Destra di Popolo.net

UN PO’ PIU’ DI RISPETTO SE LO MERITAVA GIORGIO ARMANI DA PARTE DEL GOVERNO: SOLO IL MINISTRO DELL’UNIVERSITA’, ANNA MARIA BERNINI, HA RESO OMAGGIO ALL’ITALIANO PIU’ CONOSCIUTO AL MONDO RECANDOSI ALLA CAMERA ARDENTE DOVE, TRA SABATO E DOMENICA, SONO SFILATE BEN 16 MILA PERSONE

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

EPPURE MILANO E’ A DUE PASSI DA MONZA, DOVE IERI ERA PRESENTE AL GP, OLTRE AL VICEPREMIER MATTEO SALVINI, IL MINISTRO DELLO SPORT ANDREA ABODI, SMEMORATO DEL PROFONDO LEGAME DELLO STILISTA CON BASKET, CALCIO, TENNIS E SCI … A 54 KM DA MILANO, CERNOBBIO HA OSPITATO NEL WEEKEND GIORGETTI, TAJANI, PICHETTO FRATIN, PIANTEDOSI, CALDERONE E SOPRATTUTTO ADOLFO URSO, MINISTRO DEL MADE IN ITALY, DI CUI ARMANI E’ L’ICONA PIU’ SPLENDENTE … E IGNAZIO LA RUSSA, SECONDA CARICA DELLO STATO, DOMENICA ERA A LA SPEZIA A PARLARE DI ”PATRIOTI”

Un po’ piu’ di rispetto se lo meritava Giorgio Armani da parte del governo. Solo il ministro dell’Università, Anna Maria Bernini, ha reso omaggio all’italiano più conosciuto al mondo recandosi alla camera ardente dove, tra sabato e domenica, sono sfilate ben 16 mila persone.
Eppure Milano è a due passi da Monza, dove ieri era presente al Gran premio di Formula 1, oltre al vicepremier Matteo Salvini, anche il ministro dello sport Andrea Abodi, smemorato del profondo legame dello stilista con basket, calcio, tennis e sci.
A 54 km da Milano c’è Cernobbio, che ha ospitato nel weekend Giorgetti, Tajani, Pichetto Fratin, Piantedosi, Calderone e soprattutto Adolfo Urso, ministro del Made in Italy, di cui Armani è l’icona piu’ splendente. Senza dimenticare che lo stilista è uno dei pochissimi che non ha venduto il suo brand a gruppi stranieri e ha creato una fondazione per blindare l’azienda da possibili “aggressioni” dall’estero.
E Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, domenica era a La Spezia a parlare di patrioti.
Al di là dei banalissimi post e articoletti (come ha fatto Giorgia Meloni sul “Corriere” per ricordare perché ha scelto un tailleur Armani per salire al Quirinale), un omaggio di persona, Giorgio Armani lo meritava tutto dal governo di centrodestra perché lo stilista sì che è stato un vero “patriota”, avendo sempre preservato l’italianità del suo impero rifiutando le avances di capitali esteri.
(da agenzie)

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QUANTO AVRA’ ROSICATO TRUMP, FISCHIATISSIMO ALLA FINALE DEGLI US OPEN, PER GLI APPLAUSI CHE IL PUBBLICO DI NEW YORK HA RISERVATO A BRUCE SPRINGSTEEN, SUO NEMICO GIURATO, QUANDO LE TELECAMERE HANNO RIPRESO LA FACCIA FELICE DEL CANTANTE?

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

LA FEDERAZIONE AMERICANA DEL TENNIS AVEVA CHIESTO ALLE TELEVISIONI DI NON TRASMETTERE EVENTUALI CONTESTAZIONI … NEW YORK È UNA CITTÀ LIBERAL E NON LO AMA TANTO PIÙ CHE TRUMP STA MINACCIANDO DI MANDARE LA GUARDIA NAZIONALE NELLE STRADE PER RIPORTARE L’ORDINE, E VUOLE IMPICCIARSI DELLE ELEZIONI PER IL NUOVO SINDACO IN PROGRAMMA IL 4 NOVEMBRE, PER OSTACOLARE IL DEMOCRATICO ZOHRAN MAMDANI, CHE HA DEFINITO “UN PERICOLOSO COMUNISTA”

Niente da fare. La Usta, la federazione americana del tennis, aveva chiesto alle televisioni di non trasmettere le probabili obiezioni della liberal New York alla passerella sportiva del presidente Trump, e loro avevano accettato di ubbidire.
Però, quando alle 2 e 32 minuti del pomeriggio la faccia del capo della Casa Bianca è apparsa sugli schermi dell’Arthur Ashe Stadium, proprio mentre il sergente maggiore Carla Loy cantava l’inno, l’onda dei “buu” del pubblico pagante è diventata inequivocabile, almeno per chi guardava a bordo campo. Non assoluta, non totale, ma forte e chiara.
E tutto sommato ci stava pure, perché Trump frequenta spesso i grandi eventi sportivi in quanto sono un veicolo di pubblicità, non necessariamente per la sua passione che va poco oltre il golf. Perciò, se ti esponi a gioie e dolori della frequentazione del pubblico, poi devi accettare che siano appunto gioie e dolori.
Il presidente è andato a vedere la finale non invitato dagli organizzatori, che preferiscono in genere tenersi fuori dalla politica, ma dalla Rolex. E già questo ha fatto discutere, considerando che la Svizzera è stata una delle nazioni più colpite dai dazi, e magari così spera di recuperare un po’ di punti. Trump aveva un palco agli Open, con la sua compagnia, che ha conservato fino al 2017.
L’amore però era finito nel 2015, quando era venuto a vedere la sfida fra Serena e Venus Williams da candidato alla Casa Bianca contro l’ex senatrice di New York Hillary Clinton, e i fischi erano stati anche più forti di ieri.
Il presidente è arrivato verso l’una e mezza, con le misure di sicurezza che hanno complicato l’ingresso degli spettatori,
obbligando gli organizzatori a ritardare di trenta minuti l’inizio della finale. Si è affacciato sul campo, per prudenza, quando era mezzo vuoto, magari con l’idea di limitare i danni di immagine. Quando però la sua faccia vicino all’inviato speciale Witkoff è ricomparsa sugli schermi, alla fine del primo set stravinto da Alcaraz, le urla di disapprovazione sono diventate assordanti, costringendolo ad un sorrisetto, come per rispondere che non gli avevano fatto nulla.
E quanto gli sarà ribollito il sangue, sentendo invece gli applausi riservati a Bruce Springsteen, suo nemico giurato, quando le telecamere hanno ripreso la faccia felice del cantante. Chissà poi se tutto questo non abbia avuto qualche effetto anche sul cuore dei tifosi, visto che Sinner aveva evitato di commentare la politica, mentre Alcaraz si era detto onorato di avere il presidente in tribuna.
New York è una città liberal e non sorprende che non abbia mai amato questo suo figlio diverso. Però ora Trump sta minacciando di mandare la Guardia Nazionale nelle strade per riportare l’ordine, nonostante la criminalità sia in calo, e vuole impicciarsi delle elezioni per il nuovo sindaco in programma il 4 novembre, per deragliare la candidatura del democratico Zohran Mamdani, che ha definito «un pericoloso comunista».
New York non ama sentirsi dire cosa fare, da nessuno, perciò risponde. Senza paura, senza riverenza, ascoltando solo la propria testa e la propria pancia.
(da repubblica.it )

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VELASCO HA COSTRUITO L’INVINCIBILE ITALVOLLEY CON LA LEZIONE DEL SUO AMATO TANGO CHE È “SAPER CAMMINARE ABBRACCIATI”

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

“SI DEVE ESSERE CONSAPEVOLI CHE NESSUNO, MAI, È IL CENTRO DEL MONDO. GIOCHIAMO DI SQUADRA PERCHÉ SI RENDE DI PIÙ. E ANCHE PERCHÉ SIAMO MENO SOLI NEI MOMENTI DIFFICILI”… LE INCREDIBILI RAGAZZE DELLA PALLAVOLO SEMBRAVANO AVER METABOLIZZATO LA LEZIONE DI VELASCO. HANNO CAMMINATO ABBRACCIATE. SONO SEMPRE SEMBRATE UNA COMUNITÀ, NON LA SOMMA DI EGOCENTRISMI

Sappiamo tutti che Julio Velasco è un grande allenatore. Ha vinto tutto, ovunque. Non sempre, perché nessuno vince sempre. Tutti sanno pure che Julio Velasco è un grand’uomo. Lo conosco da tanti anni e ne ho sempre ammirato la capacità di leggere le cose, le persone, di esercitare la leadership con la sapienza di chi conosce la differenza tra guida e dominio, tra autorevolezza e autoritarismo.
Quando ha iniziato ad allenare la Nazionale di pallavolo femminile quella comunità di campionesse e di ragazze intelligenti era finita in un gorgo di problemi e di conflitti. A guardarle in questi Mondiali — robuste, allegre e sicure —, mi è sembrato di vedere la «forza tranquilla» di Julio.
Lui è un uomo che ha conosciuto la sofferenza del suo Pese, l’Argentina, nel tempo in cui tanti ragazzi che non obbedivano al regime militare furono fatti sparire. Tra loro c’era suo fratello, che fu preso, torturato e tenuto in carcere per quaranta giorni.
C’è il segno anche di quella paura, di quel dolore, nella forte coscienza civile di Julio Velasco e la si ritrova, a ben guardare, anche nel suo modo di concepire lo sport e di allenare una squadra di giovani.
Tutti talenti, ma bisogna farli diventare una comunità. Devi rafforzarli nella coscienza delle loro capacità, ma farli sentire un gruppo coeso. Una volta mi disse: «Noi abbiamo sempre bisogno di avere autostima forte. Se hai troppi dubbi, i giocatori se ne accorgono. Anche i grandi campioni devono avere autostima, devono sopportare le pressioni.
Ma la differenza decisiva sta tra l’avere una grande autostima ed essere egocentrici. Uno può avere una grande autostima e capire però che ci sono anche altri bravi, forse più bravi di te. Si deve essere consapevoli che nessuno, mai, è il centro del mondo… Giochiamo di squadra perché è più efficiente, perché si rende di più. Anche perché siamo meno soli nei momenti difficili».
Le incredibili ragazze della pallavolo, hanno vinto loro facendo innamorare l’Italia, sembravano aver metabolizzato la lezione di Velasco. Cadevano, si rialzavano, combattevano, ma sono sempre sembrate una comunità, non la somma di egocentrismi.
Sono state decise, e allegre, come il loro allenatore. Che appare spesso malinconico come un tango della sua terra, quella danza che sarà pure «un pensiero triste che si balla». Ma preferisco la definizione di un grande maestro di quel ballo, Carlos Gavito: «Il tango è saper camminare abbracciati».
Così hanno fatto le ragazze, guidate da Julio Velasco, maestro di sapienza civile e sportiva.
(da corriere.it)

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NELL’AMERICA AUTOCRATICA DI TRUMP, CHI CRITICA IL PRESIDENTE PAGA PEGNO: L’ACCADEMIA MILITARE DI WEST POINT ANNULLA LA CERIMONIA IN ONORE DI TOM HANKS PERCHE’ “COLPEVOLE” DI AVER SOSTENUTO JOE BIDEN E KAMALA HARRIS

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

L’ATTORE, CHE HA RECITATO NEL CELEBRE “SALVATE IL SOLDATO RYAN”, DOVEVA RICEVERE UN PREMIO PER IL SUO IMPEGNO A SOSTEGNO DEI VETERANI

Anche Tom Hanks è caduto vittima delle vendette di Donald Trump e della crociata contro la cultura woke del capo del Pentagono Hegseth. L’Accademia militare di West Point ha cancellato la cerimonia in programma il 25 settembre, in cui l’attore protagonista di “Saving Private Ryan”, impegnato attivista a favore dei veterani, avrebbe dovuto ricevere il prestigioso Sylvanus Thayer Award, riservato a cittadini che non hanno frequentato la scuola per gli allievi ufficiali, ma si sono comunque distinti nell’applicazione dei suoi ideali “Duty, Honor, Country”, ossia dovere, onore, patria.
Secondo quanto ha rivelato il Washington Post, l’associazione degli ex studenti dell’Accademia Militare degli Stati Uniti di West Point ha annullato la cerimonia di “citando il desiderio che l’accademia militare si concentri sulla preparazione dei futuri ufficiali alla guerra, dopo diverse controversie politiche che hanno coinvolto l’amministrazione Trump e hanno scosso l’istituzione quest’anno”.
Il colonnello in pensione dell’esercito Mark Bieger, presidente e amministratore delegato della West Point Association of Graduates, ha reso nota la decisione in un’e-mail al corpo
docente diffusa venerdì. Una copia del messaggio di Bieger è stata esaminata e verificata dal Washington Post.
Quindi il giornale ha aggiunto: “Bieger ha scritto che l’associazione degli ex studenti, in coordinamento con l’accademia, non terrà la cerimonia di consegna del premio Thayer come originariamente previsto e si è scusata per l’annullamento. L’email non specifica se il premio di Hanks sia stato revocato o se verrà assegnato in un altro formato”.
La scelta, secondo il Post, è stata spiegata così: “Questa decisione consente all’Accademia di continuare a concentrarsi sulla sua missione principale: preparare i cadetti a guidare, combattere e vincere come ufficiali nella forza più letale del mondo, l’esercito degli Stati Uniti”, ha scritto Bieger, che ha ricevuto una Silver Star per il valore in combattimento in Iraq.
La verità è che Hanks ha commesso il peccato mortale di appoggiare la campagna presidenziale di Joe Biden, e questo agli occhi dell’amministrazione Trump è imperdonabile. Qualunque cosa di buono abbia fatto per i militari, i veterani o l’America, sparisce, e così si annulla anche qualsiasi ragione per premiarlo.
(da agenzie)

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“AVETE IL POTERE DI ROVESCIARE IL GOVERNO MA NON DI CANCELLARE LA REALTÀ”: IL DISCORSO DI FRANCOIS BAYROU, CHE PROBABILMENTE VERRA’ SFIDUCIATO DAL PARLAMENTO (IL RISULTATO DEL VOTO DOPO LE 19)

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

IL PRIMO MINISTRO HA RICHIESTO LA FIDUCIA DEL PARLAMENTO DOPO AVER PRESENTATO UNA FINANZIARIA LACRIME E SANGUE CHE TAGLIA 44 MILIARDI DI SPESA PUBBLICA… NEL SUO INTERVENTO, BAYROU ELENCA I PROBLEMI DELLA FRANCIA: “LA NOSTRA NAZIONE È UNA CATTEDRALE DA RICOSTRUIRE, MA NON ABBIAMO UN BILANCIO IN PAREGGIO DA 51 ANNI, SPENDIAMO MA I SOLDI NON TORNANO MAI INDIETRO”

Il primo ministro francese, François Bayrou, ha preso la parola davanti all’Assemblée Nationale prima dell’atteso voto sulla fiducia che potrebbe segnare la fine del suo governo. Con il sottofondo di un forte brusio e con una marcata raucedine, Bayrou ha esordito: “Ho voluto io questa prova. Il rischio più grande sarebbe stato non correre rischi”. Il premier francese ha poi aggiunto: “Avete il potere di rovesciare il governo ma non di cancellare la realtà”
“Sono stato io a volere questo appuntamento e alcuni di voi, la maggior parte, probabilmente i più saggi, hanno pensato che fosse irragionevole, che fosse un rischio troppo grande – ha detto Bayrou – Ora, io penso esattamente il contrario”.
Il voto, previsto a porte chiuse, si svolgerà nel pomeriggio e i risultati non saranno resi noti prima delle 19. L’esito, salvo colpi di scena, sembra scontato: con l’opposizione unita nel voto contrario, Bayrou si appresta a diventare il primo premier della Quinta Repubblica a cadere dopo aver richiesto la fiducia del Parlamento.
Bayrou ha poi passato in rassegna quelli che ha definito i problemi della Francia: il calo di produzione del paese “fin dal 2000”, la formazione dei giovani e una scuola che non garantisce “l’eguaglianza delle possibilità” per tutti, una crisi degli alloggi, l’emergenza climatica, di sicurezza, di migrazioni e di integrazione, di squilibri fra grandi città e “deserti rurali” e una questione legata alla vita nei Territori francesi d’Oltremare.
“La Francia – ha detto Bayrou – è una magnifica cattedrale da ricostruire. Tutte queste questioni sono oggi condizionate alla capacità di controllare le nostre spese e a una questione fondamentale ovvero il problema del controllo del nostro eccessivo indebitamento.
“Il Paese non ha un bilancio in pareggio da 51 anni, spendiamo ma non torniamo mai indietro. È diventato un riflesso e, peggio ancora, una dipendenza”, ha detto il premier francese. E la riduzione del debito è una “questione di urgenza vitale” per la Francia.
Secondo Bayrou, con il suo piano in quattro anni, “il nostro debito non aumenterà più. E se il debito non aumenta più, allora il lavoro dei francesi, la loro inventiva, la loro creatività, la loro fiducia ritrovata rimetteranno il paese in marcia”.
(da agenzie)

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FRANCIA, L’ORA X PER IL GOVERNO BAYROU E PER MACRON

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

OGGI IL VOTO DALLL’ESITO SCONTATO E MACRON CERCA GIA’ UN ALTRO PREMIER… IL MOVIMENTO BLOQUON TOUT SI PREPARA ALLA PROTESTA DEL 10 SETTEMBRE

L’ora X è arrivata. Oggi, lunedì 8 settembre, François Bayrou salirà sul podio dell’Assemblea Nazionale per affrontare un voto di fiducia. Sarà il primo capo di governo della Quinta
Repubblica a doverlo fare, spiega oggi l’agenzia France Press, proprio mentre tutti gli occhi sono di nuovo puntati su Emmanuel Macron. Le president cerca il suo terzo primo ministro dal voto per l’Assemblea Nazionale dopo il suo scioglimento. Intanto, a quarantott’ore dalla protesta che promette di paralizzare la Francia per un giorno, il movimento «Bloquons tout» sta monopolizzando il dibattito pubblico. E in Francia c’è chi dice chiaramente che il problema è proprio Macron. E che solo con un cambio all’Eliseo il paese ritroverà la sua stabilità politica.
Il voto di fiducia per Bayrou
L’appuntamento è per le 15 a Parigi. E il verdetto è annunciato, a meno di grandi sorprese nel voto previsto per stasera. Di fronte ai veti incrociati a sinistra e a destra, Bayrou sa che la fine del suo mandato è imminente. Tanto da aver già salutato i suoi ministri in un «momento conviviale» a Matignon. Il primo ministro lavora da diversi giorni al suo discorso. Nel quale punterà sul sovraindebitamento, che ai suoi occhi rende necessaria una manovra da 44 miliardi di euro per il 2026. Una manovra molto rischiosa e un suicidio politico, secondo l’ex presidente Sarcozy. Il suo mandato è segnato anche dal tentativo di riformare le pensioni e dall’affaire Bétharram. Le trattative per la sostituzione sono già in pieno svolgimento. Mentre all’orizzonte si stagliano anche le proteste sindacali annunciate per il 18 settembre e il giudizio sul debito in arrivo da Fitch.
(da agenzie)

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MELONI, SCHLEIN E IL PARADOSSO REGIONI

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

LA TANTO CRITICATA ELLY RIESCE A PRESENTARE IL CAMPO LARGO OVUNQUE, LA PREMIER NON RIESCE ANCORA A COMPORRE LE LITI INTERNE PER LE CANDIDATURE

Paradossi della leadership. Elly Schlein, la presunta Cenerentola ostracizzata dai suoi nemici interni, bullizzata dagli alleati M5S, intortata dalle manovre dei vecchi cacicchi Pd, festeggia il primo weekend di settembre con una lista di candidati presidenti alle Regionali completa e competitiva, che recupera praticamente ogni scheggia del suo mondo compresa la gran parte del vecchio Terzo Polo, oltreché il movimento di Giuseppe Conte.
Giorgia Meloni, sovrana dei sondaggi e padrona indiscussa della maggioranza di centrodestra, è ancora in stand by in ogni territorio, esclusa la Calabria dove Roberto Occhiuto ha fatto tutto da solo (dimissioni e ricandidatura).
Sembra strano, non lo è. A sinistra quindici anni di liti interne, scissioni e contro-scissioni hanno esaurito le energie di ogni singolo contendente: stare insieme è la sola formula non ancora
sperimentata dopo aver dispiegato ogni diverso schema di competizione elettorale. Per di più, la debolezza percepita (probabilmente a torto) della leader del Pd ha reso più facili le intese. Quando sarà il caso o ce ne sarà la necessità, si dicono i molti aspiranti al trono di futuro candidato premier, sarà facile tagliarle la strada e sorpassarla, appropriandosi dell’eredità della sua stagione: un campo largo che nessun altro dei signori sul palcoscenico progressista – non uno del Pd, non Giuseppe Conte, e figuriamoci Matteo Renzi – avrebbe potuto costruire.
A destra la percezione è opposta, Meloni appare come una leader per sempre, il suo bis per la premiership è scontato, farla fuori impossibile. La stessa unità del centrodestra risulta indiscutibile, sono trent’anni che funziona allo stesso modo salvo rare eccezioni, e tutta questa stabilità, prevedibilità, immobilità, consente un solo modulo di gioco: la lotta nella gabbia per spostare o conservare i frammenti di potere ancora contendibili. Da quella parte, insomma, il rebus risulta l’esatto contrario di quello che si è dovuto sciogliere a sinistra. Nella maggioranza di governo c’è e ci sarà di sicuro un accordo. C’è e ci saranno senz’altro candidati comuni. Ma questa cosa così sicura rende incandescente il conflitto su nomi e cognomi e forse la decisione resterà in sospeso fino al 28 settembre, quando i risultati delle Marche decideranno se FdI conserva il suo governatore o se dovrà cercare compensazioni altrove. Così in queste elezioni la principale sfida delle due leader sarà quella di superare il paradosso che le riguarda.
Schlein dovrà dimostrare, con i risultati, di non essere solo l’artefice occasionale di una formula fragile, fondata su un compromesso di necessità, ma la federatrice capace di conservare alla sinistra le sue ultime roccheforti e potenzialmente di estenderle. Meloni, che certo non ha bisogno di rafforzare la sua immagine di comando, dovrà superare la prova della mediazione con alleati insoddisfatti e riottosi che cercano una rivincita personale dopo essere stati messi ai margini del racconto politico nazionale. E dovranno farlo, tutte e due, in uno schema completamente diverso dal recente passato: due poli che si confrontano alla pari, senza poter contare sull’azione di disturbo di terze forze che sfilano voti da una parte o dall’altra. Sarà complicato, sarà interessante, ci dirà dove andrà la politica italiana nei prossimi anni.
(da lastampa.it)

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ITALIA, GLI ADULTI SONO I MENO ISTRUITI NELL’UE E UNO SU QUATTRO E’ A RISCHIO POVERTA’

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

LO RIVELA LO STUDIO THEA AMBROSETTI SULLE DINAMICHE TRA SCUOLA E LAVORO… MALE ANCHE LE COMPETENZE DIGITALI

Il tema della povertà e del rischio di esclusione sociale è entrato, finalmente verrebbeda dire, anche nel luogo dove tutti gli anni si riuniscono imprese, economisti e politici, il Forum Ambrosetti. Dopo aver affrontato la questione dei Neet, dei giovani che, per motivi diversi, né studiano né lavorano, ieri è stato presentato un rapporto sulla povertà educativa, basato su primi risultati di una ricerca svolta congiuntamente dal Gruppo Ambrosetti (Thea Group) e dalla Fondazione Crt, con l’obiettivo sia di comprendere meglio il fenomeno, sia di identificare le migliori pratiche di contrasto della stessa, anche attraverso l’analisi delle esperienze internazionali e definire indicazioni di policy a livello nazionale e progetti pilota a livello territoriale che possano essere riproducibili.
I dati sono tutti noti presi uno per uno. Nel loro insieme disegnano una situazione ad alta problematicità. L’Italia è tra i
paesi Ue con la percentuale più alta (23,1% rispetto alla media) di persone tra i 25 e i 49 anni a rischio di povertà o esclusione sociale, con un divario territoriali nella loro distribuzione più ampio, il che fa sì che le regioni del Sud siano tra le regioni europee con una incidenza maggiore.
I gap di adulti e giovanissimi
La metà di queste persone ha al massimo la licenza della scuola secondaria di primo grado. D’altra parte è noto che gli adulti italiani sono i meno istruiti nella Ue: nelle fasce di età 25-64 anni uno su tre ha al massimo la licenza della secondaria inferiore. E tra le persone di 25-34 anni, solo il 31,6 ha una laurea, a fronte del 44,5% della media europea. Anche tra bambine/i e adolescenti lo sviluppo delle competenze cognitive è nettamente inferiore rispetto alla media Ocse così come misurate dal sistema PISA, e i tassi di abbandono precoce degli studi più alti, pur con forti differenze tra italiani (8,5%) e stranieri Ue (15%) e non Ue (27,4).
Anche le competenze digitali, “la nuova grammatica del lavoro”, sono comparativamente poco diffuse, nonostante tutti possiedano almeno uno smartphone. Tra i giovani fino a 19 anni, i cosiddetti nativi digitali, possiede competenze digitali di base il 56%, a fronte del 73% della media europea. Un dato problematico, non solo perché, come segnala il rapporto, molta domanda di lavoro ormai richiede una qualche competenza digitale e che c’è un gap di quasi 15 punti tra domanda e offerta di competenze digitali, pari a circa 3,4 milioni di occupati. Una competenza digitale di base è necessaria anche per muoversi con consapevolezza nel
modo dell’informazione, della comunicazione in generale e in molte attività quotidiane. Esserne privi è una forma di analfabetismo funzionale che provoca vuoi esclusione, vuoi dipendenza acritica, o entrambe.
La povertà educativa da adulti è conseguenza del non aver incontrato durante gli anni formativi risorse e opportunità di sviluppo delle capacità adeguate. Per questo, in carenza di politiche che, mentre contrastano la povertà materiale ed educativa degli adulti, prevengono che si trasmetta intergenerazionalmente, è destinata a rimanere un dato strutturale della nostra società.
Uno stop alla mobilità sociale
Come segnala anche il rapporto, crescere in un contesto familiare e sociale svantaggiato è in stretta correlazione con uno sviluppo delle competenze più ridotto rispetto ai coetanei più fortunati. Inoltre, anche a parità di competenze raggiunte, incide sulle scelte scolastiche dopo la secondaria di primo grado, innescando circoli viziosi di povertà educativa. Entrambi i fenomeni, che rappresentano un vero e proprio vulnus sia all’articolo 3, secondo comma, sia all’articolo 34 della Costituzione, sono particolarmente accentuati per gli stranieri.
Secondo gli estensori del rapporto, queste dinamiche di povertà educativa contribuiscono a bloccare la mobilità sociale e a indebolire la coesione sociale del paese, oltre a non colmare il gap tra domanda e offerta di lavoro. Stimano che, se invece si riducesse la povertà educativa almeno per quanto riguarda l’istruzione (cui di fatto è largamente assimilata in questo primo
rapporto, nonostante in premessa si parli di fenomeno multidimensionale), si potrebbero generare in Italia fino a oltre 3 milioni di occupati in più.
Si tratta di un rapporto ricco e utile, anche nell’analisi di ciò che viene fatto in altri paesi che da più tempo hanno messo in agenda il contrasto e la prevenzione della povertà educativa, con misure organiche e strutturate. Rimane tuttavia sulla soglia di due questioni a mio parere rilevanti. La prima riguarda la disponibilità effettiva del sistema imprenditoriale italiano ad assorbire a condizioni decenti una offerta di lavoro più qualificata. Sarà certamente vero che molti posti non si riescono a riempire, ma lo è anche il fatto che assistiamo ad una emigrazione di laureati e diplomati che non trovano in Italia opportunità soddisfacenti. La seconda riguarda l’assenza di un’analisi delle condizioni di contesto che disincentivano l’apprendimento e scoraggiano dalla prosecuzione degli studi.
Condizioni che hanno a che fare con la povertà materiale delle famiglie, ma anche con i modelli didattici e la mancanza di risorse culturali, di gioco, sport, verde, relazioni educative extra-familiari ed extra-scolastiche. Come sa chi lavora sul campo, per trattenere a scuola chi è a rischio di uscita precoce e coltivarne il desiderio di apprendere ci vuole molto lavoro, fantasia e capacità di collaborazione tra soggetti diversi (non basta il tutoraggio con l’AI). Ancora di più per chi ne è uscito definitivamente. Da questo punto di vista, a proposito di indicazioni di policy e di esperimenti pilota, le molte iniziative pilota che ha messo in campo in giro per l’Italia, come il Fondo di contrasto alla
povertà educativa minorile, finanziato in larga misura dalle Fondazioni, offrono molte indicazioni su che cosa funziona dove e a quali condizioni, per metterle finalmente a sistema.
(da agenzie)

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CENTO SOLDATI ISRAELIANI OSPITI DI UN RESORT IN SARDEGNA E PROTETTI

Settembre 8th, 2025 Riccardo Fucile

IN UN HOTEL DEL GRUPPO HILTON A SANTA REPARATA SGUARDI DIFFIDENTI, IN PUBBLICO PARLANO TRA LORO IN INGLESE

Immaginate un lounge bar al tramonto con un dj e musica chill out. Il sole che si tuffa fra il mare e una delle coste più suggestive della Sardegna. Ragazzi e ragazze, tutti israeliani, che ballano con cocktail mano. Connazionali più maturi in drappelli, tatuati e ben piazzati, che si scambiano pacche fraterne e selfie. Il contesto è un resort 5 stelle con spiaggia privata, tre ristoranti, piscina a sfioro e Spa. E poi massaggi, pilates, hata yoga. Ecco, da questa distanza, Gaza vi sembrerà lontanissima
Siamo al Mangia’s resort Curio Collections di Santa Teresa di Gallura, hotel del gruppo Hilton. Costo medio 4-500 euro a notte, 200 posti, la metà occupati da un unico gruppo di israeliani. La metà sono single fra i venti e i trent’anni, si conoscono tutti. La località si chiama Santa Reparata, nome perfetto per chi è in cerca di anonimato e cerca un rifugio per rimarginare le ferite di guerra. Chi sono ce lo svela una fonte che lavora nella struttura: “Sono soldati israeliani, purtroppo”. Lo sottolinea due volte: purtroppo. “Sono quelli di cui parlano i giornali. Abbiamo la polizia che sorveglia costantemente l’ingresso. Proteggono loro, ma proteggono anche noi. Alcuni si comportano bene, altri dopo che bevono diventano molesti. Urlano, e insultano, sono arroganti e con segni evidenti di stress. Non sono turisti come tanti. Vanno in gruppo come se fossero in squadra, si guardano le spalle. Ogni sera si vanno a prendere bottiglie da bere a bar chiuso. Un po’ li lasciamo fare, cerchiamo di evitare che la situazione degeneri”.
Accade sotto i nostri occhi. A mezzanotte e mezza, dopo che il pullman che li aveva portati tutti a Santa Teresa li riscarica in albergo, la lobby è piena di vita. Chi scrive è l’unico non israeliano fra israeliani che gozzovigliano. I gruppetti sono diventati un unico gruppone. Si ride, si scherza, si beve. Il bar è chiuso, ma sotto gli occhi vigili e quasi paterni di un uomo più anziano, verrebbe da pensare un ufficiale, le comitive si servono liberamente dal bancone. Sulle prime sono gentili, mi offrono da bere, sebbene a pagare sia l’Hilton: “Come my friend, drink something”.
Si chiama Eron, ci siamo conosciuti per caso a Santa Teresa,
dopo che ci ha chiesto da accendere: “Vengo da Israele, questo posto è bellissimo, sai perché? Perché ci si sente davvero liberi. Qui non ti senti giudicato”. Ha il fisico asciutto e le movenze di un militare, ma come altri, diventa sfuggente quando ci si avvicina all’argomento: “Hard times”. È un po’ stupito di ritrovarci proprio in quell’albergo. Gli facciamo notare l’anomalia della sproporzione tra israeliani e autoctoni, lui ridacchia e se ne va. Nel frattempo il clima si è fatto ostile. L’unico fra tutti ad ammettere di far parte dell’esercito è un ragazzo più giovane con cui scambiamo due parole al bancone di un bar. Dice di chiamarsi Reuven e di essere lì solo con un amico: “Voi in Europa parlate di genocidio ma non capite cosa è stato per noi il 7 ottobre”. Non c’è il tempo per un’altra domanda, si offende e se ne va. Lo ritroviamo all’after party con il gruppone, con i commilitoni che lo chiamano con un altro nome. Proviamo a fare un cenno ma il saluto non è ricambiato.
Non indossano kippah o segni religiosi. Quando scendono in paese, le stesse persone che prima si parlavano in ebraico adesso le sentiamo parlare fra loro in inglese. Accade con due donne nella boutique Amare mio, intente a provare vestiti nel camerino. “Non disponiamo di documenti sull’appartenenza di queste persone all’esercito israeliano, – spiega Ismail Fawzi, medico e presidente dell’associazione Amicizia Sardegna Palestina – ma abbiamo elementi significativi: età, corporatura, atteggiamenti, comportamenti, del tutto anomali per turisti ordinari. Sono scortati dalla polizia. Nella nostra esperienza gli israeliani non si muovono così in massa senza basi logistiche, dunque è probabile
che esista un qualche accordo con le autorità italiane”.
I negozianti di Santa Teresa sembrano non farci troppo caso. L’emergenza dell’estate gallurese è l’invasione dei cinghiali. C’è da dire che, anche confusi nella folla, non passano proprio inosservati. Un gruppo di ragazze ieri avrebbe preso a male parole una bancarella che esponeva iniziative palestinesi. Incrociamo tre uomini al nostro arrivo in paese. Sulla quarantina, palestrati, accento israeliano, uno di loro porta uno zaino dell’esercito israeliano. Osservano le vetrine di un negozio di corallo in via Maria Teresa, ma si guardano intorno in modo nervoso come se stessero in pattuglia. Quando si abbandonano i convenevoli hanno fretta di andare via.
Nei giorni scorsi la notizia è rimbalzata fra le chat di attivisti Pro Pal ed è stata rilanciata da un quotidiano locale online, Sardegna 24: ci sono comitive di soldati dell’Idf mandati in Gallura a “decomprimere”, cioè a curare lo stress postraumatico della guerra, sindrome di cui soffrono 3770 soldati sui 130 mila impiegati, con 16 suicidi nel solo 2025. “Faccio parte del Pd e ho ricevuto l’invito alla mobilitazione – racconta Anselmo Soro, titolare del bar – a dir la verità mi sembra che ci sia il rischio di fare generalizzazioni”. I manifestanti fino ad ora hanno organizzato alcuni sit-in all’aeroporto di Olbia, dove hanno contestato comitive di turisti israeliani in arrivo da Tel Aviv: “Non ci sta bene che chi commette crimini di guerra venga qui in viaggio premio”, spiega Vittoria Nicoli, portavoce di Lungoni per la Palestina. Tre consiglieri regionali della lista Uniti per Todde – Sebastian Cocco, Valdo Di Nolfo e Giuseppe Frau –hanno chiesto alla Geasar, società che gestisce l’aeroporto di Olbia, di interrompere il collegamento con Tel Aviv, per “questioni di sicurezza” ma anche per non accogliere “attività economiche e turistiche con un governo che sta violando il diritto internazionale e compiendo azioni riconosciute come crimini di guerra”.
Ieri un corteo di protesta si è affacciato davanti al Mangia’s. Gli attivisti hanno raccolto screenshot di chat interne tra dipendenti della struttura e i loro superiori, in cui si invita a negare ai giornalisti che gli ospiti siano militari. Un copione che si verifica puntualmente quando proviamo a fare qualche domanda: “Sono solo turisti e sono un po’ ovunque”, dice un receptionist senza troppa convinzione. Ma la gazzella dei carabinieri davanti all’ingresso? E la vigilanza disposta dal questore di Sassari? La Digos sostiene non si tratti di militari, ma dei dipendenti di una compagnia di telecomunicazioni. La Cellcom, azienda che lavora per l’Idf e delle colonie dei territori occupati, che ha postato le tappe del tour sardo di un viaggio aziendale: cantine Surrau, isole della Maddalena, Phi Beach Club. Ci sono stati anche loro, ma non sono gli stessi che abbiamo incontrato. Ieri, dopo l’articolo pubblicato dal Fatto sul caso Marche, altra meta scelta per viaggi organizzati dell’Idf, la parziale ammissione riportata dall’Ansa, che cita “fonti informate”: “I soldati dell’Idf in Italia sono tutelati perché considerati obiettivi sensibili”. La vera paura, all’Hilton, è che le sparute manifestazioni si trasformino in qualcosa di più serio. Ce lo conferma la nostra fonte: “Speriamo tutti che non succeda”. Il gruppo americano è già
finito al centro delle proteste dei movimenti Pro Pal. Ieri il Fatto ha provato a chiedere una risposta ufficiale, senza ottenerla.
(da ilfattoquotidiano.it)

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