Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
LE DICHIARAZIONI DAVANTI AI GIUDICI: “O ACCETTAVI O TI DOVEVI TROVARE UN ALTRO POSTO DI LAVORO”
Decine di dipendenti della Lega retribuiti per almeno quindici anni con soldi pubblici, invece
che con quelli del partito.
Stipendi sborsati dai gruppi regionali per pagare persone che in Regione non mettevano piede.
Un meccanismo che ha fatto risparmiare parecchi milioni di euro alla Lega e di cui avrebbero beneficiato diversi volti noti dell’attuale parlamento italiano. Come Raffaele Volpi, il deputato leghista di recente nominato presidente del Copasir, l’organo parlamentare preposto a controllare l’operato dei servizi segreti italiani.
L’escamotage sarebbe stato introdotto nel 2003, quando in Lombardia c’era l’attuale vice segretario federale Giancarlo Giorgetti e usato in forma diversa, anni dopo, anche dal leader leghista Matteo Salvini.
I gruppi regionali, detti anche gruppi consiliari, esistono in tutte le regioni. La legge prevede che siano finanziati con soldi pubblici, provenienti per lo più dalle imposte pagate dai cittadini.
Di quanto parliamo? La Lega nel quinquennio 2013-2017 ha incassato contributi pubblici per circa mezzo milione di euro.
E questo solo considerando la regione Lombardia; per conoscere il totale andrebbero aggiunti quelli ottenuti dalle altre Regioni dove il Carroccio ha un gruppo. Tutto dipende dal numero di consiglieri regionali eletti: più un partito ne ha, più ha diritto di incassare. La legge pone però dei limiti. Dice che questi soldi possono essere spesi esclusivamente per l’attività del gruppo regionale, non per quella del partito: «I gruppi consiliari non possono utilizzare, neppure parzialmente, i contributi erogati dal Consiglio regionale per finanziare direttamente o indirettamente le spese di funzionamento degli organi centrali e periferici dei partiti».
Ma è proprio questo che avrebbe fatto la Lega a partire dal 2003 e fino almeno alla fine del 2017: usare soldi pubblici per pagare i propri dipendenti.
Il trucco sarebbe stato inaugurato nel 2003, poco dopo l’elezione di Giorgetti a segretario regionale della Lega in Lombardia. «Un giorno», racconta la fonte, «Giorgetti mi disse: “Cerchiamo di scaricare un po’ di costi nostri sul gruppo regionale: facciamo figurare che il gruppo assume del personale che in realtà lavora qui da noi in Lega”». Così il partito più forte d’Italia avrebbe iniziato a far pagare i suoi dipendenti da tutti i cittadini italiani, leghisti e non leghisti. Ai dipendenti andava bene, perchè l’alternativa era quella di fare i collaboratori a progetto della Lega: così invece risultavano dipendenti della Regione, con cinque anni di contratto assicurato.
«Ricordo che Giorgetti chiedeva al presidente del gruppo regionale della Lega in Lombardia, che all’epoca era Stefano Galli, quanti soldi aveva a disposizione per pagare il personale che lavorava in via Bellerio. In funzione di questo c’erano molti dipendenti che venivano pagati dal gruppo regionale, ma che in realtà lavoravano in sede. Gente che stava da mattina a sera in via Bellerio per svolgere compiti che nulla avevano a che fare con l’attività del gruppo regionale. Erano persone che seguivano le attività dei vari sindaci sparsi sul territorio, gli enti locali, organizzavano le feste di Pontida o di Venezia, tutto questo genere di attività . Io ero lì, le vedevo tutti i giorni al lavoro”
Secondo la fonte interna al partito, infatti, «questo metodo veniva usato sicuramente anche in Piemonte: avevo dei contatti lì e so che c’era questa cosa. Non ho certezza che avvenisse anche in altre regioni, so per certo solo di Lombardia e Piemonte».
Giugno 2012
L’ex comunista padano inizia la sua scalata al vertice ottenendo il posto che fu di Giorgetti: segretario della Lega Lombarda, la sezione più importante del partito. Che succede con il trucco dei dipendenti pagati con soldi pubblici? «Poco dopo l’arrivo di Salvini», racconta la fonte, «una persona face causa di lavoro alla Lega Lombarda denunciando proprio quello: che lui aveva il contratto con la Regione Lombardia ma in realtà lavorava per il partito. Salvini decise perciò di mascherare un po’ la cosa. Mantenne i vari contratti con il gruppo regionale, ma iniziò a fare andare le persone due giorni alla settimana in Regione e gli altri tre in via Bellerio. In questo modo i vari dipendenti facevano presenza in Regione, presso il gruppo Lega, timbravano il cartellino e poi tornavano in via Bellerio».
Secondo la fonte gli stipendi erano in media di 1700-2000 euro netti al mese, e il sistema sarebbe andato avanti dal 2003 ad almeno la fine del 2017. In totale fanno circa 7 milioni di euro, considerando solo i 15-20 dipendenti leghisti pagati dai contribuenti lombardi. In qualche caso parliamo di persone oggi molto influenti. Non solo Giorgetti e Salvini, che il trucco l’avrebbero utilizzato per far risparmiare soldi al partito, ma anche Raffaele Volpi, che il meccanismo l’avrebbe in qualche modo subìto. «Una decina di anni fa era responsabile degli enti locali della Lega, ma era pagato dal gruppo regionale in Lombardia», assicura la fonte. Volpi è oggi uno dei massimi dirigenti della Lega. Siede alla Camera da tre legislature consecutive. È stato scelto da Salvini per portare il suo progetto di Lega al Sud. A inizio ottobre è stato eletto per uno degli incarichi più delicati del parlamento: presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, quello che dovrebbe monitorare l’attività dei nostri servizi segreti. È vero che mentre svolgeva il ruolo di responsabile degli enti locali della Lega veniva pagato dal gruppo regionale in Lombardia? Volpi non ha risposto alle nostre domande di chiarimento. Lo stesso vale per Galli, Giorgetti e Salvini.
C’è un nuovo testimone che conferma quanto abbiano raccontato, e alcuni verbali di interrogatorio che mettono nero su bianco le accuse nei confronti della Lega: per anni, il partito ha pagato con soldi pubblici delle Regioni decine di suoi dipendenti, e l’ha fatto di sicuro sia in Lombardia che Piemonte.
I documenti giudiziari ribadiscono il ruolo di Giancarlo Giorgetti al vertice del sistema, e tirano in ballo un gruppetto di deputati attuali della Lega.
Oggi possiamo svelare nuove accuse che riguardano questo meccanismo usato segretamente per anni dal più popolare partito italiano.
A parlare è Loredana Zola, per anni segretaria amministrativa della sezione piemontese della Lega Nord: «Gestivo la contabilità della segreteria del Piemonte e delle oltre 140 sedi periferiche che c’erano in Regione, all’occorrenza poi venivo chiamata a Milano per dare una mano in segreteria federale».
Zola ha lavorato nel partito dal 1993 fino al licenziamento collettivo, avvenuto nel 2017, quando Salvini ha definitivamente lasciato a casa quasi tutti gli storici dipendenti padani, una settantina in tutto.
L’ex impiegata della Lega spiega «dal 2008 a dicembre 2017 in Piemonte una decina di persone è stata pagata con soldi dei consigli regionali, nonostante lavorassero per il movimento». Lo stesso meccanismo usato in Lombardia fin dal 2003, come abbiamo raccontato.
Sotto la Mole, i responsabili del trucco leghista pagato dai tutti i contribuenti italiani sono stati i massimi responsabili del partito di allora, dice Zola: «Roberto Cota era il segretario politico del Piemonte, poi c’era Elena Maccanti (oggi deputata), Stefano Allasia (attualmente deputato e presidente del consiglio regionale del Piemonte) e Mario Carossa (ha lasciato la politica, allora era il capogruppo regionale)». Maccanti e Allasia non hanno risposto alle nostre richieste di chiarimento. L’ex presidente del Piemonte Cota si è limitato a scriverci: «Non faccio più politica da diversi anni. Anche in precedenza non mi occupavo di personale e di gestione del gruppo regionale». Davanti alla richiesta di commentare le accuse di Loredana Zola, Cota non ci ha risposto.
Molte cose raccontate a Fanpage.it sono state dette dall’ex responsabile amministrativa della Lega in Piemonte anche durante un piccolo processo che si sta svolgendo a Torino, e che il mese prossimo dovrebbe arrivare a sentenza.
Nel 2013 la procura piemontese ha messo sotto inchiesta per truffa lo stesso Carossa e Barbara Lacchia, ex segretaria della Lega. Motivo? Esattamente lo stesso: Lacchia sarebbe stata pagata per anni con soldi del gruppo Lega in Piemonte nonostante lavorasse come segretaria personale di Matteo Brigandì, già parlamentare e avvocato della Lega oltrechè di Umberto Bossi. L’accusa è di truffa.
Carossa, che della truffa sarebbe stato uno degli esecutori, ha deciso di non difendersi ottenendo la messa alla prova e poi l’estinzione del reato. Barbara Lacchia ha scelto invece di farsi processare. Rischia una condanna a 8 mesi per aver indebitamente intascato soldi pubblici, tra il 2011 e il 2012.
Per difendersi dall’accusa, l’ex segretaria ha chiamato a testimoniare due sue ex colleghe: Loredana Zola, appunto, ed Enrica Brambilla, responsabile dell’amministrazione della Lega in Lombardia, una delle prime dipendenti assunte in via Bellerio. È proprio dalle loro testimonianze che trova conferma quanto ci ha raccontato la nostra fonte.
Le due storiche segretarie della Lega hanno infatti spiegato che quanto fatto con Lacchia è avvenuto con molte altre persone. «Era una prassi consolidata addirittura gestita dai vertici», ha messo a verbale Brambilla citando tra i beneficiari di soldi pubblici «Franco Zucca, Marco Citterio, Giampaolo Pradella, Luciano Grammatica, Rita Malegori, Raffaele Volpi, Andrea Robbiani, Lucio Brignoli, Simona Guerrieri: ebbero tutti contratti con enti regionali facendo lavori non per la regione o addirittura ricoprendo ruoli interni alla Lega. Tutto era dato per legittimo e gestito da Giorgetti, il capogruppo e i vari assessori».
Qualcuno in Lega si è mai chiesto se questa prassi fosse legale? «No, il discorso era un po’ diverso», è la risposta a questa domanda data da Brambilla davanti ai giudici di Torino: «O si accettava quello o non c’era niente, quindi o così o così, uno doveva trovarsi un altro posto di lavoro se non accettava».
Ai 15-20 dipendenti lombardi pagati con soldi pubblici se ne aggiunge un’altra decina piemontese. Loredana Zola ha dichiarato infatti che di questo meccanismo hanno beneficiato altre 10 persone della Lega. L’ex segretaria del partito ha messo a verbale una lista di persone che, a detta sua, lavoravano per il partito ma per anni sono stati pagati con fondi della Regione.
C’è Riccardo Molinari, oggi capogruppo della Lega alla Camera oltrechè vice segretario federale; Alessandro Benvenuto, deputato e presidente della commissione Ambiente; Andrea Giaccone, deputato e presidente della Commissione Lavoro; Michele Mosca, consigliere regionale e vicesegretario di Lega Salvini Piemonte; Alessandro Ciro Sciretti, consigliere comunale di Torino fattosi conoscere a livello nazionale per aver invitato la polizia a usare il metodo «scuola Diaz» contro gli organizzatori di una manifestazione avvenuta nel capoluogo piemontese lo scorso febbraio.
I dati sui contratti di collaborazione resi pubblici dalla Regione Lombardia e dalla Regione Piemonte sono pochi e scarni: arrivano al massimo al 2013, in più non permettono di conoscere i dettagli dei contratti, come ad esempio le condizioni di lavoro con cui il collaboratore era assunto.
Di certo le testimonianze di Brambilla e Zola dicono che c’erano almeno 25 persone pagate con soldi pubblici per svolgere un lavoro privato. Se ognuno di loro costava alla Regione circa 2mila euro al mese, come dicono le due ex impiegate, il totale usato a favore della Lega dal 2003 al 2017 arriva a 9 milioni di euro.
E questo se il trucco finanziario si è interrotto nel 2017 e ha coinvolto esclusivamente Lombardia e Piemonte. Altrimenti il conto potrebbe salire. Una possibilità che la testimone Zola non esclude: «Visto ci veniva descritta come prassi», dice, «presumo venisse usato anche in altre regioni con presenza leghista».
(da FanPage)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
“IL RISPETTO PER I VALORI CHE LA SEGRE RAPPRESENTA E I VALORI STESSI DELLA MIA FAMIGLIA MI IMPONGONO UN PASSO INDIETRO, MIO PADRE HA TRASCORSO DIVERSI ANNI IN UN CAMPO DI CONCENTRAMENTO”
Pochi giorni dopo aver negato la cittadinanza onoraria alla senatrice a vita Liliana Segre, l’amministrazione leghista di Biella ha deciso di dare lo stesso riconoscimento al comico e attore Ezio Greggio.
Le motivazioni che hanno indotto il sindaco Claudio Corradino a offrire a Greggio il riconoscimento sono legate alla carriera, all’impegno rivolto al sociale e al forte legame mantenuto con la città natale, Cossato.
Il primo cittadino darà il riconoscimento a Greggio il prossimo 23 novembre, dopo l’approvazione ricevuta dalla giunta di centrodestra, la stessa che si era opposta all’idea dell’identico premio per la senatrice, su proposta di alcune liste civiche.
“Si conferisce a Ezio Greggio – è il legge nella nota comunale – il titolo di Cittadino Onorario per la popolarità televisiva come conduttore, giornalista, attore e regista; per il suo costante impegno attraverso l’associazione ‘Ezio Greggio per i bambini prematuri’; per aver contribuito a diffondere in Italia e nel mondo il nome di Biella”.
Ma arriva i colpo di scena, il comico rifiuta: “Il mio rispetto nei confronti della senatrice Liliana Segre, per tutto ciò che rappresenta, per la storia, i ricordi e il valore della memoria, mi spingono a fare un passo indietro e non poter accettare questa onorificenza che il Comune di Biella aveva pensato per me”.
“Non è una scelta contro nessuno – spiega Greggio -, ma una scelta a favore di qualcuno, anche per coerenza e rispetto a quelli che sono i miei valori, la storia della mia famiglia e a mio padre che ha trascorso diversi anni nei campi di concentramento”.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
“DICE CHE VERRA’ IN PIAZZA CON NOI? GLI REGALEREMO UN PESCE PALLA”… A FIRENZE ATTESE 40.000 PERSONE IL 30 NOVEMBRE, A MILANO SI MANIFESTA IL 1 DICEMBRE, A NAPOLI IL 30 NOVEMBRE, A TORINO 20.000 ADESIONI
Dopo Bologna e Modena le “sardine” prendono il largo. Un movimento che si moltiplica e si
gonfia riempiendo le piazze per opporsi a Matteo Salvini e alla sua retorica, alla politica dell’odio e al populismo della Lega.
Non solo in Emilia Romagna, dove si vota il 26 gennaio per le regionali, ma in tutta Italia. Da Torino a Bari. E Milano, che sarà in piazza l’1 dicembre.
I promotori, i quattro trentenni che hanno lanciato il flash mob a Bologna – dal basso, pacifico, ironico, creativo – invitano chi vuole organizzarsi a fare riferimento alla pagina Facebook “Seimila sardine”.
E qui il primo lancio è su Rimini, quando domenica arriverà Matteo Salvini (già presente oggi al congresso del Sap) con la candidata alle Regionali Lucia Borgonzoni per inaugurare la nuova sede della Lega.
A Salvini che azzarda “in piazza con loro ci vado anche io”, loro replicano: “Ben venga, gli consegneremo un pesce palla”.
L’appuntamento riminese è alla Pescheria Vecchia alle ore 17. “Salvini viene qui – scrivono le “sardine” di Rimini – facendo passare il messaggio che la Romagna è ormai presa e che la sua retorica dell’insulto e delle false promesse si traduce in consenso e approvazione dovunque. Ma le sardine hanno testa e poca pancia. Non ragionano come gli uomini. Non hanno bisogno di un comandante. Non hanno bisogno di urlare e insultare.”
Il tam tam corre veloce. Le “sardine” sono pronte a sbarcare a Milano: la data è già fissata, il primo dicembre alle 17 in piazza Duomo. Lo spirito? “Le sardine di Milano non odiano nessuno – si legge nella pagina Facebook – si oppongono e contrastano la cultura dell’odio e la paura dell’altro e con questo spirito affronteranno le prossime piazze e le prossime iniziative”.
A Firenze sono attese 40mila persone con il simbolo ittiico sabato 30 novembre, quando il leader della Lega sarà al Tuscany Hall per una cena con mille militanti del Carroccio per dare il via ufficiale alla campagna in vista delle elezioni regionali della primavera del 2020 in Toscana.
E come già accaduto a Bologna e a Modena, anche nel capoluogo toscano scenderanno in piazza le ‘sardine’ con lo slogan “La Toscana non si Lega”. Dalle 18.30 è l’orario indicato della manifestazione. Ancora il luogo esatto della manifestazione non è stato scelto, anche si ipotizza piazza della Repubblica, nel centro storico.
“Senza bandiere e fumogeni, insieme da semplici cittadini per una Toscana che non si lega!”, ha scritto Dika che compare tra i promotori insieme a Matilde Sparacino, Danilo Maglio, Cristiano Atticciati. L’evento organizzato su Facebook interessa ad ora 25.208 persone e 7.389 persone dichiarano che parteciperanno. “Perchè Salvini può dire che prenderà la Toscana e tutti noi stiamo zitti? Incontriamoci in piazza e arriviamo da tutta la Toscana. Per incontrarci, stare insieme come comunità oltre bandiere e partiti. Senza violenza e odio, senza fumogeni o sassi”.
Torino ha lanciato l’appello e in due giorni le adesioni sono salite a ventimila
Per dire no alla politica dell’odio è nata anche la pagina delle “sardine” a Benevento: ‘AAA Sardine Sannite Cercasi’ è il gruppo pubblico aperto dopo il flash mob a Bologna. L’idea è partita da Annachiara Palmieri ed Elide Apice e sinora ha raccolto l’adesione di circa 320 persone.
Si ispirano alle “sardine” che hanno invaso Bologna anche i ragazzi che a Sorrento hanno organizzato un flash mob in occasione dell’arrivo in città di Matteo Salvini per ufficializzare l’adesione dei sindaci di Sorrento e Positano alla Lega. “Sarà una manifestazione pacifica e apartitica, senza bandiere”. Durante il flash mob si inviteranno i partecipanti a “scambiarsi un libro per donarlo a Salvini, che ne ha molto bisogno”. L’appuntamento è per giovedì alle 10:30 nella piazza Sant’Antonino di Sorrento, poco distante dal Circolo dei Forestieri dove alle 11 è atteso l’ex ministro dell’Interno.
“Arcipelago delle Sardine” è il nome del gruppo partito in Puglia. Per ora non ci sono flash-mob in previsione, ma il sostegno del movimento delle ‘sardine’ emiliano-romagnole. E anche Napoli “non si lega”: flash mob in piazza del Gesù sabato 30 novembre.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
IL SIMBOLO DELLA RINASCITA: “TUTTI PER UNO, UN SOGNO PER TUTTI”… QUESTA E’ L’ITALIA CHE AMIAMO, QUELLA CHE NON SI ARRENDE MAI
“Tutti per uno, un sogno per tutti. Ce lo siamo tatuato sul braccio perchè è il simbolo della nostra rinascita e del lavoro che adesso nessuno ci potrà più togliere”. Chiara racconta al Corriere della Sera la sua storia e quella di altri 10 colleghi con cui ha deciso di comprare l’azienda per cui lavorava.
Un anno fa quel lavoro stava per svanire. La proprietà di Ceramisia, fabbrica di Città di Castello, aveva convocato operai e impiegati e aveva annunciato loro la decisione di delocalizzare in Armenia (dove poi la proprietà ha realmente aperto una nuova azienda).
«Praticamente un licenziamento – ricorda Pierpaolo Dini, 52 anni, sposato con tre figli – tant’è che io avevo già pensato al mio incerto futuro, forse sarei tornato a fare il contadino. E invece…».
Marco Brozzi, 44 anni, un altro lavoratore innamorato del mestiere e della fabbrica aggiunge i particolari
“Ragazzi rinunciamo alla disoccupazione e al Tfr e quei soldi li investiamo per comprarcela questa azienda. “Comprarcela?”. I colleghi di lavoro si guardano negli occhi, qualcuno si mette a ridere, altri hanno una smorfia di dolore. “Ma sotto sotto ci crediamo tutti – ricorda Dini – anche perchè in quel momento era l’unica cosa da fare”.
Partono le trattative con la proprietà (la famiglia Polidori, in Umbria conosciuta anche per l’impegno politico di Catia, parlamentare di Forza Italia), i sindacati e la Coop appoggiano l’idea dei lavoratori che formano una cooperativa e nominano Brozzi presidente.
(da “Huffingtonpost”)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
I PARADOSSI DEL CORTOCIRCUITO GIUDIZIARIO IN UN PAESE SENZA CREDIBILITA’
Marco Bentivogli, segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici, oggi parla
delle due inchieste su ILVA aperte a Milano e a Taranto e dell’effetto paradossale di una doppia trappola per ArcelorMittal:
La Procura di Milano ha deciso venerdì 15 novembre di esercitare il diritto/dovere di intervento in giudizio ex art.70 c.p.c. nella causa civile di “rescissione” del contratto d’affitto da parte di ArcelorMittal, procedendo all’apertura di un fascicolo. È una notizia importante, che il Procuratore riconosca un interesse pubblico occupazionale, ambientale ed economico produttivo da tutelare nella causa promossa da ArcelorMittal. Ma è un paese normale quello in cui per ravvisare un interesse pubblico preminente serve una Procura? Lo stesso giorno i commissari dell’Ilva in amministrazione straordinaria presentano un ricorso d’urgenza ex articolo 700 c.p.c. al fine di ottenere un provvedimento cautelare avverso allo scioglimento del contratto di affitto che viene richiesto da ArcelorMittal.
Poi arriva il fascicolo d’indagine avviato dal procuratore di Taranto, Carlo Maria Capristo, a carico di ignoti, che ipotizza la violazione dell’art.499 del Codice penale (“Distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali ovvero di mezzi di produzione”).
La stessa Procura di Taranto che aveva chiesto il sequestro di Afo2 nel 2015 dopo la morte di Alessandro Morricella, 3 anni prima dell’arrivo di ArcelorMittal. E la stessa che aveva chiesto lo spegnimento di Afo2.
O meglio: a chiederlo è stato il custode giudiziario, l’ingegner Barbara Valenzano, che oltre a scrivere le prescrizioni per la procura è allo stesso tempo dirigente ambiente della Regione Puglia, nominato da Michele Emiliano. Il quale adesso dice che per legge Mittal non può spegnere impianti. Mentre fino a ieri sosteneva che è una fabbrica «totalmente illegale».
Per Bentivogli si tratta di un paradosso, reso possibile dall’assenza della politica:
Praticamente siamo al paradosso: se Mittal fa quello che gli ha imposto la procura di Taranto, la Procura di Milano procede all’iscrizione di un fascicolo. E siccome il Governo dice che è illegale lo indaga pure la procura di Taranto, che però glielo ha chiesto. ArcelorMittal, non esente da responsabilità ma responsabile di quel che accade in Ilva da un anno, deve comunque scegliere se tenere accesi gli altiforni rischiando il reato di disastro ambientale (secondo una Procura) o spegnerli rischiando il reato di sabotaggio (come sostiene l’altra Procura).
Il Codacons chiede l’imputazione di estorsione dei vertici Mittal e il loro arresto. È chiaro che sarà sempre più dura trovare qualcuno disponibile investire su un impianto sotto sequestro e in uno Stato senza certezza del diritto. Un cortocircuito giudiziario che rischia di devolvere agli uffici di procura le valutazioni di politica economica.
Non so se questo potrà salvare i posti di lavoro, in compenso farà terra bruciata della credibilità nazionale.
(da “NextQuotidiano“)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
LA SOLUZIONE PEGGIORE PER I CONTRIBUENTI, ALTRI 12 MESI DI SOLDI PUBBLICI PER MANTENERLA IN VITA CON LA RESPIRAZIONE ARTIFICIALE
A due giorni dal termine per la presentazione dell’offerta vincolante da parte del consorzio guidato da Fs, la situazione sulla composizione della cordata che dovrà rilanciare Alitalia è sostanzialmente in stallo.
In attesa di capire le mosse di Lufthansa, soprattutto un possibile ingresso nel capitale della società , finora sempre negato, continuano le trattative tra le parti. Proprio per la complessità delle trattative, appare sempre più probabile un ulteriore slittamento del termine. L’ennesimo.
Ma c’è di più. Perchè il governo, scrive oggi Lucio Cillis su Repubblica, sta pensando a un piano B: se nessun partner industriale dovesse concretizzare l’offerta potrebbe farsi strada l’ipotesi di una nazionalizzazione temporanea.
I tempi sono ormai strettissimi: il consiglio di amministrazione fiume di Lufthansa, dopo il primo passo di ieri sera, prosegue stamattina con l’analisi del piano industriale della Nuova Alitalia. Oggi toccherà anche ad Atlantia affrontare il tema. Mercoledì o giovedì mattina, infine, sarà il cda di Ferrovie dello Stato a pronunciarsi sul dossier.
Ma se tutto dovesse andare storto — nessuna offerta dalla Germania e niente semaforo verde per Delta dai partner italiani — allora al ministero dello Sviluppo si passerà ad un possibile piano B. Ovvero una nazionalizzazione a tempo prima di cedere il pacchetto ripulito ai tedeschi.
Attualmente, a due giorni dalla deadline, le strade percorribili sono queste: i soci italiani, Fs, Atlantia e ministero dell’Economia, potrebbero scegliere come partner industriale gli americani di Delta, che fino ad oggi hanno messo sul piatto 100 milioni di euro e un piano industriale non molto convincente. Un piano che non piace ad Atlantia e ai piloti per i “buchi” sul lungo raggio, la mancanza di rotte aggiuntive a favore di Alitalia e i 2800 esuberi.
Altrimenti c’è l’ipotesi Lufthansa che deve portare a termine un lungo e tortuoso percorso interno al consiglio di amministrazione, prima di scoprire le carte e alzare l’offerta da puramente commerciale (com’è oggi) a partnership industriale.
Il punto è che a Lufthansa si chiede un esborso tra i 120 e i 180 milioni ma nel CdA c’è chi non si fida della possibilità di acquistare Alitalia in questo momento e con la confusione politica che regna nel paese.
Questo mix potrebbe portare all’ennesimo rinvio dei tempi spiazzando tutti i protagonisti di una pièce drammatica durata per ben 30 mesi: un’eternità costata un miliardo di euro di prestito ponte, al netto della prossima elargizione da 400 milioni vincolata alla presentazione di un consorzio.
Il ministero dello Sviluppo, però, starebbe valutando un’idea alternativa: quella di una nazionalizzazione a tempo, di circa dodici mesi. Una fase necessaria per sistemare il personale in eccesso senza traumi, mettendo a punto rotte e flotta. Una società più agile di quella odierna, guidata da esperti del settore aeronautico, da cedere successivamente ai tedeschi.
I soldi di Delta potrebbero finire per non salvare Alitalia, il piano di Lufthansa potrebbe non arrivare mai.
In queste condizioni di partenza rimandare tutto potrebbe costituire, secondo alcuni nel governo, l’idea migliore. Che è però la peggiore per i contribuenti italiani.
(da “NextQuotidiano”)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
ASSI DI LEGNO ROVINATI DALL’UMIDITA’, GLI OPERAI AL LAVORO PER TOGLIERE IL MATERIALE MARCIO… E SONO COSTATE 6.700 EURO A METRO QUADRO
Funghi e muffe nelle casette dei terremotati del Centro Italia. Ad Amatrice e non solo tanti
residenti sono costretti a chiedere la sostituzione dei pavimenti delle SAE — Soluzioni abitative in emergenza, perchè sono già da buttare.
In questi giorni tanti terremotati stanno vivendo perciò un ulteriore disagio, dovendo svuotare la propria casetta per permettere agli operai di sostituire il pavimento ormai marcio. Marina, che vive a Collemagrone, una frazione di Amatrice insieme ai suoi due figli, ha documentato sui social i lavori all’interno della sua casetta mostrando le condizioni pietose del pavimento. Le immagini pubblicate su Facebook sono diventate virali
Marina sospetta che il suo pavimento non abbia mai goduto di ottima salute, ci racconta infatti che “appena entrati sentivamo un po’ questi sali scendi di questi pavimenti, camminavi e c’era un bozzo poi ce n’era un altro”. E quando ha provato a chiedere spiegazioni le è stato risposto che questi rigonfiamenti erano normali e poi il pavimento si sarebbe assestato.
La situazione invece non è mai migliorata, anzi nei mesi il pavimento appariva in condizioni sempre peggiori. Poi l’amara scoperta: tutto da rifare.
E pensare che le SAE sono costate fino 6700 euro a metro quadro. Ancora una volta Marina si è ritrovata sfollata, costretta ad appoggiarsi da un amico mentre gli operai effettuavano i lavori all’interno del modulo prefabbricato dove abito. “Noi qui siamo terremotati già 3 anni fa è successo quello che è successo siamo dovuti scappare dalle case, siamo stati come dei nomadi in giro tra tende roulotte camper. Dal momento che uno pensa di potersi rilassare un attimo perchè ti viene assegnata una sistemazione, pensi di poterti rilassare un momento ma non è così” conclude Marina scuotendo la testa.
Antonio Fontanella è il nuovo primo cittadino di Amatrice da maggio e si è subito scontrato con la lenta burocrazia delle Soluzioni Abitative di Emergenza. “Ci siamo resi conto che nonostante venissero fatte le segnalazioni, ci siamo accorti che non interveniva nessuno — spiega il Sindaco Fontanella — Non interveniva nessuno perchè c’era questo rimbalzo di responsabilità tra la ditta che aveva realizzato l’urbanizzazione e quella dell’istallazione”.
Dopo mesi di attesa l’amministrazione comunale ha scelto di fare la voce grossa intimando il consorzio di intervenire ed al momento c’è una calendarizzazione degli interventi. La speranza è che il nuovo materiale utilizzato per i pavimenti abbia vita più lunga del precedente e non sia di nuovo soggetto ad infiltrazioni e muffe.
(da FanPage)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
IL BLOG M5S: “E’ STATA ASSENTE AL 72% DELLE VOTAZIONI E CAMPA DI POLITICA DA 21 ANNI”
“Giorgia Meloni si è ricordata di Venezia ed ha parlato di una legge speciale per la città e per i veneziani. Peccato che, per approvare le leggi, bisogna votarle e, di conseguenza, essere presente in Parlamento, dove la Meloni si vede raramente. Infatti, dall’inizio della legislatura, è stata assente al 72% delle votazioni. Cioè, quando si votavano provvedimenti importanti per il futuro del Paese e a vantaggio dei cittadini, lei spesso non c’era. Sette volte su dieci non c’era. Non è quasi mai presente, ma lo stipendio da parlamentare, pagato dai contribuenti, lo prende pieno e si riempie la bocca e parla a vanvera di approvare leggi e provvedimenti. Insomma predica bene e razzola male”. E’ quanto scrive M5S sul Blog delle stelle.
“Anche in Campidoglio -continua- la Meloni non si vede mai, si è palesata solo 8 volte in un anno. In Comune, infatti, garantisce solo la presenza minima per non decadere, ed ha collezionato il 90% delle assenze. Non è certo un bell’esempio di rispetto per le istituzioni e per coloro che l’hanno votata per rappresentarli. Ma a quali cittadini risponde Giorgia Meloni se non lavora mai? Come giustifica i 14mila euro al mese del suo stipendio da parlamentare? Andando in giro a fare solo campagna elettorale, come il suo alleato Salvini, che faceva i video dal Papeete?”
“Dalla Meloni, inoltre, che sproloquia su Venezia -continua M5S- non è arrivata una parola sul Governo disastroso del suo centrodestra in regione Veneto, dello scandalo delle mazzette del Mose, che è costato agli italiani 7 miliardi di soldi pubblici, e che ha visto coinvolto, in uno scandalo legato alla corruzione, l’ex governatore Giancarlo Galan. Non è arrivata neanche una presa di distanza sulla vicenda che ha avuto risvolti giudiziari, e che ha visto politici e amministratori locali indagati e arrestati”.
“La realtà -affermano i Cinque stelle- è che serve una legge speciale per mandare a casa questa classe dirigente incapace e incompetente, che la Meloni rappresenta benissimo. Non ci sorprende che Giorgia Meloni cada dalle nuvole a danni fatti. Prima ha votato la legge Fornero e poi ha fatto finta di essere contraria a quella riforma oscena. Con i Governi di Centrodestra ha contribuito a fare il legittimo impedimento, il lodo Alfano, il taglio di 1,4 miliardi all’università , tagli all’istruzione per 8 miliardi, lo scudo fiscale anche per il falso in bilancio, lo svuotacarceri che ha messo fuori 7 mila detenuti”.
“Appoggiò il finanziamento milionario dei campi rom a Roma -incalza M5S- ed ora blatera il nulla contro i rom. Giorgia Meloni è firmataria della legge per reintrodurre il finanziamento pubblico ai partiti per continuare a incassare milioni dai cittadini. Campa di politica da 21 anni. Durante la sua ”carriera” politica ha sostenuto Berlusconi, Alemanno e Formigoni. Tutti condannati”.
“Ora la Meloni interviene a sproposito anche su Venezia e si dimentica di tutti gli altri territori colpiti dal maltempo. Chi sostiene il disastroso governo del centrodestra nelle regioni dovrebbe come minimo tacere. Ed invece la Meloni continua a dare fiato alle trombe. Almeno fosse presente in Parlamento, o in Campidoglio, così potremmo dirglielo in faccia”, conclude M5S.
(da agenzie)
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Novembre 19th, 2019 Riccardo Fucile
IL RIFERIMENTO E’ A SALVINI… “VEDO UN APPROCCIO MANICHEO ALLA VICENDA”
Il capo della Polizia, Franco Gabrielli, si è espresso chiaramente sulla vicenda Cucchi,
dichiarando che “quanti, negli anni, hanno dato giudizi avventati sulla vicenda Cucchi, dovrebbero oggi chiedere scusa ai familiari, ma vedo un approccio manicheo e giudizi espressi con l’emotività del momento”.
Il riferimento è chiaramente alle polemiche innescate, come sempre, da Salvini, che ha dichiarato che la sentenza di condanna ai carabinieri che hanno ucciso Stefano è la “prova che la droga fa male”, sottintendendo che Stefano sia morto per droga e non, come penalmente stabilito, per un pestaggio della polizia. Su questa base, Ilaria Cucchi ha deciso di querelare Matteo Salvini per diffamazione.
Salvini non è certo solo: il giorno successivo alla sentenza, il sindacato dei carabinieri Usic ha scritto che “la sentenza è stata influenzata dai media”: se stavano zitti era meglio
(da agenzie)
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