Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
C’E’ UN LAVORIO DEL CAV TESO A LOGORARE L’IPOTESI DRAGHI
Per dirla in modo un po’ calcistico, mentre gli altri stanno palleggiando, lui sta
giocando, e il gioco non è solo attacco, ma finte, dissimulazioni, passaggi di palla, evitando il fallo. Però c’è un dato, e non è poco, a un decennio – era il 12 novembre dell’anno del Signore 2011 – dalle sue dimissioni, vissute da un pezzo di paese come una “liberazione” e dall’altro come un complotto dei giudici e dello spread: l’unico nome “politico” seriamente in campo, in attesa che si sciolga un nodo chiamato Draghi, si chiama Silvio Berlusconi, 84 primavere alle spalle.
È paradossale, inimmaginabile, sogno o incubo, a seconda dei punti di vista, ma già questo, al netto del giudizio, è un fatto, anch’esso rivelatore della “crisi di sistema” in atto perché forse non è un caso che, pur non essendo quello di una volta come consenso, leadership, potenza di fuoco, resta l’ultimo a essere andato al governo attraverso le elezioni, espressione di un consenso popolare vero, prima del decennio del grande kamasutra politico, in cui tutti, in nome di governi da fare in Parlamento, hanno sperimentato tutte le posizioni fino al default che ha portato a Draghi. E questo spiega la persistenza del nome.
Di suo, il nostro ci mette una certa astuzia. Chi sta attorno racconta, come sempre nel favoloso mondo berlusconiano le versioni sono opposte, che “non pensa ad altro che al Quirinale”, altri che è consapevole che il solo pensarlo è un azzardo e, consapevole del rischio quando si arriva al dunque, sa che la missione è assai ardita e a rischio di clamorose figuracce, dunque “non farà mai il candidato di bandiera”. Il cronista sa che la verità è nel mezzo, anzi che entrambe le versioni sono la verità, nel senso di due facce della stessa medaglia. Anche domenica scorsa, ed è un copione che si ripete, Fedele Confalonieri ad Arcore lo ha messo in guardia perché “Silvio lo sai che non può accadere”, trovando l’interlocutore apparentemente d’accordo, ma sapendo, al tempo stesso, che l’uomo, pur annuendo, ha l’altra parte della testa che pensa il contrario: “Sono gli stessi – dice un ex ministro che lo conosce bene – che gli sconsigliavano la discesa in campo, e fece l’opposto. Quando lo dicono, il Cavaliere dà loro ragione, ma lavora per smentirli perché la missione impossibile è quella che lo gasa”.
E infatti gioca, anche con l’età, i guai fisici e gli acciacchi, che per quando fastidiosi un effetto lo hanno prodotto, quello di mutare, nel paese, la percezione di pericolosità perché, insomma, come Caimano che esce da un palazzo di giustizia in fiamme non ha più il fisico, piuttosto si può vendere come nonno che farebbe la felicità di ogni nipote, con l’Italia che diventa un parco giochi senza regole. Scherzi a parte (mica tanto) questa provvisorietà, che è un tutt’uno col rendersi disponibile per una presidenza a tempo, è comunque una mossa. Insomma, Mattarella ha detto di no a un bis a tempo, in attesa che si liberi Draghi, qualcuno ha fatto circolare il nome di Giuliano Amato. Il Cavaliere ha capito che, in questa fase, tutto sta ruotando attorno al desiderio di Draghi di andare al Quirinale, ma che è complicato per lui andarci subito per le note ragioni che attengono alla possibilità di fare un altro governo. E allora si propone come soluzione provvisoria, anche se ovviamente nessuno ci crede che, semmai dovesse essere, lascerebbe anzitempo quel Palazzo là.
In parecchi, a tal proposito, ricordano una gag che qualche anno fa avrebbe voluto fare, ma che gli fu sconsigliata, nel salotto di Vespa: presentarsi claudicante con un bastone, per fare la parte del vecchietto, poi a un certo punto gettarlo via e dire “sto benissimo”. Però questa insistenza di “tenere Draghi fino al 2023 a palazzo Chigi e anche oltre” è già parte integrante della sua campagna presidenziale, il cui argomento più forte è rassicurare il Parlamento sulla stabilità: è il “con me non si vota”, dunque stipendi per tutti fino al 2023: peones, gente senza un lavoro che mai più rivedrà le ovattate stanze, scappati di casa vari. In attesa di Draghi, che ha il problema mica da poco del governo, è comunque un punto fermo.
In altri tempi Denis Verdini avrebbe già iniziato conti e incontri, per persuadere, con convincenti argomentazioni, i Ciampolillo o i novelli Scilipoti che conviene arruolarsi in marina con Berlusconi, perché così si scopre il mondo. Certo, sarebbe stato perfetto poi, considerati suoi rapporti con Renzi e con Salvini con cui è pressoché imparentato. In sua assenza in parecchi, tra ex ministri e amici, si sono messi a disposizione con Berlusconi, proprio in questi giorni, per svolgere analoghe mansioni: “Ti porto venti voti”, “ne controllo una decina”. I numeri sono abbastanza noti: sulla carta ne servono una cinquantina di voti (segreti), ammesso poi che il centrodestra sia compatto, il che poi è tutto un altro capitolo. Più che i renziani, che sono 45, qualcuno dei quali potrebbe anche essere tentato dalle sirene sulla giustizia, i più sensibili alle lusinghe sono quelli del misto, o chi mai più rivedrà Montecitorio. In questi casi, come la storia insegna, Berlusconi può cambiare la vita, intesa come qualità e tenore.
Non tiriamola troppo per le lunghe. Tutto questo racconta di un lavorio del Cavaliere coperto sugli uomini, più scoperto sulla politica, anzi di una sua partita in atto e tesa a logorare l’ipotesi Draghi, in attesa che si arrivi al dunque. Lavorio quantomeno sottovalutato dall’altro schieramento che rischia, giocando di rimessa su Draghi di trovarsi a giocare in difesa su Berlusconi. Se, a un certo punto, si presentasse come il nome del centrodestra magari per il quarto scrutinio sarebbe una mossa, mica banale. Conclusione (provvisoria), annotata sul taccuino del cronista che segue il Great Game del Quirinale: i due nodi da sciogliere sono Berlusconi e Draghi, per ora il gioco è a due.
(da Huffingtonpost)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
“STAVOLTA SI E’ PASSATO IL LIMITE”: LO DICA AI SUOI CAPI CHE PER MESI LISCIATO IL PELO AI NO VAX
Il vicesindaco di Biella, il leghista Giacomo Moscarola, aveva difeso in una intervista i provvedimenti di restrizione per le manifestazioni dei “no Green pass”.
E sui social è scoppiata la bufera. Insulti, improperi e anche minacce: Moscarola è stato vittima di attacchi sulle pagine di una testata locale online e oggi si è recato presso la Questura di Biella per sporgere denuncia.
“Sono abituato al contraddittorio sui social, a volte anche acceso, ma questa volta si è superato il limite”, spiega Moscarola. “Oltre ad alcuni messaggi di insulti – non vanno bene ma ci sono abituato – c’era anche una vera e propria minaccia di morte nei miei confronti”.
“Io sono sempre pronto al dialogo e al confronto – aggiunge Moscarola, considerato l’uomo forte della giunta comunale biellese – con persone che però non devono superare i limiti della decenza e della legalità. Non sono solito piangermi addosso, in questi mesi ho ricevuto parecchi messaggi di insulti, non ho mai detto nulla, ma ora la misura è colma”.
Se si arriva addirittura a minacciare di morte, spiega il vicesindaco, “per aver detto che i commercianti devono poter lavorare in pace e non essere disturbati da proteste varie, siamo andati oltre la normale dialettica. Non mi faccio intimidire da queste situazioni e vado avanti a testa alta per la mia strada consapevole di fare quanto possibile per la città”.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
INSULTI OMOFOBI E COLTELLI… IL SUO APPELLO ALLA POLITICA: “CI ASCOLTI, RISCHIAMO LA VITA”
“Fr*** di mer**, ti tagliamo la gola” sono le parole di Mirko Galanti, un
ventunenne romano che ha raccontato a Fanpage.it di essere stato vittima di insulti omofobi all’uscita della gay street.
Autori della violenza verbale quattro ragazzi, presumibilmente minorenni, che intorno alle ore 5.30 dello scorso sabato 13 novembre lo hanno seguito lungo via del Colosseo.
“Erano sul marciapiede opposto al mio, due di loro hanno tirato fuori un coltello e hanno iniziato a gridarmi contro insulti e minacce di morte come ‘ti tagliamo la gola, fr*** di mer**, ti tagliamo un orecchio, ti spacchiamo’ – racconta Mirko, profondamente provato dalla violenza verbale subita – Se ripenso a quel momento posso dire che mi sono sentito in pericolo, perché erano quattro contro uno, erano più alti di me e armati. Temevo che mi si avvicinassero e che mi si scagliassero contro: ho veramente creduto di morire”.
Mirko ha raccontato i concitati attimi in cui si è trovato solo in balìa dei suoi aggressori: “L’unica cosa che ho potuto fare è stata abbassare la testa e camminare dalla parte di strada più illuminata. Ho raggiunto la metropolitana, pagato il biglietto e atteso il treno. Prima di dirigermi sulla banchina in direzione Rebibbia ho aspettato fino all’ultimo, perché avevo paura che mi seguissero”.
Quella di sabato non è la prima aggressione che Mirko ha subito da quando è stato respinto il Ddl Zan e ha raccontato che anche altre persone vicine a lui sono state vittime di omofobia: un suo amico ha schivato per poco una bottiglia che gli hanno lanciato contro insultandolo davanti ad una discoteca e una sua amica, a seguito di un’aggressione, ha riportato ferite d’arma da taglio.
La stessa mattina il gruppo che ha aggredito Mirko ha puntato una coppia di ragazzi che si baciavano vicino a un locale della gay street in zona San Giovanni, gridandogli: “Fr*** di merda, che c***o vi baciate, passano i bambini”.
Il messaggio che voglio lanciare con la mia denuncia è che la politica ci deve ascoltare – ha detto – per essere gay rischiamo costantemente la vita e viviamo nel terrore. Anche noi omosessuali abbiamo il diritto di essere protetti”. Mirko sporgerà denuncia ai carabinieri: “Rispetto alla violenza che ho subito mi è andata bene, ma non voglio pensare a come sarebbe potuta finire”.
(da Fanpage)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
“I MANIFESTANTI SMETTANO IMMEDIATAMENTE DI USARE IL NOSTRO TAONGA”
L’abuso da parte dei no vax nell’utilizzo dell’haka nelle proteste ha attirato l’attenzione della tribù che ne detiene i diritti: infatti la tribù Maori che possiede i diritti sull’haka “Ka Mate” ha chiesto al popolo no vax di smettere di eseguire il famoso rituale durante le loro manifestazioni
Il Ngati Toa è riconosciuto dalla legge neozelandese come il custode culturale del Ka Mate haka.
“Ngati Toa condanna l’uso della haka Ka Mate per spingere e promuovere messaggi di vaccinazione anti-Covid-19″, ha detto in una nota la tribù, con sede appena fuori Wellington.
“Insistiamo affinché i manifestanti smettano immediatamente di usare il nostro taonga (tesoro culturale)”, aggiunge la nota. L’haka Maori si presenta in molte forme, ma Ka Mate, che è stata eseguita dagli All Blacks prima dei match di rugby per più di un secolo, è di gran lunga la più conosciuta.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
“E’ SORPRENDENTE IL DIVARIO TRA I GRANDI PRINCIPI PROCLAMATI E IL NON TENERE CONTO DELLA FAME E DEL FREDDO CUI SONO ESPOSTI ESSERI UMANI”
Sergio Mattarella affronta di petto il dramma che si consuma ai confini
dell’Europa e censura “un singolare atteggiamento, pensando ai propositi dei fondatori dell’Unione europea che indicarono orizzonti vasti e importanti, pur consapevoli delle difficoltà per raggiungerli, e che affrontarono con coraggio e determinazione”.
Ha parlato di “un fenomeno, che si è visto in diverse parti dell’ambito europeo, di strano disallineamento, di incoerenza, di contraddittorietà tra i principi dell’Unione, le solenni affermazioni di solidarietà nei confronti di afghani che perdono la libertà, e il rifiuto ad accoglierli”.
Nel corso dell’inaugurazione dell’Anno accademico dell’Università di Siena, cui riconosce invece “scelte significative” di inclusione, il Presidente della Repubblica denuncia quanto sia “sconcertante quanto avviene in più luoghi ai confini dell’Unione, e sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e il non tenere conto della fame e del freddo cui sono esposti – ha sottolineato – esseri umani ai confini dell’Unione”.
Tutti punti, questi, “su cui verificare la tenuta e l’applicazione” di quei principi di etica della convivenza richiamati in apertura del suo intervento.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
AUMENTO DEL 192,3% , L’82% SONO INFERMIERI
Dovrebbe andare in Consiglio dei ministri questa settimana l’obbligo della terza dose per il vaccino anti Covid ai sanitari. La proposta è già stata avanzata dal ministro della Salute Roberto Speranza nel corso della cabina di regia tra Mario Draghi e i capidelegazione dei partiti di maggioranza che si è svolta la scorsa settimana.
In due mesi i contagi tra gli operati sanitari sono aumentati del 192,3%, passando dai 936 casi registrati il 14 settembre ai 2.736 del 14 novembre. Di questi, l′82% circa sono infermieri.
A fare il punto sui contagi tra gli operatori e gli infermieri, elaborando i dati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss) sono la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi) e il sindacato degli infermieri Nursing Up. “Dopo un calo registrato nella prima metà di settembre, legato alla minore circolazione del virus nel periodo estivo, i casi sono tornati a crescere in modo significativo”, dichiara all’ANSA la Fnopi.
(da agenzie)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
DALLE CARTE DELL’INCHIESTA EMERGONO I PROBLEMI DEI CONTRATTI CON I COLLABORATORI
L’inchiesta sulla Fondazione Open che coinvolge Matteo Renzi e altri esponenti
del Giglio magico, accusati di finanziamenti illecito ai partiti, si arricchisce di nuovi retroscena che emergono dalle carte in mano alla Procura.
Più di 330mila euro al mese. Tanto costava la “bestia”, la macchina per la propaganda social voluta da Matteo Renzi. Neppure i generosi finanziamenti raccolti tramite Fondazione Open da Bianchi & C. – si legge sul Fatto Quotidiano – bastano a pagare fornitori e personale.
Già a metà del 2017 alcune società minacciano di fare causa, i collaboratori di andarsene, ma sul conto della Fondazione son rimasti giusto 406 euro. Ed è allora che si inizia a trasferire contratti e spese sulle casse del Pd, già in rosso per 9 milioni e con tutti e 174 i dipendenti in cassa integrazione.
Il debito maggiore – prosegue il Fatto – è proprio quello causato dalla costosa macchina per la propaganda social, con un’esposizione di 483.685. Risultato: a breve dalle casse di Open devono uscire 1.173.649 euro, ma sul conto ne restano appena 406.
Gli inquirenti annotano diversi casi in cui contratti stipulati dalla fondazione per la struttura social vengono “trasferiti” integralmente al Pd negli anni 2017-2018. Tra le vittime c’è perfino Alessio De Giorgi, il cuore della Bestia. Sulla carta ha un contratto da 85mila euro ma a settembre 2017 deve ancora ricevere mensilità arretrate per 37mila, nonostante i continui solleciti.
Ad agosto Bianchi lo gela: “Caro Alessio, la situazione finanziaria di Open e le previsioni a venire non consentono pagamenti sino a settembre inoltrato”. Per lui però la soluzione si trova, ed è la solita: “Bonifazi – scrive De Giorgi in un sms a Bianchi – mi ha detto che da settembre ha senso che passi al Pd come contratto e compenso“.
(da AffariItaliani)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
L’AZIENDA GUADAGNA MA NON ABBASTANZA E ALLORA SPOSTA LA FABBRICA DOVE PRODURRE COSTA MENO
Tremila persone senza più un posto di lavoro perché l’azienda guadagna, sì, ma non abbastanza. E allora sposta la fabbrica dove produrre costa meno.
La corsa alle delocalizzazioni non rallenta, ultima in ordine di tempo la chiusura della Saga Coffee di Bologna, che porta l’attività tra Bergamo e la Romania lasciando dietro di sé una scia di 220 licenziamenti.
A tenere insieme tutti i casi che attraversano l’Italia è che la proprietà è di multinazionali o fondi d’investimento e che non si tratta di crisi aziendali: il mercato c’è, magari in evoluzione per effetto della doppia transizione ecologica e digitale, ma la logica degli investitori guarda altrove.
Sul tavolo del governo giace un decreto contro le delocalizzazioni, molto duro nella sua prima formulazione del ministro del Lavoro Andrea Orlando e della viceministra allo Sviluppo Economico Alessandra Todde, che volevano sanzioni fino al 5% del fatturato per chi se ne va senza essere in crisi.
Dopo il doppio no incassato dal premier Mario Draghi e dal ministro Giancarlo Giorgetti, ora Pd e 5S tenteranno di far rientrare il provvedimento nelle pieghe della Finanziaria.
Lo spazio politico è ridotto, ma ci proveranno in Aula con la versione soft del decreto: niente più sanzioni (considerate un disincentivo a investire in Italia), ma un obbligo per le imprese di comunicare con almeno tre mesi di anticipo la decisione di andarsene e di impegnarsi per la riconversione delle fabbriche abbandonate e per il ricollocamento di chi resta a casa.
L’obiettivo è evitare nuovi licenziamenti via mail, come alla Gkn di Firenze, dove è servito un giudice per dire che così non si fa e bloccare tutto.
Ma solo per qualche tempo, perché il fondo americano Melrose non ha cambiato idea: si siederà al tavolo, ma per ribadire che se ne andrà. L’accelerazione «Non eravamo in crisi, ma da un giorno all’altro ci hanno detto che portano tutto in Romania» racconta Antonio Ghirardi, sindacalista alla Tinken, 105 dipendenti per produrre cuscinetti per l’industria nel Bresciano.
C’è un impegno della multinazionale americana per favorire una riconversione della fabbrica che salvi tutti gli operai se arriverà un nuovo investitore, ma la sostanza non cambia: l’unica concessione concreta è un anno di cassa integrazione.
«La pandemia è stata il grande acceleratore di un fenomeno che purtroppo già si intravedeva prima – spiega Silvia Spera, che siede ai tavoli del ministero dello Sviluppo economico per la segreteria della Cgil -. I casi aumentano perché ci sono trasformazioni epocali che interessano interi settori, come l’automotive alle prese con l’elettrificazione».
Pesante il conto anche per elettrodomestici e bianco, altre vittime della grande crisi pandemica: via la Riello da Pescara, la Elica da Ancona, la Saga Coffee da Bologna. «Nella maggior parte dei casi non sono neanche delocalizzazioni in senso stretto – aggiunge Michele De Palma, segretario della Fiom Cgil -. Non vengono aperti nuovi impianti all’estero: fondi e multinazionali sostanzialmente non fanno altro che riorganizzare l’attività, spostando le linee produttive in fabbriche già esistenti per fare più profitti o spacchettare e rivendere. Il tema della responsabilità sociale delle imprese semplicemente non è preso in considerazione. E’ il Far West».
Gli investimenti che servono
Se il decreto anti-delocalizzazioni non decolla, una pezza ha provato a metterla lo Sviluppo economico con il fondo salva-imprese, voluto dalla stessa Todde, che ha individuato un salvagente che sa d’antico: l’ingresso dello Stato nel capitale di aziende destinate a sparire o, in alcuni casi come il fashion di Corneliani, a emigrare all’estero. Il braccio operativo è Invitalia, impegnata in sette progetti che, dice il Mise, valgono 2 mila posti di lavoro.
«Ma la vera tutela dei lavoratori, davanti alle grandi trasformazioni produttive in atto, si fa investendo su formazione e capitale umano – osserva Francesco Seghezzi, presidente di Fondazione Adapt -. Ben vengano norme più severe per non farci prendere in giro dai grandi investitori, ma la vera necessità è attirarli qui e creare le condizioni perché non se ne vadano, non punirli».
(da La Stampa)
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Novembre 15th, 2021 Riccardo Fucile
DUE MILIONI DI CITTADINI ITALIANI HANNO TRE MILIONI DI CONTI ESTERI DOVE SONO DEPOSITATI 210 MILIARDI DI EURO
Rigore a senso unico su tasse ed evasori: il governo degli Stati Uniti è sempre più
severo con i propri contribuenti, ma poi protegge gli stranieri che imboscano denaro sul territorio americano.
Joe Biden e la Segretaria al Tesoro, Janet Yellen hanno lanciato un’aggressiva campagna politica, economica e anche culturale contro evasione tributaria, paradisi fiscali, riciclaggio e corruzione. Tutto bene, se ci non fossero alcune vistose contraddizioni che inquinano i rapporti tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, in particolare con noi europei.
Nel Dataroom del 26 aprile scorso abbiamo visto le strategie aziendali per eludere le imposte, e come i big del digitale siano in grado di quasi azzerare il carico tributario spostando gli utili da un territorio all’altro.
Con la global minimun tax si fa un piccolo passo avanti verso l’equità. E su questo dobbiamo ringraziare Biden. Come invece garantire che anche i singoli cittadini paghino il dovuto all’erario, senza nascondere soldi su conti bancari o fiduciarie oltre confine?
SCAMBIO DI INFORMAZIONI FISCALI: COME FUNZIONA
Già sette anni fa, esattamente il 15 luglio del 2014, il Consiglio dell’Ocse (Organizzazione cooperazione e sviluppo economico) ha adottato il «Common Reporting Standard (Crs)», un protocollo che prevede lo scambio sistematico di informazioni fiscali a livello internazionale.
Da una parte le banche, i fondi di investimento, le fiduciarie, i trust e altre finanziarie sono tenute a comunicare tempestivamente alle autorità del proprio Paese come hanno operato i cittadini stranieri (solo persone fisiche, non società di capitali) sui quattro «canali» da cui transitano le ricchezze
Eccoli: conti di deposito (cioè conti corrente, conti commerciali, libretti di risparmio); conti di custodia detenuti da fiduciarie o trust; azioni e altre forme di capitale a rischio; contratti di assicurazione.
Dall’altra i Ministeri delle Finanze inviano un rapporto ai partner del Crs. In questo modo, per esempio, la nostra Agenzia delle Entrate comunicherà a Berlino cosa possiedono i cittadini tedeschi nel nostro Paese e viceversa la Germania farà la stessa cosa con noi. E così tutti gli altri, in una fitta rete di relazioni multilaterali.
GLI USA NON ADERISCONO
I primi scambi di informazioni sono iniziati nel 2017, ed abbiamo scoperto che ne per esempio nel nostro Paese 2 milioni di cittadini italiani hanno 3 milioni di conti esteri (soprattutto in paesi a fiscalità agevolata) su cui sono depositati 210 miliardi di euro. All’intesa dell’Ocse aderiscono 112 Stati: i 27 Paesi dell’Unione europea, Gran Bretagna, Cina, Russia, India, ma anche Svizzera, Isole Vergini Britanniche, Isole Cayman, Barbados, Bahamas eccetera.
C’è solo un grande assente: gli Stati Uniti. La scelta di Washington ha sorpreso anche gli alleati più stretti, visto che l’Ocse si era attivata su impulso del G20, di cui gli americani sono protagonisti.
Per altro il nuovo corso voluto da Biden, la «lotta senza sconti alle astuzie fiscali», avrebbe come logico sbocco la piena sottoscrizione del «Crs», ma non sarà così neanche nel prossimo futuro. È una storia che comincia undici anni fa e che illustra bene quale sia l’idea di «collaborazione internazionale» coltivata dai governi americani, democratici o repubblicani che siano, quando c’è di mezzo la condivisione di database considerati sensibili.https://flo.uri.sh/visualisation/7806066/embed?auto=1A Flourish map
L’ACCORDO AMERICANO A SENSO UNICO
Barack Obama, appena arrivato alla Casa Bianca, promosse una campagna anti-evasione con lo scopo di fermare la fuga all’estero di capitali e di risparmi. Obama avviò un’intensa opera di pressioni politiche e diplomatiche che portò, nel 2010, all’introduzione del «Fatca» (The Foreign Account tax compliance Act).
Nel giro di pochi anni gli Usa hanno convinto 113 Paesi ad aderire. Nell’elenco ci sono i tradizionali alleati europei, i Paesi asiatici e le tante zone franche della fiscalità mondiale. Gli Stati concordano sulla necessità di scambiarsi i dati sui conti correnti, i depositi, gli investimenti oltre confine dei propri cittadini. Sembra la stessa formula dell’Ocse, ma se si leggono con attenzione le carte, si vede come i due accordi siano radicalmente diversi. Mettiamola così.
Il Crs è come una rete formata da tanti Stati, con uguale peso, uguali doveri e uguali diritti. Con il «Fatca» invece sono gli Stati Uniti che mantengono il controllo dei flussiIl governo Usa vuole sapere tutto sui contribuenti americani, stanandoli ovunque, scardinando, almeno sulla carta, le roccaforti storiche del segreto bancario, come la Svizzera appunto. Ma quando si tratta di percorrere la strada a ritroso, le cose cambiano parecchio. Gli americani hanno concepito il «Fatca» non fissando standard validi per tutti, ma affastellando protocolli bilaterali, Stato con Stato. Per capire come funzionano bisogna aprirli e leggerli uno per uno.
I DATI CHE GLI USA DANNO ALL’ITALIA
Proviamo a fare un esempio con quello siglato dall’Italia il 17 agosto del 2015. L’articolo 2 prescrive le informazioni che la nostra Agenzia delle Entrate (delegata dal Mef) si impegna a comunicare ogni anno all’«Irs», Internal Revenue Service, l’Agenzia delle entrate Usa.
Nel dettaglio: il numero di conto aperto da un cittadino americano in una banca o in un’altra istituzione finanziaria; il totale dei depositi, degli interessi maturati, dei redditi provenienti da cessione di una parte o di tutto il patrimonio; se è un deposito fiduciario, va comunicato l’ammontare degli interessi maturati, dei dividendi incassati e altri redditi generati dal patrimonio in custodia.
Vediamo, invece, quali sono gli obblighi assunti dagli Usa in quella stessa intesa del 2015. Riferire all’Agenzia delle Entrate i dati anagrafici dei contribuenti italiani, il numero di conto aperto presso una banca americana, gli interessi maturati in un anno, il totale dei dividendi e di altri redditi provenienti da attività negli Stati Uniti. Ma il totale depositato su quel conto no.
CHI CONTROLLA I FLUSSI
In sostanza le nostre autorità consegnano una radiografia completa dei redditi e delle operazioni compiute in Italia da un americano; Washington ricambia con notifiche laterali, senza neanche comunicare quale sia la consistenza delle ricchezze detenute da un contribuente italiano in una banca americana. Lasciando quindi libera la prateria del riciclaggio.
In questo modo le banche e il sistema finanziario Usa mantengono un vantaggio competitivo, e soprattutto il controllo dei flussi delle informazioni, facendo valere il peso della loro leadership mondialeCon un tocco di ironia involontaria, nello testo del «Fatca» con l’Italia si legge (articolo 6): «Il governo degli Stati Uniti riconosce la necessità di raggiungere livelli equivalenti di scambio di informazioni reciproco e automatico». Bene, sarebbe arrivato il momento di farlo.https://flo.uri.sh/visualisation/7806621/embed?auto=1A Flourish map
I 7 PARADISI AMERICANI
Così come sarebbe maturo un intervento sui paradisi fiscali interni. Quelli al centro del dibattito politico e legislativo sono sette: Delaware, Wyoming, New Mexico, Nevada, Alaska, Montana, South Dakota.
Tutti Stati che offrono tassazioni agevolate, soprattutto alle imprese, o legislazioni che consentono di occultare informazioni essenziali sui proprietari o i beneficiari di una società. Nelle ultime settimane l’inchiesta dei «Pandora Papers», condotta dall’ «International Consortium Investigative Journalism» (150 media nel mondo), ha seguito le tracce di 206 posizioni finanziarie opache, aperte negli Usa da stranieri provenienti da 41 Paesi diversi.
Tra loro figurano il presidente della Repubblica Domenicana Luis Abinader, il re di Giordania Abdullah II, il presidente del Congo Nguesso, imprenditori, star dello spettacolo, calciatori. Uno dei crocevia più attivi è il South Dakota, lo Stato che ha incentivato la formazione dei cosiddetti «trust». La legislazione locale consente a queste società di schermare l’identità del beneficiario. Negli ultimi dieci anni le ricchezze custodite nelle fiduciarie di Sioux Falls, la capitale del South Dakota, si sono quadruplicate, toccando la cifra di 360 miliardi di dollari.
COSA OFFRE IL DELAWARE
Ma il rifugio fiscale più frequentato resta il Delaware, lo Stato che il presidente Biden ha rappresentato al Senato per 36 anni.
Circa 1,6 milioni di imprese (qualche centinaio sono italiane) hanno installato qui la loro sede legale, comprese circa 300 aziende inserite nella classifica di Fortune 500.
Il Delaware offre sostanzialmente tre vantaggi: la costituzione agevolata dei «trust»; una modesta tassa dell’8,7% sugli utili delle imprese, e quelli ricavati da alcune attività (brevetti, marchi e altri «investimenti intangibili») anche se la produzione è collocata altrove.
Infine nel Delaware opera un tribunale per le controversie commerciali, la «Court of Chancery», tradizionalmente molto sensibile alle ragioni degli imprenditori. Queste zone franche sono motivo di imbarazzo politico per il governo Biden. Non è facile, spianare le legislazioni locali. Le resistenze sono bipartisan: quattro Stati sono governati dai repubblicani; tre dai democratici.
Per il momento l’unico strumento in campo è il «Transparency Act», legge approvata il primo gennaio del 2021. Il provvedimento impone, tra l’altro, a tutte le società costituite in America di riferire alle autorità i nomi degli azionisti. Ma non si menzionano i «trust», cioè il veicolo più usato per occultare l’identità dei beneficiari. Le norme entreranno in vigore a gennaio 2022. I contribuenti che pagano fino all’ultimo centesimo aspettano da Biden un cambio di passo.
Milena Gabbianelli
(da Il Corriere della Sera)
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