Destra di Popolo.net

SALVINI DIFENDE GLI AGRICOLTORI CHE BLOCCANO LE STRADE, MA NON E’ IL MINISTRO DEI TRASPORTI?

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

MA NON ERA CONTRO “GLI IMBECILLI CHE IMPEDISCONO ALLA GENTE DI ANDARE A LAVORARE”?

In principio furono gli “eco-imbecilli”. Il ministro dei trasporti Matteo Salvini li chiamò così, quelli che occupavano le strade, bloccando il traffico. Fermare la circolazione dei veicoli, creare problemi a studenti e lavoratori, danneggiare il commercio e l’ambiente, è un atto criminale, disse, nemmeno troppo tempo fa, riferendosi alle proteste degli attivisti di Ultima Generazione.
Era il mese di settembre del 2023 quando su X, il social di Elon Musk, il ministro scrisse che “gli eco-imbecilli” bloccavano viale Fulvio Testi a Milano, e che “questi idioti” danneggiavano lavoratori, studenti e ambiente, creando traffico e caos: “Portateli via di peso e accompagnateli dove è giusto che stiano: in galera”.
Così, poi, a inizio novembre la Lega presenta davvero un progetto di legge in Parlamento, firmato dall’onomatopeico deputato Gianangelo Bof, con il quale si chiedeva un inasprimento delle pene per chi blocca il traffico, introducendo un climax ascendente di sanzioni ipoteticamente deterrenti: il reato penale, l’arresto in flagranza e il Daspo urbano. Una soluzione di buon senso, disse Bof, per chi si alza presto la mattina per andare a lavoro.
Ma se il buon senso è ragionevole, non sempre ciò che è ragionevole è anche razionale. Così apriamo oggi i giornali, e scopriamo che anche in Italia, come già successo in Germania e in Francia, è scoppiata la rivolta dei trattori. Il Comitato degli Agricoltori Traditi, questo il nome dell’associazione, porta i propri ingombranti mezzi agricoli in strada, in segno di protesta contro i rincari delle materie prime, del gasolio, contro le tasse e gli oneri ambientali da rispettare, contro il Green Deal proposto dall’Unione Europea e contro la differenza tra il prezzo a cui vendono i loro prodotti e il prezzo a cui questi vengono rivenduti dagli intermediari e dalla Grande Distribuzione.
Lo scontro tocca molti nervi scoperti del settore, e la protesta, anche se a passo d’uomo, divampa presto in tutta Italia: Frosinone, Latina, Torino, Pescara, Reggio Emilia e Noci (Puglia), Bologna (dove già tutti si devono muovere a passo di trattore, peraltro), Milano, Roma, Caserta, Napoli, Lucca, Verona.
Le proteste degli agricoltori arrivano in Italia
Chi abita in una zona rurale, ma sarà capitato sicuramente anche a voi, può assicurarvi che trovarsi un trattore davanti mentre state andando a lavoro è già una gran seccatura. Bene, immaginate di averne centinaia davanti, come ritrovarsi nel mezzo di una massiccia sfilata di carnevale. In effetti, i titoli dei giornali, locali e nazionali, parlano degli effetti della protesta in termini di viabilità in tilt, inevitabili disagi alla circolazione, strade statali bloccate, traffico paralizzato e via dicendo. Bene, siamo sicuri a questo punto che il ministro dei trasporti intervenga, che Salvini si scagli contro i protestanti, magari coniando l’ennesimo neologismo, che ne so, tipo “agri-imbecilli”. Ci aspettiamo che il Capitano si erga a difensore del popolo che deve andare a lavorare e non ha tempo da perdere. Via, in galera, avanti. Così, in cerca di consolazione e rinforzo, andiamo sui profili social del ministro, dove in effetti vediamo campeggiare la foto di un possente e rivoltoso John Deere in marcia, sul quale sventola garrulo e fiero il tricolore, come se fosse un incrociatore Aurora davanti al Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo.
Ci affrettiamo a leggere la didascalia, sperando di trovare quello che cerchiamo. Ma, ahimè, non è sempre vero che chi cerca trova. Almeno, chi cerca non trova sempre ciò che vorrebbe. La delusione è in agguato, ed è cocente.
Salvini parla di farina di grillo, di insetti e carne sintetica: “La Lega è e sarà sempre al fianco degli agricoltori italiani contro queste scelte folli che da Bruxelles danneggiano i prodotti, il lavoro e la salute del nostro Paese”. Questa sì che è una rivoluzione: il ministro dei trasporti che supporta gli agricoltori e caldeggia la loro decisione di bloccare le strade. Dispiace però per tutti quelli che stavano andando a lavorare, e trovando le strade occupate dai trattori saranno sicuramente arrivati in ritardo. Ora che il ministro dei trasporti li ha abbandonati, non è che scenderanno in strada anche loro?
Jacopo Tona
(da mowmag.com)

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GLI ORCHESTRALI DELLA SINFONICA DI PALERMO BOCCIANO BEATRICE VENEZI: “LA POLITICA NON C’ENTRA, NON SA PROPRIO DIRIGERE”

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

UN FLAUTISTA: “GESTI NON COORDINATI CON LA PARTITURA, ABBIAMO SCELTO DI NON GUARDARLA”… UN VIOLINISTA: “PRESENTATA COME SE FOSSE BERNSTEIN”

Battere i piedi sul palco, facendo più chiasso possibile. È il rituale dell’orchestra per salutare l’uscita di scena del suo direttore, ogni volta che ne viene apprezzato il lavoro.
Al termine del doppio concerto al Politeama di Palermo, diretto da Beatrice Venezi la scorsa settimana, però, l’Orchestra sinfonica siciliana è rimasta immobile. Il tributo “sonoro” lo ha riservato solo al violinista serbo Stefan Milenkovich. A Venezi, che tra poco più di una settimana tornerà a dirigere la Sinfonica, no. E non è un caso.
Almeno a sentire Claudio Sardisco, flautista della Foss da quasi 40 anni: «Se nessuno di noi si è mosso è perché la direttrice d’orchestra ha solo complicato il nostro lavoro: sarebbe stato più facile suonare senza di lei». Sardisco ha pochi dubbi e tante certezze. Una su tutte: «La scena se l’è presa lei, ma il lavoro “sporco” lo abbiamo fatto noi orchestrali».
Per il musicista, se tutto è andato per il verso giusto, con gli applausi della platea a confermarlo, è perché la Sinfonica si è “dissociata” dalla direzione orchestrale, con lo sguardo basso sulle partiture musicali che quasi mai si è alzato verso Venezi.
«Dopo le prove d’orchestra abbiamo avuto dei problemi con la direttrice e abbiamo concordato con i colleghi più giovani di non guardarla in modo da riuscire a coordinarci concentrandoci solo sull’ascolto reciproco: ce la siamo dovuta cavare da soli perché i gesti di Venezi non erano coerenti con l’esecuzione musicale», confida Sardisco.
E usa una similitudine automobilistica: «Anche un neofita può guidare una macchina di Formula 1, ma quando ci sono curve e tratti più insidiosi, se non c’è il giusto pilota bisogna andare in modalità pilota automatico. Allo stesso modo, nei cambi di ritmo e di tempo e nei momenti più critici della partitura, un bravo direttore deve essere in grado di guidare l’orchestra. Ecco, non è il caso di Venezi».
Il flautista non ne fa una questione politica, ma soltanto artistica: «La giudico solo per come lavora». Sardisco non è l’unico tra gli orchestrali a pensarla così. «Posso non essere d’accordo con le sue idee, ma quando si suona conta solo la musica e la politica resta fuori — dice il violinista Luciano Saladino — Il problema è che la vedi da fuori e ti sembra pure brava, poi però lavorandoci ti accorgi che non è in grado di seguire l’orchestra».
Eppure, parliamo di una direttrice d’orchestra che fa concerti in tutto il mondo, è alla direzione artistica di TaoArte ed è consulente del ministro della Cultura.
«La spinta mediatica l’ha portata più in alto di quello che merita e mi ha dato fastidio che, in un programma ricco come quello della Sinfonica di quest’anno, sia stata presentata come se fosse Bernstein: è un’offesa a chi questo mestiere lo fa con fatica, studio e devozione senza sottostare a logiche clientelari e a giochi di potere», dice Saladino.
E conclude: «In questo Paese la meritocrazia è andata a farsi benedire e questo discorso non riguarda solo lei, perché in questi anni ne ho viste anche di peggio».
E la violinista Ivana Sparacio osserva: «Chiunque venga a dirigerci merita la nostra professionalità, ma Venezi non rientra certo tra i direttori d’orchestra con cui mi possa vantare di avere lavorato: è un fenomeno mediatico, spettacolarizza la musica».
E se, come si sussurra, fosse nominata dal sovrintendente Andrea Peria direttrice artistica della Sinfonica? «Farebbe meno danni di quanti ne fa dirigendo l’orchestra», dice Saladino. «Verrebbe giudicata in base ai progetti e alle idee che porta», osserva Sardisco, «basta che non ci porta a Sanremo», ironizza Sparacio. Ma al momento la nomina è solo un’ipotesi. «Non è stata oggetto di discussione nel consiglio di amministrazione, e ad ogni modo il ruolo sarebbe incompatibile con la direzione artistica di TaoArte», osserva Sonia Giacalone, violoncellista e rappresentante dei professori d’orchestra nel cda della Foss.
(da La Repubblica)

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MICHELLE OBAMA POTREBBE GIÀ ESSERE AL LAVORO PER LA SUA CORSA ALLA CASA BIANCA CONTRO DONALD TRUMP

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

SECONDO UN EDITORIALE DEL ‘’NEW YORK POST’’, JOE BIDEN SI RITIRERÀ INTORNO A MAGGIO, PERMETTENDO COSÌ IL SUBENTRO… UN PIANO, SECONDO IL TABLOID CONSERVATORE, ‘ORCHESTRATO’ DALLO STESSO BARACK

Michelle Obama potrebbe già essere al lavoro per la sua corsa alla Casa Bianca contro Donald Trump. Secondo un editoriale del New York Post, nei prossimi mesi Joe Biden annuncerà il suo ritiro e l’ex first lady sarà nominata alla convention dei democratici. Lo staff di Michelle Obama, si legge ancora sul tabloid statunitense, avrebbe già chiesto ai sostenitori democratici opinioni in merito a una sua imminente candidatura.
Non è la prima volta che si parla di una sua ipotetica corsa elettorale. Se mai dovesse correre e se, in ipotesi, dovesse vincere, Obama regalerebbe un secondo primato alla famiglia e agli Stati Uniti: dopo il primo presidente afroamericano la prima presidente donna.
Durante e dopo i due mandati di Barack Obama, Michelle ha sempre continuato a impegnarsi politicamente, e sono in molti a pensare che sarebbe la candidata dem più indicata, soprattutto dopo il declino della stella Biden che ha concluso il 2023 con il peggior indice di popolarità mai registrato da un presidente Usa in età moderna.
Già alle ultime elezioni, nel 2020, un movimento aveva cercato di spingere Michelle Obama a candidarsi proprio per contrastare Trump ed evitare un suo secondo mandato. Auspici che, a ben vedere, esistevano già nel 2016, dopo l’addio degli Obama alla Casa Bianca, quando su Twitter si erano diffusi anche gli ashtag #Michelle2020 e #MichelleForPresident.
Michelle Obama negli anni è diventata un simbolo per i progressisti americani. Ora sembra che la sua candidatura non sia più solo una speranza degli elettori democratici. Se in passato le voci e i rumor sulla sua imminente corsa sono sempre stati smentiti, ad ora non sono ancora pervenute comunicazioni ufficiali che neghino o confermino quanto sostenuto da Cindy Adams, la giornalista del New York Post che nel pezzo sostiene che Biden si ritirerà intorno a maggio, permettendo così il subentro. Un piano, secondo il tabloid conservatore, ‘orchestrato’ dallo stesso Barack.
(da agenzie)

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GLI “ODIATORI” SOCIAL SONO SEMPRE PIU’ NUMEROSI: NEL 2023, IL 93% DEI TWEET ERA “NEGATIVO”, CONTRO IL 69% DELL’ANNO PRECEDENTE

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

MOLTI DI QUESTI “LEONI DA TASTIERA” SI NASCONDONO DIETRO A HASHTAG INNOCUI O NICKNAME CHE LI AIUTANO A DISSOCIARSI DALLA REALTÀ… IL PROF ZICCARDI: “L’ODIO ONLINE STA AUMENTANDO PERCHE’ AUMENTANO I CONTATTI E QUINDI LA PRODUZIONE DI CONTENUTI”

Può mettere a disagio una discesa nei gironi infernali del linguaggio degli hater, ovvero chi sui social indica con “Zecche” gli elettori di sinistra o con “Risorse” i richiedenti asilo. Mescolando, ogni volta che sia possibile, sessismo e razzismo
L’odio online sta crescendo: l’ultima mappa dell’intolleranza redatta da Vox, Osservatorio italiano sui diritti, segnala un 93% di tweet negativi, contro il 69% dell’anno prima, soprattutto diretti contro le donne (43,21%), le persone con disabililtà (33,95%) e le persone omosessuali (8,78%). Gli hater si raggruppano, dietro hashtag (come #pandorogate per chi attacca Chiara Ferragni) in apparenza neutri ma capaci di evocare, in chi condivide le loro idee, tutto un mondo.
Più di tutto, gli hater sono dissociati. Secondo un esperto nello studio dell’odio online, Daniel Kilvington della Leeds Beckett University, la dissociazione degli hater è, nella maggior parte dei casi, a doppio senso: si dissociano sia dalla loro identità reale, proteggendosi dietro un nickname, che dalle loro vittime, di cui non possono vedere le reazioni fisiche e le espressioni, così da poter capire quando si è passato il segno, come accadrebbe invece in una discussione vis-à-vis. «Internet per loro è come una dimensione immaginaria, separata e rimossa dagli obblighi e dalle responsabilità del mondo reale» spiega Kilvington.
Ma perché l’odio sta aumentando? «Per semplici ragioni numeriche: perché aumentano i contatti, le transazioni, le relazioni online e quindi la produzione di contenuti e l’esposizione ai contenuti» spiega Giovanni Ziccardi, professore di informatica giuridica all’Università degli Studi di Milano e autore di Dati avvelenati (Raffaello Cortina, in uscita a febbraio). «Dalla pandemia è aumentato il numero di ore che passiamo online, anche per lo smart working. Poi oggi gli strumenti di intelligenza artificiale facilitano la produzione di contenuti, e si è abbassata l’età della consegna del primo smartphone: ormai la fascia d’età di chi può scrivere in Rete va dagli 8 ai 75 anni. Così abbiamo sempre più contenuti online, e tra questi quelli d’odio».
«Inoltre la viralità dei messaggi degli hater è di molto superiore a quella dei contenuti più pacati e meditati, e quindi l’odio ha una visibilità intrinseca, soprattutto in un momento storico in cui la polemica è considerata un valore che è anche economico, per il traffico online che procura. Possiamo definire l’odio come la valuta dei social network».
Non tutti gli odiatori sono anonimi. «Ci sono anche quelli che ci mettono la faccia, presentandosi col loro vero nome e cognome. Costoro rifuggono dall’anonimato, perché vogliono guadagnarsi un seguito personale, una popolarità: sanno bene che l’odio, soprattutto quando è canalizzato verso un personaggio pubblico, come attori, cantanti o politici, attira visualizzazioni e condivisioni ». Sono queste le persone che, quando vengono messe di fronte al soggetto che hanno aggredito, dichiarano “Ma io questa persona non la odio mica. L’ho offesa solo perché so che così attiro visualizzazioni e vado in alto nei trend dei social”.
Una distinzione terminologica utile è quella proposta da Joseph Reagle, docente di comunicazione alla Northeastern University e autore del saggio “Reading the comments: likers, haters and manipulators at the bottom of the Web” (Mit Press): «In quel libro distinguo tra “brave persone che si comportano male” e “cattive persone che esprimono sé stesse”» spiega Reagle. «Chi viene bersagliato, come nel caso tragico della ristoratrice Giovanna Pedretti, si trova ad affrontare uno spettro composito di offese e critiche» spiega Reagle. «Da un lato ci sono gli hater anonimi che scrivono cose orribili come “meriteresti di morire” e dall’altro influencer piccoli e grandi (e i follower che li seguono a ruota) che l’accusano di essere falsa».
Un fuoco incrociato che confonde e spaventa chi non è abituato ad essere nel mirino degli attacchi. Come affrontare il problema? «Il primo fronte è il diritto: servono nuove regole per i social. Il secondo è l’educazione all’uso delle tecnologie: moltissime delle persone che odiano in rete non hanno, ancora oggi, idea dell’impatto che possono avere i contenuti online e di come funziona la viralità. Gli ultimi report dell’Unione Europea indicano che, anche in Italia, il 48% delle persone tra 14 e 70 anni sono prive delle competenze su Internet» osserva Ziccardi.
«E il terzo fronte è poi la tecnologia, soprattutto l’uso di strumenti di intelligenza artificiale per analizzare i testi pubblicati sulle piattaforme. Agendo su tutti questi tre fronti insieme si può contrastare l’odio salvaguardando la libertà d’espressione ».
(da La Repubblica)

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DA REPORT A GRUBER, DA REPUBBLICA AI CRONISTI NELLE CONFERENZE STAMPA: L’ALLERGIA DI MELONI E FDI PER IL GIORNALISMO NON ALLINEATO

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

ARROGANZA, OFFESE, ALLUSIONI: UNA LUNGA SEQUELA DI ATTACCHI

Un altro attacco contro Repubblica, l’ennesimo contro i giornalisti. Stavolta la premier davanti alle telecamere di Rete4 ha irriso il titolo di prima pagina “L’Italia in vendita”, senza rispondere alle notizie né controbattere nel merito, ma provando a delegittimare il giornale riferendosi alla proprietà: “Non accettiamo lezioni di italianità che vengono da questi pulpiti”.
Nei quindici mesi a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni non ha perso occasione per prendere di mira chi scrive di lei o le riserva domande scomode.
Una lunga sequenza di insinuazioni, allusioni e sortite, che nella maggior parte dei casi eludono le questioni e travalicano nel complottismo e in un’offensiva contro la libertà di stampa. Fino alla più sistematica e strutturale manovra contro l’informazione che sta portando all’approvazione delle leggi bavaglio, contro le quali la Fnsi ha formalmente protestato anche in occasione della conferenza stampa di inizio anno della premier.
Repubblica è tra i bersagli preferiti. Nell’ottobre scorso, durante il punto stampa dopo il vertice Ue a Bruxelles, la presidente del Consiglio si è rivolta ad un nostro giornalista contestando pubblicamente un suo articolo che, invece, aveva avuto riscontro da parte di diverse fonti alla premier. Un anno prima, in occasione dell’incontro per la presentazione della legge di bilancio, la premier, dopo le sollecitazioni dei due inviati di Repubblica e La Stampa, ha insinuato che i giornalisti siano stati pavidi con i suoi predecessori: “Non eravate così coraggiosi in passato”, è arrivata ad affermare.
Nella stessa occasione ha risposto piccata ad un altro cronista (“È una vita che mi insegnate le cose”) e ha troncato il tempo dedicato riservato alle domande, polemizzando seccata con quanti reclamavano.
Ma il campionario delle intemperanze negli incontri con la stampa è lungo: “Qualcuno deve correggere i suoi titoli”, aveva detto a marzo, quando le domande riguardavano le tragedie dei migranti.
Battibecchi e incursioni che la presidente del Consiglio ha trasferito anche sui social: nel novembre scorso, sull’onda del dibattito seguito al femminicidio di Giulia Cecchettin, Meloni ha ritenuto di utilizzare Instagram per attaccare personalmente Lilli Gruber, ritenuta colpevole di aver affermato in una puntata di Otto e mezzo, che “in Italia ci sia una forte cultura patriarcale e che questa destra-destra al potere non la stia contrastando tanto”.
La “destra-destra”, d’altra parte, segue lo stile della leader e alimenta il fuoco contro i giornalisti che si occupano di ciò che avviene attorno ai palazzi del potere. E così FdI ha tuonato di recente contro Report ed è arrivata a presentare un’interrogazione all’ad e alla presidente Rai perché le due inchieste sugli interessi della famiglia di Ignazio La Russa e sui presunti legami tra un boss della malavita e il padre di Giorgia Meloni sul sono ritenute dal partito di Meloni un “metodo” e un “teorema” per “spargere fango”. La chiosa, in quel caso è arrivata dalla segretaria dem, Elly Schlein: “Meloni ha superato Silvio Berlusconi: altro che editto bulgaro…”.
(da La Repubblica)

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NOMINATION ALL’OSCAR: “IO CAPITANO” DI MATTEO GARRONE NELLA CINQUINA PER IL MIGLIOR FILM INTERNAZIONALE

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

TREDICI CANDIDATURE PER “OPPENHEIMER”

Primo passo per “Io Capitano” di Matteo Garrone nella corsa all’Oscar. Il film che racconta il drammatico periplo di due ragazzi africani verso l’Italia è entrato nella cinquina dei miglior film straniero candidato all’ambita statuetta. Il film aveva già ottenuto il Leone d’argento alla regia.
Le nomination, scelte da membri dell’Academy da un numero record di 93 Paesi, sono state annunciate oggi al Samuel Goldwyn Theater di Los Angeles da Zazie Beetz e Jack Quaid.
Le altre pellicole in corsa sono ‘Perfect Days di Wim Winders, The Zone of Interest di Jonathan Glazer, The Teachers’ Lounge di Ilker Çatak e La società della neve di J. A. Bayona.
Come nelle previsioni, Oppenheimer di Christopher Nolan guida la corsa agli Oscar 2024 con ben 13 candidature, una in meno del record di sempre. Povere Creature! di Yorghos Lanthimos è arrivato secondo con undici chance agli Oscar del 10 marzo che include una quarta nomination per la protagonista Emma Stone. Al terzo Posto con dieci candidature Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese (alla sua decima chance), davanti a Barbie con otto (e due grandi escluse, Greta Gerwig nella categoria dei registi e Margot Robbie tra le migliori attrici).
American Fiction, il francese Anatomia di Una Caduta di Justine Triet, Barbie di Greta Gerwig, The Holdovers, Killers of the Flower Moon, Maestro, Oppenheimer, Past Lives di Celine Song, Povere Creature! e il britannico The Zone of Interest sono appunto i candidati agli Oscar 2024 per la categoria più prestigiosa: il miglior film. In lista tre film di donne registe, è una prima volta per l’Academy.
Bradley Cooper (Maestro), Colman Domingo (Rustin), Paul Giamatti (The Holdovers), Cillian Murphy (Oppenheimer) e Jeffrey Wright (American Fiction) sono i candidati all’Oscar per il premio di miglior attore protagonista. Fuori Leonardo Di Caprio per la sua interpretazione in Killers of The Flower Moon.
Annette Bening in Nyad, Lily Gladstone per Killers of the Flower Moon, Sandra Hüller per Anatomia di Una Caduta, Carey Mulligan di maestro e Emma Stone di Povere Creature! sono le attrici candidate. È rimasta fuori a sorpresa Margot Robbie di Barbie, il film fenomeno dell’estate.
(da agenzie)

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SALVINI TESTIMONIAL DA INCUBO: BARILLA, ESSELUNGA E NUTELLA

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

QUANDO LA PROMOZIONE DEL MADE IN ITALY E’ UN FLOP

“Levategli lo smartphone”, verrebbe da dire bonariamente a Matteo Salvini, pluri-testimonial (da incubo) dei marchi del made in Italy e non solo. Le difficoltà create al pastificio Rummo con la sua visita sono coerenti con un’abitudine comunicativa antica, praticata anche lontano dal ruolo attuale di ministro delle Infrastrutture. Anno 2018, dicembre. Il leader leghista esibisce il proprio pranzo sul proprio profilo Twitter. “Due etti di bucatini Barilla, un po’ di ragù Star e un bicchiere di Barolo di Gianni Gagliardo. Alla faccia della pancia! Buon pomeriggio Amici”. Alla Barilla la promozione non riscuote entusiasmo. Il corrispondente del New York Times a Roma Jason Horowitz scrive sul quotidiano che lo spot “ha suscitato costernazione all’interno dell’azienda a causa della politica polarizzante del signor Salvini”. Insomma, non proprio un successo. No comment dalla Star, non più italiana dal 2006, ma con gli stabilimenti ancora saldamente ancorati in Brianza.
L’amore (pentito) per la Nutell
Qualche giorno dopo, Salvini posta uno spuntino a base di pane e Nutella. “Il mio Santo Stefano comincia con pane e Nutella. Il vostro???”. Più made in Italy di così, poco. Anzi no, in meno di un anno il ministro lancia l’indietro tutta e iscrive la Nutella tra i cattivi. “Ho scoperto che la Nutella usa nocciole turche, e io preferisco aiutare le aziende che usano prodotti italiani, preferisco mangiare italiano, aiutare gli agricoltori italiani”. Ferrero, colosso piemontese dal profilo notoriamente bassissimo, non risponde all’attacco. Rispondono Cia e Confagricoltura invitando a non penalizzare comunque un pezzo importante della nostra industria alimentare.
Rincarano la questione alcuni deputati Pd, ricordando a Salvini che nemmeno se l’Italia si trasformasse in un unico gigantesco noccioleto i frutti potrebbero bastare a soddisfare da sola la domanda dell’azienda. La Ferrero consuma da sola il 20% delle nocciole mondiali, l’Italia ne produce solo il 14, l’azienda deve rifornirsi quindi anche dall’estero. Lo stesso Salvini alcune settimane dopo fa una nuova marcia indietro. Bilancio della crociata pro e poi contro e poi ancora pro Nutella: così così.
Baci proibiti
Va da sé che con questi precedenti pure in Nestlé, sempre nel 2018, possano avere avuto un sussulto –come riferito dal Foglio – dopo il post promozionale di Salvini al Bacio Perugina e ad uno dei suoi incartamenti con messaggio: “L’amicizia reca grandi felicità con piccoli gesti”. Qui l’omaggio al made in Italy però va in buca soltanto a metà, perché lo storico marchio umbro è nelle mani della multinazionale elvetica dal 1988.
Ringo people, l’irritazione di Barilla
Non va meglio, con i dolci, due anni dopo. Quando sui propri canali ufficiali la Lega pensa di affiancare la foto di una stretta di mano di Salvini con un uomo di colore ad una famosa pubblicità della Ringo. Ancora la Barilla, questa volta pubblicamente, è costretta a intervenire prendendo le distanze in qualità di titolare del marchio. “Il Gruppo Barilla conferma che non ha autorizzato e non autorizza l’utilizzo dei propri marchi – compreso il brand #Ringo – da parte di nessun movimento o gruppo politico”.
La spesa all’Esselunga
Qualcosa deve avere spinto Salvini a una maggiore prudenza. Per il ritorno in veste di testimonial sceglie il caso di marketing dell’anno, lo spot della pesca dell’Esselunga. Post con foto, carrello e sacchetti. “Niente pesche, ma tanta roba! Le domeniche belle all’Esselunga”. Impossibile sbagliare. E invece no, il post viene sommerso di critiche, che puntano il dito persino sul costo giudicato troppo alto per le castagne, 5 euro al chilo. Ma nel complesso si contesta l’opportunità che un ministro della Repubblica si presti a fare da sponsor sui social ad una azienda.
Ultimo capitolo, il boomerang in casa Rummo. La visita allo stabilimento beneventano innesca una valanga di critiche, questa volta non solo sulla sua pagina personale, ma persino su quella dell’azienda, costretta a gestire anche un’ondata di indignazione social al grido/hashtag di boicottaRummo. Il patron dell’azienda resta spiazzato: “Non capisco”. Eppure, visti i precedenti del Salvini-influencer, il possibile inciampo si poteva avvistare a diversi chilometri di distanza.
(da agenzie)

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IL PIATTO PIANGE E NON CI SONO ALTERNATIVE: O SI TAGLIA LA SPESA INUTILE, O SERVONO NUOVE TASSE

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

LA RICETTA ECONOMICA DELL’OCSE PER L’ITALIA: LIBERALIZZAZIONI, PATRIMONIALE, RIFORME E TAGLIO DELLE PENSIONI PIÙ ALTE, PER EVITARE IL COLLASSO… “IN ASSENZA DI VARIAZIONI DELLE POLITICHE DI SPESA E FISCALI L’AUMENTO DELLA SPESA PER PENSIONI, NONCHÉ L’INCREMENTO DEI COSTI, PORTEREBBERO IL DEBITO PUBBLICO A CIRCA IL 180% DEL PIL ENTRO IL 2040. L’ITALIA SAREBBE SEMPRE PIÙ VULNERABILE AGLI CHOC DI BILANCIO”

L’Italia è stata resiliente, ha resistito bene alle crisi recenti. Una forte risposta di politica fiscale, una maggiore competitività e una migliore salute del settore bancario hanno infatti sostenuto la crescita negli ultimi anni. Ma adesso il Paese sta di nuovo rallentando – il Pil quest’anno crescerà appena dello 0,7% (e dell’1,2 nel 2025), avverte l’Ocse nel suo ultimo rapporto sulla situazione economica dell’Italia – di fronte ad un debito pubblico che resta sempre molto altro (il terzo più alto di tutta l’area Ocse, al 140% del Pil) e all’aumento dei costi legati all’invecchiamento della popolazione, servono dei correttivi seri.
In un contesto di «irrigidimento delle condizioni finanziarie» occorre mettere in campo «un consolidamento fiscale costante nell’arco di diversi anni» per riportare il debito su un percorso «più prudente», agendo anche sulle tasse. In particolare «lo spostamento dell’imposizione dal lavoro alle successioni e ai beni immobili», in pratica quella tassa sui patrimoni che tanto ha fatto discutere la politica nei giorni scorsi, secondo l’Ocse «renderebbe il mix fiscale più favorevole alla crescita, consentendo al contempo di incrementare le entrate».
Oltre questo è poi necessario «contrastare con fermezza l’evasione fiscale» anche continuando a promuovere l’uso dei pagamenti digitali e invertendo l’aumento del massimale per le operazioni in contanti.
Sul fronte della previdenza, come prima cose occorre ridurre la generosità degli assegni per le famiglie a reddito elevato, quindi «gradualmente» andrebbero eliminati i regimi di pensionamento anticipato, come già fatto con Quota 100. Nel breve termine, sarebbe poi opportuno mantenere la parziale de-indicizzazione delle pensioni elevate per poi sostituirla nel medio termine con un’imposta sulle pensioni elevate, che non siano correlate ai contributi pensionistici versati.
«In assenza di variazioni delle politiche di spesa e fiscali – è il monito che lancia l’Ocse al nostro Paese – l’aumento della spesa per pensioni, sanità e assistenza di lungo termine, nonché l’incremento dei costi del servizio del debito, porterebbero il debito pubblico a circa il 180% del Pil entro il 2040 e continuerebbero ad aumentare rapidamente in seguito. Tale aumento renderebbe l’Italia sempre più vulnerabile agli choc di bilancio e comporterebbe probabilmente un ulteriore incremento del premio di rischio sul debito pubblico».
Anche sul fronte della crescita, all’Italia è richiesto un cambio di passo. In questo caso il suggerimento è quello di rilanciare gli interventi che possono servire ad aumentare la produttività, rimasta stagnante nell’ultimo decennio, sia facendo leva sulle riforme, a partire da quella della giustizia, sia accelerando l’attuazione di piani di investimento pubblico.
Per agevolare l’ingresso sul mercato da parte di nuove imprese e incrementare la concorrenza, secondo il rapporto Ocse è inoltre necessario ridurre le barriere normative che ostacolano la concorrenza nel settore dei servizi. E poi risulta «essenziale» anche un aumento dei livelli di occupazione.
«Il tasso di occupazione nel Paese è tra i più bassi dell’Ocse, a causa dell’elevata disoccupazione giovanile e della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro», mette in evidenza lo studio.Bisognerebbe infine porre la dovuta attenzione all’attuazione del Pnrr per evitare che ritardi nella sua realizzazione penalizzino ulteriormente la crescita: per questo – rileva da ultimo l’Ocse – sarebbe opportuno «riorientare il Pnrr verso progetti di investimento di grande entità e gestiti a livello centrale che possono essere realizzati, come stabilito dalla revisione del Piano».
(da La Stampa)

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LA MINISECESSIONE, BOMBA NEL SILENZIO

Gennaio 23rd, 2024 Riccardo Fucile

SPACCA-ITALIA, L’AUTONOMIA LEGHISTA SIGNIFICA LA FINE DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE E DELLA SCUOLA PUBBLICA… LASCIARE UN ENORME GETTITO ALLE REGIONI GRANDI E RICCHE SAREBBE DEVASTANTE PER I CONTI PUBBLICI

L’ autonomia regionale differenziata sarebbe una pessima scelta per l’Italia. Per tre principali motivi.
Il primo e principale riguarda i poteri richiesti. Le regioni Lombardia e Veneto hanno fatto una scelta estrema, chiedendo competenze in tutte le 23 materie in cui è possibile farlo; l’Emilia-Romagna all’epoca (2017) non si è discostata molto, anche se oggi appare più defilata.
Le regioni vogliono poteri estesi in tutte le politiche pubbliche italiane, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’energia, dalla cultura all’ambiente e molto altro. Come nota la Banca d’Italia nella sua preziosa memoria di giugno, esse però non spiegano mai perché quelle materie; in base a che evidenze le gestirebbero meglio dello Stato centrale; che cosa succederebbe nel resto del Paese. Per capirci, stiamo parlando di regionalizzare la scuola pubblica italiana, di decretare la fine del Servizio Sanitario Nazionale (con la nascita di sistemi mutualistici regionali totalmente indipendenti), di trasferire la proprietà delle grandi infrastrutture e di assicurare alle regioni ogni potere per la loro gestione e il loro sviluppo, di rendere indipendenti le politiche energetiche regionali, di frammentare la legislazione sull’ambiente. E di molto, molto altro ancora. Non una riorganizzazione amministrativa, ma un disegno tutto politico: il tentativo di costituire regioni-Stato. Questo spiega perché il processo è assai rischioso anche per i cittadini delle regioni a maggiore autonomia: che vantaggio può avere una famiglia milanese se gli insegnanti dei propri figli sono scelti su concorsi regionali e lavorano su programmi definiti dall’assessore? O se il presidente della regione ha il potere di privatizzare a proprio piacere i servizi sanitari? E questo spiega perché le associazioni imprenditoriali temano una progressiva balcanizzazione delle normative in molti ambiti.
Su questi aspetti il silenzio è totale. La legge in approvazione al Senato non ne parla; stabilisce solo che si debba ripartire dalle trattative del 2019. Ma i testi contenenti le possibili intese Stato-regioni di allora sono segreti (sono pubblici solo i primi articoli generali). Calderoli ha prodotto nella scorsa primavera una ricognizione delle specifiche funzioni che potrebbero essere regionalizzate.
Una lista che fa impressione, perché include circa 500 funzioni: l’ossatura dei poteri di uno Stato sovrano. Si pensi, per citarne una, che potrebbero essere regionalizzati anche gli enti che si occupano della sicurezza nei trasporti.
Non a caso, anche questo documento è tenuto rigorosamente segreto: è probabilmente in corso una trattativa con i ministeri di cui nessuno sa nulla. Si ricordi sempre esse che le regioni possono richiedere poteri, ma non vi è alcun obbligo di concederli; nel 2008, con il governo Berlusconi, richieste meno estreme erano state respinte in toto.
Il secondo riguarda i soldi. Le regioni Lombardia e Veneto da sempre mirano a trattenere una parte del gettito fiscale maturato nel loro territorio, sottraendolo alle entrate dello Stato (e quindi alle risorse per i servizi nel resto d’Italia, come nota la Commissione europea nel suo Country Report di luglio). Le norme che regolano il finanziamento delle regioni, previste dalla legge 42/2009 in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sono lettera morta; la sanità, poi, è finanziata in modo tutto diverso, attraverso quote di riparto del Fondo sanitario che penalizzano le regioni a maggiore deprivazione sociale.
La richiesta non è certo quella di attuare le leggi vigenti, ma di prevedere nuovi meccanismi ad hoc di finanziamento: sostanzialmente simili a quelli delle piccole regioni a statuto speciale, che trattengono gran parte del gettito. Il punto, naturalmente, è quanta parte (tecnicamente: il valore dell’aliquota di compartecipazione): chi decide su questa aliquota e soprattutto sulla sua evoluzione nel tempo.
L’obiettivo delle regioni è di stabilire norme che tengano in futuro questa decisione fuori della portata del Parlamento, affidandola a trattative con l’esecutivo. L’Ufficio parlamentare di bilancio e la Svimez hanno mostrato che, se questi meccanismi fossero stati approvati qualche anno fa, Lombardia e Veneto avrebbero messo da parte già un notevole bottino.
Dato che il loro gettito fiscale cresce più della media nazionale, avrebbero più soldi di quanti necessari per i nuovi servizi da finanziare. La Commissione Ue, allarmatissima, nota che lasciare tutto questo gettito a regioni grandi e ricche metterebbe in dubbio la capacità del Tesoro di far fronte al debito pubblico.
La Banca d’Italia si è detta preoccupata della possibilità di operare quelle forme di redistribuzione fra i cittadini previste dalla Costituzione. Si noti anche che per produrre le cifre su cui tutti questi calcoli sarebbero basati, il governo ha pensato bene di sostituire l’autorevole presidente della Commissione tecnica Fabbisogni Standard con una giurista, che è anche componente ufficiale del gruppo tecnico che aiuta il presidente veneto Zaia nelle trattative.
Per far sì che non si parli di questo, e per alimentare la favola secondo cui l’autonomia differenziata porterebbe vantaggi a tutti, il governo ha astutamente alzato una fitta cortina di fumo: i “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) dei servizi ai cittadini, previsti dalla Costituzione e quasi mai definiti. Ha nominato una commissione presieduta da Sabino Cassese, che è divenuto un vero e proprio propagandista dell’autonomia differenziata. I LEP sono importantissimi, ma in questa sede irrilevanti. Un’arma di distrazione di massa. Irrilevanti perché si sta operando solo una ricognizione delle norme già esistenti e solo in alcuni ambiti; e perché, ammesso che saranno effettivamente definiti precisi indicatori, non ci sono risorse per consentire alle regioni sotto standard di migliorare. La legge prevede espressamente l’invarianza di bilancio. Quindi, si tratta di definirli parzialmente, ma certamente non di finanziarli né tantomeno di raggiungerli. Quel che conta è fornire argomenti ai parlamentari di maggioranza; specie di Forza Italia e di FdI, magari in cuor loro perplessi: non si dimentichi che la presidente Meloni, coerente con la propria cultura politica, nel 2014 aveva proposto di cambiare la Costituzione per abolire le regioni. Intanto, il governo ha definanziato con la legge di Bilancio il “fondo perequativo infrastrutturale” (previsto dalla legge 42) che mirava proprio a potenziare, laddove sono più scarse, le strutture che consentono di erogare questi servizi, come scuole e ospedali. Che credibilità può avere la promessa dei LEP dopo questa scelta?
Infine, in breve ma certo non perché meno importante: il processo decisionale sta creando un serio vulnus democratico. I cittadini sono pochissimo informati. Si sta completamente tagliando fuori il Parlamento, a cui viene tolto il potere di valutare nel merito le richieste: l’intesa verrebbe definita dagli esecutivi e ratificata con un voto di fiducia secco. Un’anticipazione di fatto del premierato. L’approvazione darebbe poi sostanziali potestà a commissioni tecniche paritetiche fra lo Stato e ciascuna regione, che opererebbero fuori dal controllo parlamentare e dallo sguardo della pubblica opinione.
Insomma, non di autonomia si tratta, ma di un processo nei fatti secessionistico, con la creazione di regioni-Stato in grado di disporre di risorse per servizi progressivamente assai maggiori rispetto alle altre. Una radicale trasformazione dell’Italia.
(da agenzie)

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