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ARMATA LESSA: LA BABELE DEI MERCENARI ARRUOLATI CON L’INGANNO DAL CREMLINO E FINITI NELL’ESERCITO DI PUTIN A COMBATTERE IN UCRAINA

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

LE VITTIME DELL’ENNESIMA “TRUFFA” DI MOSCA VENGONO DA 106 PAESI POVERISSIMI (NEPAL, SIERRA LEONE, ETC), RISULTANO TOTALMENTE IMPREPARATI E COSTRETTI A IMBRACCIARE MITRAGLIATRICI O LANCIAGRANATE CONTRO LA LORO VOLONTÀ E ORA SONO PRIGIONIERI DI KIEV SENZA CHANCE DI TORNARE… UNA FONTE UCRAINA: “PUTIN NON PUÒ AMMETTERE UFFICIALMENTE DI AVERE BISOGNO DI MERCENARI”

Modam Kuma? gestiva un bar in Nepal e guadagnava troppo poco. Un giorno qualcuno gli disse che c’era una buona opportunità di lavoro in Russia. «Mi raccontarono che sarei stato ingaggiato come guardia giurata e mi fecero firmare un contratto in russo», rivela. Ma gli intermediari mentivano.
Quel pezzo di carta che lui non era stato in grado di decifrare non era un documento d’assunzione da guardia giurata. Era un contratto di arruolamento nell’esercito di Putin.
Kumal è finito al fronte in Ucraina, come carne da cannone dell’armata russa, infine è stato catturato dal ‘nemico’. Oggi è un prigioniero di guerra di Kiev, e tutto sommato gli è andata meglio che ad altri. Richard Kanu, ad esempio, è originario della Sierra Leone. Voleva andare a Mosca a lavorare e ha persino pagato 3000 dollari per ottenere un visto per la Russia. Anche lui è finito nelle trincee del fronte russo-ucraino a Donetsk, ingannato dai reclutatori che gli avevano promesso un buon impiego, ovviamente in ambito civile.
Putin «non può ammettere ufficialmente di avere bisogno di mercenari», ci racconta una fonte militare ucraina. E dunque ha allungato i suoi tentacoli in ben centosei Paesi del mondo, alcuni dei quali poverissimi, dove la Russia recluta con l’inganno giovani e meno giovani, allettandoli con un lavoro ben retribuito a Mosca o San Pietroburgo. Stiamo parlando di «migliaia» di persone, secondo la fonte, che si ritrovano nelle avanguardie russe a combattere contro gli ucraini.
Totalmente impreparati, quasi sempre alla prima esperienza militare e costretti a imbracciare mitragliatrici o lanciagranate contro la loro volontà. Adesso sono rinchiusi in uno dei cinqu
campi per i prigionieri di guerra che sono sparsi per l’Ucraina, ognuno dei quali ha una capienza di 1000 carcerati. E gli ucraini sono «in costante contatto con le ambasciate» dei 106 Paesi «per aggiornarle sulla condizione dei prigionieri».
I soldati “abusivi”, ingannati da reclutatori senza scrupoli, provengono dall’Asia – e soprattutto dal Kazakistan – ma anche dal Sudamerica o dall’Africa. E il problema maggiore, quando non muoiono nelle trincee, è che gli ucraini li devono considerare prigionieri russi a tutti gli effetti perché hanno firmato, quasi sempre senza saperlo, un regolare contratto di arruolamento.
«Fanno ufficialmente parte dell’armata russa e sono formalmente considerati prigionieri di guerra russi», precisa la fonte militare. Di conseguenza, la loro possibilità di tornare a casa si riduce al lumicino: «possono essere solamente scambiati con altri prigionieri ucraini». E ovviamente finiscono in fondo alle liste perché Mosca vuole riavere indietro anzitutto i suoi cittadini.
Le subdole campagne di reclutamento contrabbandate per allettanti offerte di un impiego civile che vanno avanti da tempo in tre continenti hanno raggiunto persino la Cina. In un video ripreso dall’esercito ucraino, un medico cinese, Wang Guang Zun, racconta di essere stato attirato in Russia per «lavorare in un ospedale e curare i soldati russi. Mi hanno offerto un’ottima retribuzione.
E sono partito. Ma invece mi hanno spedito nell’esercito a combattere». Nello stesso video, altri due cinesi narrano truffe simili, e rivelano di aver ricevuto addestramenti ridicoli: 5 giorni a Kazan o a Rostov. Un intervistato ammette: «mi hanno dato in
mano la prima mitragliatrice il giorno stesso della prima battaglia».
Tuttavia la massiccia campagna di reclutamento russo sta cominciando a creare dei dissapori diplomatici. L’anno scorso, durante un incontro con Putin, il premier indiano Narendra Modi ha apertamente chiesto al presidente russo di rimandargli indietro tutti i suoi concittadini attirati nel conflitto in Ucraina con l’inganno. Ma un conto è il peso diplomatico dell’India, un conto è se il governo somalo o nepalese o bengalese avanza la stessa richiesta perentoria a Mosca.
(da La Repubblica)

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“GLI STATI UNITI D’AMERICA RISCHIANO DI DIVENTARE UNA DITTATURA”: ALAN FRIEDMAN DURISSIMO SULLA PERQUISIZIONE DA PARTE DELL’FBI DELLA CASA DI JOHN BOLTON, EX CONSIGLIERE PER LA SICUREZZA NAZIONALE DI TRUMP, “COLPEVOLE” DI AVER CRITICATO LA POLITICA ESTERA DEL PRESIDENTE

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

FRIEDMAN: “IL MINISTERO DELLA GIUSTIZIA HA INVENTATO DI SANA PIANTA UN’ACCUSA SECONDO CUI BOLTON . L’AMERICA CHE NOI TUTTI PENSAVAMO DI CONOSCERE NON ESISTE PIÙ. TRUMP FA ARRESTARE I GIUDICI PERCHÉ EMETTONO SENTENZE CONTRO LE SUE DEPORTAZIONI, MANDA L’ESERCITO A LOS ANGELES, METTE WASHINGTON DC SOTTO LEGGE MARZIALE E CREA UN PROPRIO ESERCITO PERSONALE, UNA SPECIE DI GESTAPO AMERICANA (“ICE”). IL PRESIDENTE NON CREDE NELLO STATO DI DIRITTO. È UN PRESIDENTE CHE TRADISCE LA DEMOCRAZIA AMERICANA”

Quello che sta accadendo in America è molto, molto preoccupante. Donald Trump ha mandato l’Fbi a perquisire la casa del suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, un rispettabile repubblicano.
Trump ormai ha politicizzato completamente il suo controllo dell’Fbi e della Cia. Ha insediato Kash Patel – un militante Maga nonché spiritato teorico della cospirazione – nell’ufficio che un tempo era di J. Edgar Hoover. Patel lavora a stretto contatto con Trump e con Tulsi Gabbard, altra teorica della cospirazione nonché propagandista filoputiniana, che Trump ha nominato Direttrice dell’Intelligence Nazionale.
Sia Patel sia Gabbard hanno iniziato a svolgere indagini di alto profilo e a perseguire gli ex funzionari delle Amministrazioni Biden e Obama che presero parte all’inchiesta sui rapporti di Trump con la Russia nel 2016.
Sia l’uno sia l’altra fanno parte di una specie di retribution force di Trump, un gruppo di fedelissimi Maga che collaborano con Pam Bondi, ex avvocato personale di Trump oggi a capo del ministero della Giustizia. Vogliono vendetta. Vogliono castigare e mettere a tacere chiunque si esprima pubblicamente contro la Casa Bianca.
Trump e Patel adesso ricorrono all’Fbi per intimidire John Bolton, colpevole soltanto di aver scritto un libro contenente critiche pungenti alla politica estera di Trump. Bolton è “colpevole” di aver parlato liberamente in televisione, pronunciando critiche sferzanti su Trump. L’Fbi di Trump e il ministero della Giustizia hanno inventato di sana pianta un’accusa secondo cui Bolton sarebbe in possesso di documenti classificati.
Sembra una montatura, una scusa per attaccare Bolton. La Casa Bianca, in sostanza, sta accusando Bolton dello stesso reato per il quale è stato inquisito Trump: una gestione scorretta di documenti classificati. Trump nascose i documenti in suo possesso in un bagno di Mar-A-Lago. Bolton, molto probabilmente, è perseguito per motivi politici, non per aver commesso reati.
Il caso Bolton cambia i giochi in America. È un’altra linea rossa calpestata da Trump, e alquanto allegramente, contro la Costituzione, contro le leggi che governano l’America. Il blitz all’alba nella casa di periferia di Bolton in Maryland è stato trasmesso da Fox News e ha subito dominato il ciclo delle notizie. Le accuse pretestuose si riveleranno infondate ma, prima che ciò accada, occorreranno anni. Nel frattempo, Trump sta usando la forza bruta e maltratta lo stato di diritto americano mandando l’Fbi a casa di Bolton.
Dietro il caso Bolton c’è quindi un grosso problema: quando la Casa Bianca manda l’Fbi a intimidire le voci dissidenti in America, allora l’America che noi tutti pensavamo di conoscere non esiste più. Ci troviamo ormai sull’erto e sdrucciolevole
pendio verso la dittatura. Gli Stati Uniti d’America rischiano di diventare de facto una dittatura, o qualcosa di molto vicino. […]
Cerchiamo di essere chiari: abbiamo un presidente degli Stati Uniti che arresta i giudici a capo dei tribunali perché emettono sentenze contro le sue deportazioni. Abbiamo un presidente che manda l’esercito a Los Angeles, mette Washington DC sotto legge marziale, crea un proprio esercito personale, una specie di Gestapo americana con gli uomini mascherati dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE). Abbiamo un presidente che non crede nello stato di diritto. È un presidente che tradisce la democrazia americana. E questa sarà una sfida enorme per il futuro della democrazia americana. Non so come faremo.

Alan Friedman
per “La Stampa”

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COSA DICE GIORGIA MELONI DEL VIDEO COMPARSO SUI SOCIAL DEL TORTURATORE LIBICO ALMASRI CHE UCCIDE UN UOMO PER LE STRADE DI TRIPOLI?

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

LA VERSIONE RIDICOLA DELLA MILIZIA LIBICA “RADA” CHE PARLA DI UN DIVERBIO PER UN PARCHEGGIO ED ESCLUDE CHE L’UOMO AGGREDITO SIA MORTO E L’IPOTESI DI FAIDA TRA SERVIZI LIBICI

Il video inizia a circolare nelle prime ore del mattino sui social. Ritrae l’ex capo delle milizie Rada e della polizia giudiziaria libica, Osama Almasri, mentre aggredisce alle spalle un uomo in pieno giorno, in strada, a Tripoli.
Lo scaraventa a terra, gli monta sopra con il ginocchio sul petto, sferra tre pugni al volto, poi si alza e infierisce ancora prendendolo a calci. Dura tutto pochi secondi. Poi Almasri trascina via il corpo inerte dell’uomo. Secondo alcuni siti lo avrebbe ucciso. Sull’asfalto e sul bordo del marciapiede restano grandi macchie di sangue.
Le immagini si diffondono in Rete, vengono riprese dai media arabi, e così, poco dopo, il video arriva in Italia sotto forma di incubo per Giorgia Meloni. Le opposizioni, in un attimo, si
scagliano contro il governo.
Almasri sta diventando una di quelle macchie impossibili da lavare via. Lo scorso gennaio, accusato dalla Corte penale internazionale di crimini contro l’umanità, era stato arrestato a Torino, poi rapidamente liberato e riportato in Libia su un aereo dell’intelligence italiana. Ne nasce uno scontro con la Corte dell’Aja, mentre in Parlamento, per mesi, le opposizioni martellano.
Poche settimane fa anche la procura di Roma ha chiesto di processare i ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e il sottosegretario Alfredo Mantovano, e a ottobre il centrodestra dovrà votare in Parlamento proprio per impedire di procedere con quel processo. Questo video, dal punto di vista comunicativo, rischia di essere per il governo Meloni l’inciampo più serio.
Al centrosinistra non sfugge che se Almasri ha davvero ucciso un uomo in video, per il governo è già un enorme problema. Se poi lo ha fatto dopo essere stato liberato e riportato a Tripoli, può diventare qualcosa di più. La responsabilità morale potrebbe essere in parte addossata al governo Meloni.
Non a caso, la segretaria del Pd Elly Schlein chiede a Meloni di «spiegare agli italiani per quale motivo il suo governo ha volutamente ignorato il mandato di cattura della Corte penale internazionale che pende su Almasri e lo ha liberato e riaccompagnato a Tripoli, dove – sottolinea – sta continuando a uccidere». Quelle immagini, dice, «sono terrificanti».
Qualche ora più tardi i servizi italiani contattano la milizia libica Rada, che offre una versione rassicurante: il video risalirebbe
vagamente «al 2021 o al 2022», dicono i libici, ex colleghi di Almasri, e l’uomo aggredito «non ha riportato lesioni gravi».
Almasri, poi, lo avrebbe percosso solo perché, quando gli aveva chiesto di spostare l’auto perché parcheggiata male, quella persona aveva tirato fuori una pistola.
Ricostruzione «bizzarra», notano alcune fonti di opposizione, visto che nel video non appare alcuna pistola, mentre è ben visibile un miliziano della Rada al fianco di Almasri che impugna un Kalashnikov. Insomma, «non sembra proprio plausibile che qualcuno, di fronte a due uomini, di cui uno armato con un mitra, possa pensare di tirare fuori una pistola per un litigio su un parcheggio». Per l’Ong Refugees in Libya, poi, le immagini sarebbero «recenti». E aggiungono di «essere al lavoro per risalire alla data esatta». Le opposizioni, intanto, attaccano frontalmente il governo
(da agenzie)

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A QUANDO LO SGOMBERO DI CASAPOUND? NON SI SA. MATTEO PIANTEDOSI SI CONTRADDICE PARLANDO DELLA LIBERAZIONE DELLO STABILE OCCUPATO

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

IL MINISTRO PRIMA SOSTIENE CHE “È NELLA LISTA DEGLI SGOMBERI” E CHE “PRIMA O POI ARRIVERÀ IL SUO TURNO”. POI APRE ALLE POSIZIONE DI GIULI, CHE HA PROPOSTO DI LEGALIZZARE L’OCCUPAZIONE: “È SUCCESSO GIÀ AD ALTRI CENTRI” (NON E’ ASSOLUTAMENTE VERO)

“Anche CasaPound rientra, io sono stato da prefetto di Roma quello che l’ha inserito nell’elenco dei centri che sono da sgomberare, prima o poi arriverà anche il suo turno”. Così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi interpellato a margine del Meeting di Rimini dopo lo sgombero del centro sociale Leoncavallo di Milano.
A chi gli fa notare che il collega di governo Alessandro Giuli ha detto che l’immobile di CasaPound potrebbe non essere sgomberato, il ministro spiega: ‘Credo abbia detto che se si legalizza in qualche modo potrebbe non essere sgomberato. È successo già ad altri centri, il comune di Roma ha comprato
addirittura delle strutture per legalizzarli, è successo anche in altre città”. Non è assolutamente vero che sono rimasti negli edifici occupati, si sono trasferiti altrove.
(da agenzie)

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MILANO NON DIMENTICHI IL SUO LEONKA

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

LA CITTA’ DEVE CAPIRE COME GARANTIRE UN’IDENTITA’ SOCIALE E CULTURALE NON COMPRESA NEL MODELLO DI SVILUPPO MODERNO

Chi, per comodità o per ottusità, volesse considerare la faccenda del Leoncavallo comeuna pura bega legale-burocratica, può
sbizzarrirsi leggendo la relativa voce su Wikipedia. Tra ordinanze, sfratti, sgomberi, accordi fatti e disfatti, promesse e minacce, benevolenze private e pubbliche poi passate in prescrizione, non ci si raccapezza; e la sola morale che se ne ricava è che non basta mezzo secolo di scartoffie, tanto meno di gipponi della polizia, per risolvere una questione politica grande come un grattacielo.
La questione è se e come la città di Milano possa garantire a se stessa, oltre che a una parte tutt’altro che marginale della sua cittadinanza, una identità sociale e culturale non compresa (in tutti i sensi) dal modello di sviluppo che l’ha resa al tempo stesso “più moderna”, più simile alle altre metropoli del mondo, e però meno inclusiva, in un processo centrifugo che edificando benessere in centro spinge all’esterno chi non riesce a pagarsi il biglietto.
E non solo: nell’omogeneità anche estetica del suo vivere, miliardi di localini con dehor ai piedi di una cordigliera di acciaio e di cristallo, i milanesi rischiano di non riuscire ad immaginare più niente di sorprendente, o di nuovo.
Di diversamente urbano – essendo la città, per definizione, un insieme plurale e anche inatteso di condizioni umane. Non è in gioco, sia chiaro, la nostalgia della “Milano di una volta”. Ho già scritto, da milanese di lungo corso, che la Milano di una volta era peggiore di questa, più triste e sdrucita, come se strascicasse oltre il lecito un infinito dopoguerra.
Né l’idillio delle vecchie “case di ringhiera” (edifici malsani e promiscui ora riattati da fior di architetti, e abitati da sciure abbienti che sperimentano l’incompatibilità tra le ruote di
bicicletta e gli acciottolati di quei cortili), o dei Navigli che Delio Tessa metteva in poesia per dire quanto puzzavano, e Ivan Della Mea malediceva come “acqua marcia”, basta a far dubitare del presente.
È il futuro che è in discussione, e lo è anche alla luce di una vicenda, quella del Leoncavallo, che può sembrare “di nicchia” solo a chi conosce poco e male Milano. C’è una “produttività”, nella storia del Leoncavallo, che è parecchio milanese. Produrre socialità e cultura non è un piatto pronto, è un lavoro, in genere un lavoro lungo. La riottosità improduttiva e ombelicale che viene facile imputare a molte manifestazioni del cosiddetto mondo antagonista, al Leonka ha avuto vita breve. La storia politica di questa grande e anomala bottega milanese è, da quasi subito, inclusiva prima di tutto nei propri confronti: aperta al quartiere, ai movimenti e ai partiti della sinistra radicale e non extraparlamentare (leader del Leonka sono finiti, meritatamente aggiungo, in Parlamento), alla galassia della sperimentazione artistica, teatrale, musicale, letteraria. La mozione “aprire le porte” ha sempre avuto la meglio, e se pensate al settarismo mortifero che ha ammazzato in culla tanta sinistra ultrà, viene quasi da dire che il Leonka, nel vasto e difforme campionario dei centri sociali, è una specie di eccezione “riformista”, ancora una volta molto milanese.
Certo il Leoncavallo, nelle sue varie fisionomie e rinascite, e in virtù della sua natura “di quartiere”, poteva sempre rimandare in qualche maniera a una fisionomia popolare milanese classica, come se il dna della bocciofila e del circolo Arci si rigenerasse nelle forme tatuate e graffitare delle nuove generazioni urbane di
tutto l’Occidente. Una capacità mutagena che dovrebbe far sobbalzare urbanisti, sociologi e soprattutto politici: quanto è preziosa, quanto utile la differenza? Quanto ci piace immaginare una Milano senza o con Leoncavallo? Quanto pesa, in tutta questa discussione, l’aspetto legalitario, che da solo non è mai bastato (lungo i millenni) a stabilire con nettezza il confine tra il giusto e l’ingiusto, la ragione e il torto? E quanto l’aspetto politico, ovvero la presa d’atto che “ai margini”, in uno spazio ricavato scavando dentro le dimenticanze del capitale, nei recessi dello sfitto, dell’inutilizzato, del postindustriale, possono fiorire la socialità, l’incontro, la cultura?
La ciancia puerile del Salvini e di quella parte ahimè dominante della destra che odia ogni forma di vita al di fuori di se stessa (perché la teme) sono cose scontate. Cose da fascisti, per dirla tutta. Esultano per lo sfratto del Leoncavallo, esultano per le fatiche giudiziarie di Milano, esultano per tutto ciò che giova alla loro cieca e modesta spedizione punitiva. Borghesucci improvvisati che invocano la legge solo quando giova ai propri comodi, e la scansano (Casa Pound!) quando tira in ballo anche il proprio dovere.
È la sinistra, tutta quanta, in primis il centrosinistra milanese che deve decidere se “Leoncavallo” è il nome di una scomodità oppure di una occasione. Se quel percorso impuro, anomalo, anche illegale, rappresenta una parte di città che merita di avere voce, o se il piano regolatore del futuro deve essere scritto solo da chi ha già voce in capitolo, e organizza lo skyline. Non è una scelta facile. Da milanese che confida nell’intuito generoso e futurista della sua città, spero, o mi illudo, che Milano non si dimentichi del SUO Leonka.

(da Repubblica)

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IL PARADISO DELLA MADDALENA DEVASTATO DAI “CAFONAUTI” DEGLI YACHT DEL TURISMO DI LUSSO: SANZIONI NON OLTRE I 51 EURO MENTRE IN FRANCIA SI ARRIVA A 100MILA EURO DI MULTA

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

LO “STUPRO” ALLA SPIAGGIA ROSA DI BUDELLI, LE CODE A CAPRERA (“OTTOCENTO AUTO AL GIORNO, SENZA VIE DI FUGA IN CASO D’INCENDIO. COME SI FA?”) E L’EVASIONE DA PARTE DEI PROPRIETARI DI BARCHE DELL’OBOLO DA PAGARE PER L’ACCESSO NELLE ACQUE DELL’ARCIPELAGO

«Spiaggia sabbiosa, selvaggia e incontaminata». Sì, ciao. Trent’anni fa, forse. O in pieno inverno. Basta una foto postata tre giorni fa della cala Bassa Trinita per masticare amaro sulla citazione di TripAdvisor: un tappeto fitto fitto di decine di tende, sdrai e ombrelloni ammucchiati fino all’inverosimile in pochi metri di battigia.
Centomila euro di multa, ha rifilato un giudice francese, a giugno, agli armatori di un catamarano che aveva gettato l’ancora sulla prateria sottomarina davanti alle isole Riou e Plane nel Parc National des Calanques: 50 mila di sanzione, 49 mila di risarcimento alla riserva naturale più indennizzi vari ad associazioni ambientaliste.
Peggio ancora. «La posidonia, infatti, svolge un ruolo chiave nella stabilizzazione dei fondali, nella produzione di ossigeno e nella protezione della biodiversità marina», ha scritto solovela.net, «Ogni danno causato da ancoraggi inappropriati in queste aree può risultare devastante e irreversibile nel lungo periodo». Rileggiamo: irreversibile.
Fossero stati beccati alla Maddalena? «Avrebbero pagato, temo, solo 51 euro», sospira Giulio Plastina, direttore del Parco Nazionale istituito 31 anni fa ma mai dotato degli strumenti necessari per operare sul serio: «Il divieto di gettare l’ancora sulla prateria di posidonia c’è, ma quando l’Italia fece sue le direttive comunitarie, non pensò al regime sanzionatorio…» Risultato: chi fa il furbo rischia otto volte meno della multa massima per sosta vietata di un’auto.
Ma si può trattare così un paradiso terrestre? Le immagini di questi giorni, quelle centinaia di motoscafi, gommoni e panfili
appiccicati l’uno l’altro nelle «piscine naturali» di Cala Coticcio, Cala Corsara o Cala Spalmatore (dove è stato avvistato lo yacht «La pausa» di Daniela Santanchè e Ignazio La Russa e dove giacciono preziosi resti archeologici) tolgono il fiato. E così quelle dei bagnanti scaricati a frotte ogni giorno dai barconi turistici sulle spiagge più a rischio come quella di Santa Maria, a dispetto dei limiti messi nel ‘19 dal Piano Utilizzo Litorali del Comune.
Limiti violati così brutalmente sulla Spiaggia del Cavaliere di Budelli da spingere nel ‘22 al totale divieto di calpestio «essendosi ridotta di circa la metà per l’asportazione di considerevoli quantità di sabbia». Uno stupro che già aveva costretto il parco a chiudere l’accesso alla celebre «Spiaggia Rosa».
«Sono avvelenata», tuona Rosanna Giudice, l’ex sindaco de La Maddalena nominata da poco presidente del parco dopo una spossante vacatio: «Questo turismo implosivo, fastidioso e ingestibile a terra e a mare non può essere più consentito. Non così. Lo dico per i cittadini dell’arcipelago e per tutti gli italiani. Troppo, troppo! Io rappresento il Ministero dell’Ambiente: che devo fare? Quando si è malati bisogna tagliare. Per salvare il resto, bisogna tagliare. Ecco il punto».
Vale per l’isola centrale, vale per quelle minori («Sono appena andata a Santa Maria: un formicaio. Non c’è più la spiaggia che conoscevo. Abbiate pazienza: si vede la terra, la roccia con le radici dei ginepri che emergono dalla sabbia. Da brividi: quello che perdiamo come sabbia non lo recuperiamo più. Ho detto: portatemi via sennò affogo qualcuno»), vale per Caprera: «Sette
o ottocento auto al giorno. Senza vie di fuga in caso d’incendio. Come si fa? Non voglio far la parte del giustiziere della notte e dare un colpo di mannaia, ma una svolta è indispensabile».
La riserva deve fare i conti con una flottiglia di «30 mila imbarcazioni, natanti e navi da diporto che ogni anno frequentano l’area marina» quasi impossibili oggi da controllare
Pochi dati: con un 37° degli abitanti italiani, la Sardegna ha un nono dei posti barca nazionali. E di questi il 47% è in Gallura, che pure rappresenta solo un quinto (scarso) della regione e un sesto delle coste. Una concentrazione fortunata indice di benessere, dirà qualcuno.
Ma è davvero così? «Abbiamo in cassa 20 milioni di euro, pronti per essere spesi, ma siamo paralizzati dall’assenza di ogni autonomia gestionale, dalla impossibilità di assumere, dall’obbligo di ricorrere a convenzioni che ci costano il 40% di più, dalla mancanza di un Cda che deve essere insediato e non si insedia — si sfoga Giulio Plastina — È incredibile ma non possiamo fare nulla. Mentre insistono interessi del turismo nautico che sono pazzeschi. Ogni anno arrivano decine di barche, di catamarani, di imprese che investono milioni e milioni di euro e io inizio a farmi una domanda: ma da dove arrivano tutte queste società? E noi qui, con la fionda contro i titani… Moscerini, ecco cosa siamo. E ci vogliono così. Il sistema ci vuole così. Non dobbiamo dare fastidio, non dobbiamo metterci di traverso…».
Un dettaglio dice tutto: l’evasione da parte dei proprietari di barche dell’obbligo di pagare, anche on-line, l’accesso nelle acque dello stupendo arcipelago (un gommone di 5 metri paga
intorno ai 10 euro al giorno, uno yacht di 30 sui 400) viene stimata dalle stesse autorità del parco tra il 30 e il 35%. Con una falla nelle casse del parco superiore ai 700 mila euro l’anno.
Eppure con metà di quei soldi e con regole diverse potrebbero essere assunti decine di ragazzi in grado di far rispettare davvero le norme. E dare al Parco, a chi lavora col turismo (e sono tanti) nel modo più corretto e più ancora ai turisti stessi un futuro vero. Rispettoso dei diritti, dei sogni, degli interessi di tutti. A partire, ovvio, dall’ambiente.
Gian Antonio Stella
per corriere.it

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IL 79ENNE DONALD TRUMP È MESSO PEGGIO DELLA SORA LELLA, LE SUE CAVIGLIE SONO GONFIE COME DEI PALLONCINI: LE FOTO SCATTATE DURANTE L’INCONTRO CON PUTIN AUMENTANO GLI INTERROGATIVI SULLA SALUTE DEL PRESIDENTE AMERICANO, CHE SOFFRE DI “UN’INSUFFICIENZA VENOSA CRONICA”

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

IL MONDO È IN MANO A UNA MANICA DI VECCHI CHE CADONO A PEZZI: ALL’INCONTRO PUTIN SI È PORTATO UN SECCHIO DOVE FARE I “BISOGNI” PER NON LASCIAR TRACCE (QUALE MALATTIA NASCONDE?”)

Dopo i lividi alle mani e il mistero del catetere nascosto sotto i pantaloni, le incerte condizioni di salute del presidente degli
Stati Uniti Donald Trump hanno generato un nuovo caso: le caviglie ancora gonfie. Lawrence O’Donnell, conduttore star di un programma notturno su Msnbc e tra i pochi a sfidare il tycoon senza paura di essere intimidito, ha mostrato una serie di foto, tra cui quelle che ritraevano Trump, a febbraio, assieme al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e nel recente summit in Alaska con il presidente russo Vladimir Putin, invitando a fare attenzione a un particolare: le caviglie. In entrambe le immagini quelle di Trump appaiono gonfie, un segnale che confermerebbe l’aggravarsi della patologia di cui il tycoon, che ha compiuto 79 anni, soffre.
Dopo aver dichiarato per mesi che “non si era mai visto un presidente in condizioni così ottime”, a luglio la Casa Bianca ha ammesso che The Donald soffre di problemi alla circolazione venosa nelle gambe. E’ stata diagnostica una “insufficienza venosa cronica”, una condizione comune a molte persone che hanno superato i 70 anni.
La polemica nasce anche dal fatto che Trump non ha mai voluto rendere pubbliche le sue schede mediche, autocelebrandosi come uno con la salute di Superman, ma finendo per alimentare sospetti.
Ma in un’immagine scattata dai fotografati ad Anchorage, il presidente russo Vladimir Putin, 72 anni, appare con caviglie sottili. Mentre Trump le ha enormi. Il tycoon si è infuriato, attaccando O’Donnell e la sua rete televisiva. “Msnbc – ha scritto su Truth tutto in maiuscolo – sta andando così male negli ascolti che stanno pensando di cambiare nome per cercare di allontanarsi dal fetore del loro prodotto di fake news”.
Ma da oggi molti faranno attenzione alle sue caviglie: il tycoon continuerà a parlare seduto dietro la scrivania? Il fatto che ogni giorno firmi un ordine esecutivo seduto alla scrivania, per poi rispondere alle domande dei giornalisti, comincia a non essere visto più come una coincidenza.
Ad accelerare il declino fisico del presidente è la sua dieta, fatta di untuosi Big Mac e una decina di lattine di Diet Coke. La base trumpiana appare preoccupata. Il cospirazionista di destra Alex Jones, conduttore di Infowars, ha invitato Trump a “tirare il freno” e a “distrarsi”, giocando di più a golf, cosa che Trump fa ogni settimana. “Sta tenendo – ha detto – ritmi pazzeschi, invece ha bisogno di riposarsi. Al ritmo con cui viaggia e lavora avrà un collasso entro i prossimi dodici mesi”.
(da agenzie)

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“L’ULTIMA VOLTA CHE L’HO VISTO, SAPEVA DI ESSERE SPACCIATO”: PARLA L’85ENNE VIOLETTA PRIGOZHINA, MAMMA DI PRIGOZHIN, EX CAPO DELLA BRIGATA WAGNER CHE HA TENTATO DI ROVESCIARE IL REGIME DI PUTIN

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

COME PREVISTO, IL JET DEL MERCENARIO VENNE ABBATTUTO NELL’ESTATE DEL 2023

Il defunto leader dei mercenari Wagner, Yevgeny Prigozhin, sapeva di essere «spacciato» dopo il fallito ammutinamento contro Vladimir Putin, e aveva detto alla madre che si aspettava di morire, pochi giorni prima che il suo jet privato si schiantasse nell’estate del 2023, due mesi dopo che i suoi combattenti avevano brevemente preso il controllo della città meridionale di Rostov sul Don e avanzato verso Mosca in una ribellione di breve durata contro la leadership militare russa.
«L’ultima volta che l’ho visto, sembrava spacciato», ha detto Violetta Prigozhina, 85 anni, in un’intervista al quotidiano russo Fontanka e rilanciata dal Guardian, ricordando l’ultimo incontro avuto con il figlio una settimana prima del disastro aereo. Alla domanda se avesse previsto la sua morte, ha risposto: «Certamente».
Prigozhina, nella prima intervista rilasciata da un parente stretto del defunto leader Wagner, ha affermato che le autorità non le hanno ancora detto cosa sia successo veramente a suo figlio, sottolineando di aver cercato di dissuadere il figlio dal marciare su Mosca, avvertendolo che aveva sopravvalutato l’entità del suo sostegno.
«Non aveva alcuna intenzione di rovesciare Putin, assolutamente no. Voleva solo raggiungere i vertici militari», ha detto la madre del leader mercenario, sostenendo che suo figlio aveva deciso di fermare la marcia su Mosca per evitare ulteriori spargimenti di sangue tra le truppe russe
Dopo la morte di Prigozhin, le autorità russe si sono mosse rapidamente per impossessarsi del suo vasto impero commerciale, che si estendeva ben oltre le operazioni mercenarie. Le sue forze Wagner, che operavano principalmente in Africa e sono state accusate di atrocità di massa, sono state da allora assorbite nelle strutture statali russe e continuano a operare sotto il nome di Africa Corps.
(da agenzie)

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L’AUTOSABOTAGGIO DI TRUMP CONTINUA: È STATO LICENZIATO IL CAPO DELL’AGENZIA D’INTELLIGENCE DEL PENTAGONO, JEFFREY KRUSE, PER UN REPORT SUL NUCLEARE IN IRAN

Agosto 23rd, 2025 Riccardo Fucile

NEL DOCUMENTO IL GENERALE AFFERMAVA CHE I PIANI NUCLEARI DI TEHERAN CON L’ATTACCO STATUNITENSE VENIVANO RIMANDATI “SOLTANTO DI MESI” DOPO CHE TRUMP PARLAVA INVECE DI “ANNIENTAMENTO TOTALE”

Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Pete Hegseth ha licenziato il capo dell’agenzia di intelligence del Pentagono Jeffrey Kruse e altri due alti comandanti militari. (
Non è stato spiegato ufficialmente il motivo per cui il tenente generale Kruse, che guidava la Defense Intelligence Agency, è stato rimosso dall’incarico.
Sebbene non siano state fornite spiegazioni ufficiali, la mossa ha lo scopo di punire i funzionari dell’intelligence, dell’esercito e delle forze dell’ordine le cui opinioni sono in contrasto con
quelle di Trump. Il licenziamento di Kruse è arrivato dopo la pubblicazione di un rapporto a suo nome che stimava che l’attacco degli Stati Uniti all’Iran aveva ritardato il suo programma nucleare di soli mesi, in contrasto con le dichiarazioni di Trump di «annientamento totale».
Da quando è tornato al potere, Donald Trump ha licenziato di numerosi alti funzionari del Pentagono, a partire dal capo di stato maggiore congiunto, Charles Brown, che è stato licenziato a febbraio senza fornire spiegazioni.
(da agenzie)

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