petrolio. Davanti alle coste di Zuara e Zawyah, intanto, ci sarebbero 236 navi adoperate per l’export illegale di idrocarburi. La notizia, rivelata da Euronews, non sembra allarmare le autorità Ue.
I sequestri di greggio esportato illegalmente sono una rarità . La cosiddetta guardia costiera libica, infatti, è più impegnata a catturare migranti da riportare nei campi di prigionia, anzichè concentrarsi sulle continue rapine di oro nero. Forse, come sostengono gli investigatori Onu, perchè a gestire gli affari sporchi sono i clan.
A pagare sono sempre i più deboli. Per l’Alto commissariato Onu per i diritti umani, una volta «intercettati in mare dalla Guardia costiera libica i migranti vengono rimpatriati in quel Paese. Vengono trasferiti in centri di detenzione sia ufficiali che ufficiosi». E lì sono sottoposti «non solo alla detenzione arbitraria indefinita, ma anche — si legge nel report della settimana scorsa — a gravi violazioni dei diritti umani come tortura e maltrattamenti, estorsioni, abusi e sfruttamento sessuale, tratta e traffico di esseri umani».
(da Avvenire)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
EQUIPAGGIAMENTI, ELICOTTERI, GOMMONI, MILIZIE; NESSUNO SA QUANTI SOLDI SIANO STATI ELARGITI ALLA LIBIA
È il segreto meglio custodito sui rapporti con la Libia. Nessuno sa esattamente quanti soldi siano partiti dalle cancellerie europee verso Tripoli, ne quanti altri prenderanno la via del deserto libico. Perciò, fermare il rinnovo automatico del Memorandum italo-libico significa anche rischiare di mettere a nudo una contabilità da svariati miliardi di euro.
Nel corso del colloquio con Avvenire il guardacoste e presunto trafficante Abdurahman al Milad, nome di battaglia Bija, aveva accennato a una «trattativa di anni» tra Italia e Tripoli poi approfondita nella lunga intervista a «l’Espresso».
Bija sapeva quel che diceva. Proprio nel 2008, infatti, il trattato di amicizia firmato da Gheddafi e Berlusconi prevedeva che l’Italia impiegasse cinque miliardi di dollari in aiuti. Un impegno mai rimangiato. In cambio, Tripoli si sarebbe impegnata a intensificare i pattugliamenti in mare e via terra per fermare i migranti.
Nonostante tutte le accertate violazioni dei diritti umani, nel 2012 l’Italia aveva rinnovato l’accordo con Tripoli, ribadito poi con il Memorandum del 2017 e che verrà prorogato per altri tre anni senza condizioni.
Di certo c’è che negli ultimi anni Roma ha elargito ai libici almeno 150 milioni solo per la cosiddetta Guardia costiera e per “migliorare” le condizioni dei diritti umani.
Risultato: per l’Onu e per l’Ue i campi di prigionia sono irriformabili, e vanno tutti chiusi. Milioni di euro degli italiani letteralmente spariti tra le dune, non meno di quanto non avvenga con i fondi europei. A Tripoli sanno di impugnare il coltello dalla parte del manico.
Il 20 marzo del 2017 il premier libico al Sarraj ha presentato una lista della spesa mai ritoccata. Valore, oltre 800 milioni di euro: 10 navi, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 fuoristrada, 15 automobili accessoriate, almeno 30 telefoni satellitari ed equipaggiamento militare non sottoposto all’embargo sulle armi votato dall’Onu.
Nello stesso periodo il governo italiano assicurava che entro il 2020 sarebbero stati investiti oltre 280 milioni solo per le autorità marittime.
C’è poi il capitolo milizie. Un contratto, visionato da «Avvenire», riporta l’accordo tra il governo riconosciuto dall’Onu e le principali milizie anti Haftar. Ci sono poi benefit a costo zero.
L’Europa ha ritirato gli assetti navali dell’operazione Sophia, così proprio da Zawyah – ha rivelato ieri Euronews — continuano a operare senza alcun rischio di ispezione le 236 navi sospettate di essere coinvolte nel traffico di carburante.
(da “Avvenire”)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
NESSUNO LO DICE, MA LA PROMESSA DI COMPLETARE LA RICOSTRUZIONE DEL PONTE ENTRO IL 15 APRILE SERVE A TOTI PER LA CAMPAGNA ELETTORALE PER LE REGIONALI
Il tempo stringe e la ricostruzione non procede secondo le aspettative. 
Il nuovo viadotto sul Polcevera fatica a prendere forma: si lavora ormai da più di cinque mesi, ma alla struttura che sorgerà al posto del ponte Morandi mancano ancora 18 campate su 19.
Al momento se ne vede una sola, quel tratto da 50 metri d’impalcato tra le pile 5 e 6 (sul lato ovest) inaugurato il 1° ottobre scorso con una cerimonia solenne, alla presenza del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli. Dopo di che, più nulla.
I piloni completati sono 4 su 18, tutti a ovest, mentre a est i lavori rimangono nelle primissime fasi.
Di questo passo appare molto difficile rispettare la prossima scadenza-chiave, oggetto di un preciso impegno da parte del consorzio Fincantieri-Salini-Italferr e sottolineata più volte dal sindaco-commissario Marco Bucci (e non solo): quella, cioè, che vorrebbe l’intero “scheletro” del nuovo ponte in piedi entro la fine del 2019, per arrivare al collaudo nel mese di aprile 2020.
Nonostante i turni degli operai coprano 24 ore al giorno, festivi compresi, a rallentare la tabella di marcia sono intervenuti più fattori, dai ritardi nella demolizione al ritrovamento di idrocarburi nel sottosuolo. Fino al meteo, con i nubifragi e le raffiche di vento che hanno colpito Genova nelle ultime settimane (tutt’altro che imprevedibile in autunno in Liguria) complicando ulteriormente le operazioni, in particolare quelle da compiere in quota.
Il piano prevedeva l’avanzamento dei lavori in contemporanea dalle due sponde del Polcevera, ma sul lato di Levante, dove c’è stata l’implosione a fine giugno, l’opera è allo stato embrionale: per quattro pile su nove si sta ancora lavorando sottoterra, con lo scavo delle fondamenta e la realizzazione dei pali di fondazione in ferro. Altre quattro hanno appena cominciato a vedersi, con la posa dei primissimi blocchi, mentre per la pila dieci, la più vicina al torrente, c’è da attendere il completamento di una struttura preparatoria.
Per quanto riguarda gli impalcati tra una pila e l’altra (16 blocchi da 50 metri, più i tre centrali da 100), uno è già al suo posto, un altro sta per essere sistemato tra le pile 4 e 5, altri cinque sono in assemblaggio a terra. Dei restanti non c’è ancora traccia.
Bucci e la sua squadra però contano su tre nuove mega-gru, arrivate in cantiere negli ultimi giorni dai Paesi Bassi, che dovrebbero velocizzare, e di parecchio, i lavori. “Il prossimo mese sarà decisivo per capire se la scadenza di fine anno è plausibile”, dice a Ilfattoquotidiano.it l’architetto Stefano Russo, uno dei progettisti dell’opera nel team di Renzo Piano. “Se tutto va per il meglio, il ritardo si può recuperare. Altrimenti per gli ultimi pezzi d’impalcato bisognerà aspettare il 2020”.
A sollevare per primo dubbi sull’effettiva possibilità di rispettare i tempi è stato, il 25 ottobre, il Secolo XIX. Il sindaco-commissario si è preso un giorno per rispondere, poi ha sfoderato il solito ottimismo: “Il nuovo ponte va avanti come deve andare. Non ci sono ritardi, anzi è esattamente l’opposto. A fine aprile faremo l’inaugurazione e gli impalcati si vedranno già a fine anno”, ha detto, ammettendo però che “un paio verranno montati nelle prime settimane di gennaio”.
“Ogni project planning ha ritardi e compressioni di tempo, ha argomentato Bucci, la pioggia non ha aiutato, ma altre cose, tipo l’arrivo delle nuove gru, stanno aiutando”.
Ilfattoquotidiano.it ha provato più volte, senza successo, a contattare il sindaco: il suo portavoce fa sapere che la posizione ufficiale è quella trasmessa alle agenzie nei giorni scorsi. Anche il consorzio PerGenova, che riunisce Fincantieri e Salini Impregilo, resta irraggiungibile: alla richiesta di un confronto, con domande precise sullo stato di avanzamento dei lavori, non arrivano risposte. Peraltro, le due aziende (insieme a quelle incaricate della demolizione) hanno firmato un contratto che prevede penali salatissime in caso di ritardo sulla data prevista per il collaudo dell’opera, il 15 aprile del prossimo anno.
Ma le bocche sono cucite anche nelle sedi istituzionali. “Dopo il crollo del ponte, il sindaco ci aveva garantito una commissione ogni settimana per relazionare sull’avanzamento dei lavori”, denuncia il consigliere comunale Pd Alessandro Terrile, “ma negli ultimi due mesi siamo stati convocati una volta sola. Hanno sospeso anche le visite periodiche al cantiere, che comunque erano sempre guidate. Al di là delle frequenti inaugurazioni, si può chiedere come stanno procedendo davvero i lavori? È lecito domandarsi a che punto siamo senza essere tacciati di disfattismo? Attendiamo che la struttura commissariale si degni di venirci a riferire”, attacca.
Sullo sfondo, poi, c’è il nodo delle montagne di detriti rimaste nel quartiere del Campasso dopo la demolizione con esplosivo: 25mila metri cubi andranno a formare la collina artificiale su cui sorgerà il parco pubblico ai piedi del ponte, mentre i restanti 35mila, esclusa l’ipotesi di usarli per il ribaltamento a mare di Fincantieri, saranno trasferiti su gomma in un’area di stoccaggio. Anche quelli, aveva promesso di nuovo la struttura commissariale, “entro la fine dell’anno”. Per il trasporto, a spanne, saranno necessari 2.800 viaggi di camion pesanti. Al momento non ne è stato effettuato neppure uno.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
IL RACCONTO DEL CONFLITTO SUL CAMPO
In un villaggio vicino a Tell Tamer il tempo sembra esserci fermato. Alle sue porte, una gigantografia di un ragazzo giovane con in mano un kalashnikov e dietro un leone, è ingiallita dal tempo.
È uno dei martiri che ha combattuto contro l’Isis. Di fianco c’è un piccolo tempio azzurro e arancione, e sul tetto una croce. Le case sono basse, e hanno tutte un giardino.
Decine di famiglie di tutte le religioni si sono rifugiate qui, uno delle ultime comunità assire della zona. “Noi stiamo ospitando nove famiglie, siamo di religioni differenti, ma questo non importa”, spiega Nazmina, una donna sui 50 anni.
Ha la pelle chiara, e gli occhi scuri. Porta la kefiah bianca e nera come un turbante, ma si intravede qualche capello chiaro. “Vogliamo solo vivere in pace”, spiega mentre porge un bicchiere d’acqua. Siamo seduti nel cortile, sotto una tettoia di alluminio ricoperta di foglie di vimini.
Di fianco c’è una chiesetta piccolissima. È un cubo bianco, con delle croci di ferro sulle pareti esterne. L’altare è fatto di piastrelle bianche, su cui sono poggiate diverse croci e immagini di Gesù.
“Se i turchi si avvicinano troppo dovremo scappare, ci tagliano la testa di sicuro”, continua la donna. I cristiani sono sotto attacco, lo denuncia anche il portavoce delle FDS, Mustafa Bali: “La piccola popolazione cristiana che è riuscita a sopravvivere all’Isis sta ora fuggendo dalle proprie case nella zona di Khabur vicino a Til Temir a causa degli attacchi turchi. Il giorno in cui il Congresso americano ha votato per riconoscere il genocidio armeno, un altro genocidio è appena iniziato”.
La minoranza cristiana ha paura. Gli assiri sono rimasti in 1.200, all’inizio della guerra erano 25.000. “Abbiamo paura di un altro massacro”, dice Shamin Kako, portavoce della comunità a Tell Tamer.
Kako è anche alla guida del partito politico legato alla comunità . Per questo si scappa. La paura è tanta, anche se la situazione sembra essersi calmata. Il regime, dopo la ritirata di mercoledì è tornato nei villaggi intorno alla città , mentre le FDS tengono le linee del fronte, a circa sei chilometri dalle porte della città . Le milizie turche hanno carri armati e blindati senza bandiera. Sono appoggiati dall’aviazione, possono contare sui droni.
Intorno alle 10, le forze del regime hanno cominciato il contrattacco sparando colpi di mortaio e cercando di frenare l’assalto. Le notizie che arrivano dal fronte sono contraddittorie e non chiare. Nel pomeriggio sembra che la situazione sia calma quando, all’ospedale di Tell Tamer arriva un furgoncino. Dentro due uomini sdraiati pieni di sangue, e il conducente in stato di shock, continua a urlare: “Dobbiamo tornare indietro, mia madre…”. Pochi minuti dopo un altro veicolo arriva nel cortile dell’ospedale. La donna muore di lì a poco.
Per tutta la giornata ci sono stati movimenti di truppe, anche gli americani sono passati da Tell Tamer per l’ennesima volta. Nessuno capisce esattamente come si posizioneranno.
Ma dei mille soldati che sono stati richiamati dal presidente americano Trump, ne sono tornati 900. E non sono solo nelle zone del petrolio. Proprio oggi sono arrivati nella loro vecchia base a Sorin, non lontano da Kobane, e quindi dalla parte opposta rispetto a Deirzzor, dove appunto si trovano i giacimenti più importanti della zona.
Gli attacchi della Turchia continuano. Ankara sembra non voler fermare l’offensiva. E la gente intorno a Tell Tamer si prepara al peggio.
(da TPI)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
L’APPELLO DEI SUPERSTITI DEGLI ATTENTATI DI PARIGI DEL 2015
«Come sopravvissuti del terrorismo ci è impossibile restare silenziosi e indifferenti all’attentato
permanente che vivono queste popolazioni, verso le quali abbiamo un debito inestimabile»
«Dobbiamo la nostra pace alla lotta dei curdi»: in un testo pubblicato sul quotidiano Le Parisien un gruppo di 44 sopravvissuti agli attentati del 13 novembre 2015 tra lo Stade de France, il Bataclan e i locali del centro di Parigi, lanciano un forte appello contro il rischio di evasione dei jihadisti nel nord della Siria e si mobilitano a favore dei curdi dopo l’intervento militare della Turchia.
Nel testo, come scrive l’Ansa, i superstiti chiedono «alle popolazioni del mondo» di mobilitarsi.
E domandano «ai capi di Stato» di agire.
«Come sopravvissuti del terrorismo ci è impossibile restare silenziosi e indifferenti all’attentato permanente che vivono queste popolazioni, verso le quali abbiamo un debito inestimabile. Siamo indignati dalla passività della Francia e della comunità internazionale che, dopo gli attentati di Parigi, non esitò tuttavia a intervenire al fianco dei curdi contro i nostri assassini».
«Una passività — si legge ancora — che consente oggi l’evasione di centinaia di terroristi e, tra loro, è ciò che temiamo dei jihadisti più pericolosi».
Il 13 novembre 2015 un gruppo di terroristi affiliati allo Stato Islamico è entrato nel Bataclan, nota sala di concerti parigina, sferrando un attacco armato che ha portato alla morte di 90 persone.
(da agenzie)
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
BASTA MAGGIORDOMI DEL SOVRANISMO E POLTRONISTI, LA DESTRA PUO’ ANCORA ESPRIMERE PERSONALITA’ IN GRADO DI ANDARE OLTRE
Berlusconi ed un’ampia frangia di FI “a viso aperto” contro la Carfagna: “Adesso basta, Mara non può continuare a fare il controcanto. Sta diventando come Fini…”
Forse, anzi, proprio per questo ci piace, Mara, perchè in una fase in cui tutti vogliono fare i maggiordomi del sovranismo e del populismo, Lei ha il coraggio di andare oltre e di battersi per le cose nelle quelli crede e nelle quali si rispecchia parte dell’elettorato che non va più a votare.
In certi casi, in certi particolari momenti, anzi, diciamola meglio e diciamola tutta, in qualsivoglia occasione, del potere e delle poltrone uno se ne deve – e se ne dovrebbe sempre – infischiare: i valori, gli ideali, le cose nelle quali si crede sono più importanti di una targhetta attaccata sulla porta di un ufficio.
È vero che la politica è essenzialmente pragmatismo, ma un pragmatismo fine a se stesso, privo di idee e di una visione incendiaria, è soltanto sterile rincorsa al nulla, ed il “nulla”, la storia, lo travolgerà sempre.
Meglio non averla, una poltrona, che rischiare di fare i “servi” di uno che vorrebbe i “pieni poteri” e che dell’Italia si interessa soltanto per fare da contraltare alle sinistre.
Esisteva una destra, una volta. Una destra capace di volare alto; di accettare la sfida delle riforme Costituzionali e degli Stati Uniti d’Europa.
Una destra solidale e liberale. Una destra capace di includere e di sognare in grande.
Quella di oggi, tutto è, tranne quello in cui abbiamo creduto ed in cui continuiamo ancora a credere.
Ci muoviamo in un deserto, quasi del tutto asfissiante. Ciò non di meno, molto meglio l’arsura del “deserto”, degli amici che ci voltano le spalle perchè “ti vedono come il loro nemico”, pronti a schernirti in ogni dove, ivi compresi i social, che la supina accettazione di una “visione da quattro soldi”.
Oramai, Forza Italia (e non soltanto quel partito, comunque) ha perso ogni attrattiva, anche quella del “partito meno peggio” da votare.
A noi altri, in carenza di alternative, almeno fino ad oggi, non resta altro che il non andare più a votare ed auspicare che “eroine” come Mara non si arrendano, mai!
Salvatore Totò Castello
Right Blu – La Destra liberale
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Novembre 1st, 2019 Riccardo Fucile
A QUANDO LA MACCHINA DEL FANGO CONTRO UNA CHE NON HA TRADITO I VALORI LIBERALI DI FORZA ITALIA?… UN CONSIGLIO A MARA: NON SI FACCIA COINVOLGERE DA TOTI E RENZI, SE HA 50 PARLAMENTARI, COME SI VOCIFERA, FACCIA UN GRUPPO AUTONOMO E UN SUO PARTITO: CON LA CRISI DEL M5S AL SUD PRENDEREBBE MOLTI VOTI
“Adesso basta, Mara non può continuare a fare il controcanto. Sta diventando come Fini…”. 
Mai si poteva immaginare che un giorno Silvio Berlusconi avrebbe pronunciato queste parole nei confronti della sua prediletta Mara Carfagna, cresciuta a pane e Forza Italia, voluta fortemente dallo stesso Cavaliere in Parlamento e valorizzata in questi anni, non solo come ministro del suo ultimo governo, ma poi come vicepresidente della Camera, e ancora come coordinatrice degli azzurri.
In un amen però tutto cambia. E ora viene addirittura accostata a colui che ha più ferito in questi lunghi 25 anni di discesa in campo il leader azzurro. Vale a dire Gianfranco Fini.
Ma partiamo dall’inizio.
Succede due giorni fa, in Senato, che Forza Italia si astiene sulla mozione Segre che ha come scopo quello di istituire una Commissione straordinaria per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza e dell’istigazione all’odio e alla violenza.
Succede appunto che un minuto dopo il via libera di Palazzo Madama, la vicepresidente della Camera prende carta e penna e si dissocia dall’atteggiamento degli azzurri in Aula: “La mia Forza Italia avrebbe votato a favore. Stiamo tradendo i nostri valori”.
Ad Arcore, appena legge la dichiarazione, il Cavaliere sbotta e inizia a telefonare. Non ne può più del “controcanto” di “Mara”, delle sue uscite a ogni piè sospinto contro Forza Italia.
“Ora ha stufato”, si sgola con i fedelissimi. “Sta facendo come Toti e Fini”.
E ancora: “Cerca la legittimazione dai nostri detrattori solo per farci male. Ormai si è montata la testa”. A Villa San Martino qualcuno accosta la vicenda ai giorni del “che fai, mi cacci?”, alla direzione nazionale del Popolo della Libertà che sfociò nello scontro fra l’ex premier e Fini, proprio a causa del controcanto quotidiano.
Non a caso di lì a poco l’ex presidente della Camera se ne andò dalla casa berlusconiana e fondò un partito, Futuro e Libertà
Lo scontro sulla mozione Segre, dentro Forza Italia, non ha certo il pà thos della battaglia che si è consumata, oggi a Montecitorio, nel corso del voto finale su Dl Impresa, con il Pd che ha accusato Fratelli d’Italia di aver attaccato il dem Emanuele Fiano definendolo “sionista”.
Nell’emiciclo si registra una vera e propria bagarre con tanto di insulti. Altra cosa è quello che si verifica dentro le file azzurra che cela il dibattito sulla linea politica, sul ruolo degli azzurri dentro la coalizione a trazione di Salvini.
Si legge in questa chiave la presa di posizione del senatore Andrea Cangini, che proprio su queste colonne ha vergato un blog che sposa la posizione della vicepresidente della Camera: “Forza Italia è caduta in una trappola”.
Nel pomeriggio, però, Berlusconi sconfessa ufficialmente la Carfagna e scrive una nota inequivocabile, anche piuttosto dura, che non lascia alternativa a chi oggi nel partito rumoreggia, e a chi vuole mettere in discussione l’alleanza con Matteo Salvini e Giorgia Meloni: “Mi aspetto che nel Movimento che ho fondato nessuno si permetta di avanzare dei dubbi sul nostro impegno a fianco di Israele e del popolo ebraico, contro l’antisemitismo e ogni forma di razzismo”.
Eppoi la inequivocabile rasoiata finale: “Le discussioni, sempre legittime, si fanno all’interno e non a colpi di agenzia: se qualcuno vuole invece seguire strade già percorse da altri, ne ha naturalmente la libertà , ma senza danneggiare ulteriormente Forza Italia”. Insomma, Berlusconi che non hai mai adorato il dissenso, mette davanti al fatto compiuto la sua (ex) preferita, la stessa che aveva messo in discussione per la presenza di Casa Pound la manifestazione di Piazza San Giovanni di due settimane fa.
O dentro, o fuori. Non ci sono altre vie. O si rispetta il verbo del grande Capo, o è preferibile lasciare la casa madre. Ed è come se Berlusconi volesse anticipare il “che fai, mi cacci?”. D’altro canto, il partito è e resta padronale. Così è nato, e così morirà .
Ora bisogna capire la prossima mossa della vicepresidente della Camera che si trova davanti a un sentiero stretto.
Se la porta renziana appare chiusa, secondo qualcuno “anche per il veto di Maria Elena Boschi”, l’altra via da percorrere potrebbe essere quella di un partito con Giovanni Toti. Una sorta di colonna “liberal” del salvinismo, come ha scritto oggi Ugo Magri sulla Stampa.
Toti e Carfagna hanno avuto un colloquio a Montecitorio. Il governatore della Liguria ha ribadito la sua posizione: “Dobbiamo essere qualcosa di diverso da Salvini ma che comprende Salvini”. Per l’ex delfino di Berlusconi non esiste una schema diverso dal centrodestra ortodosso.
Anche perchè Toti sarà ricadidato alle regionali in Liguria, con il sostegno di Salvini e Meloni.
E allora cosa farà la vicepresidente della Camera? “E’ delusa”, ha sussurrato Toti dopo il colloquio. E qualcuno che ha sentito il governatore mormora che “Mara ormai si sente un ospite dentro Forza Italia, e ha le ore contate dentro al partito”.
Non è dato sapere cosa farà . Certo è che dalle parti del Capitano storcono il naso al solo sentire nominare la parola “Carfagna”. “Non esiste”, sospira un pezzo da novanta di via Bellerio.
È cosa nota che fra Matteo e Mara non corra buon sangue, anche perchè i leghisti non dimenticano gli attacchi quotidiani della Carfagna a Salvini quando quest’ultimo sedeva al Viminale.
In realtà Mara ha un altro progetto che non prevede alleanze con Toti perchè non avrebbe senso andarsene da Forza Italia, diventata ruota di scorta della Lega solo per tutelare gli interessi aziendali e processuali del Padrone, e finire con un uno che indossa la divisa da maggiordomo di Salvini e dei sovranisti.
Altrettanto aderire a Italia Viva vorrebbe dire perdere contatto con il suo elettorato di riferimento, almeno in tempi brevi.
Altra cosa diventare punta di riferimento di un centro liberale a più voci, una sorta di federazione di più anime. Per questo ci vuole tempo e elezioni politiche alle porte non ce ne sono,
Se la Carfagna si portasse dietro 50 deputati la cosa migliore sarebbe fare gruppi autonomi in Parlamento e fondare un partito proprio. E a quel punto sarebbe Forza Italia ad avere seri problemi a superare la soglia del 3% alle future politiche.
Perchè Mara al Sud, con la prevedibile flessione del M5s, potrebbe prendere parecchi voti, è una che sa il fatto suo, sottovalutarla è un errore.
(da agenzie)
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