Settembre 22nd, 2025 Riccardo Fucile
LA PONTIDA FORMATO VANNACCI PER UNA LEGA ORMAI IN DECLINO
Una Pontida formato Vannacci. L’evento mediatico è stato organizzato in stile X-Factor, con i
relatori annunciati come fossero partecipanti a un talent. E lo show è andato come previsto: l’eurodeputato e vicesegretario della Lega, Roberto Vannacci, ha conquistato la scena, con buona pace della vecchia guardia legata alle origini bossiane del partito.
Gli slogan urlati dal palco durante la due giorni sono stati vari: stop all’immigrazione, con lo spauracchio della remigrazione e la blindatura dei confini come capisaldi, identità nazionale da tutelare contro l’attuale Unione europea, la parola «libertà», sventolata come una bandiera nei vari interventi, da quello di Santiago Abascal, leader dell’estrema destra spagnola di Vox, fino a Jordan Bardella, delfino del lepenismo in Francia. E poi tantissimi riferimenti a Charlie Kirk.
Il raduno di Pontida si è svolto nel segno dell’attivista dell’estrema destra statunitense, ucciso lo scorso 10 settembre, anche per la congiuntura del calendario che ha fatto cadere la manifestazione negli stessi giorni del funerale. Praticamente tutti
lo hanno ricordato fino al minuto di raccoglimento chiesto dal leader della Lega, Matteo Salvini.
Il Doge sul Veneto
Il governatore veneto, Luca Zaia, ha spostato l’attenzione sulle questioni italiane. Sulle prossime regionali ha lanciato un messaggio chiaro agli alleati, in primis a Fratelli d’Italia: «Il nostro candidato è Alberto Stefani, poi capiremo cosa deciderà il tavolo. Se il candidato sarà della Lega sarà Stefani, se non sarà della Lega sarà un problema».
Anche sulla lista personale non è andato per il sottile: «Dicono che la lista Zaia valga il 44-45 per cento. Il centrodestra deciderà se la vuole o non la vuole, Tajani rappresenta un pezzo di centrodestra, non rappresenta tutto il centrodestra», ha aggiunto il Doge ribadendo il principio su Roberto Vannacci: «Può essere un valore se fa il leghista».
Solo che l’eurodeputato più che il leghista continua a fare il Vannacci, lo showman di estrema destra. Il disegno è ormai chiaro: il generale vuole vannaccizzare la Lega. Ha infatti rilanciato il proprio manifesto politico, dimostrando che l’uditorio è in sintonia con le sue idee, con buona pace della vecchia guardia nostalgica delle origini bossiane, Zaia incluso. «Non ci rassegniamo alla società multiculturale, alla società meticcia, alla islamizzazione delle nostre città», ha detto dal palco, facendosi interprete del pensiero del gruppo dei Patrioti europei.
E quindi ha lanciato l’amo per agganciarsi a uno degli slogan dei giovani leghisti: «Non regaliamo nulla a chi non rispetta le nostre norme, le nostre leggi, per questi signori c’è solo un futuro, remigrazione», mettendoci l’immancabile riferimento alla X Mas: «Andrebbero insegnati a scuola i nomi degli eroi della decima». Tanta comunicazione e poca sostanza. Comunque sufficiente per provare a galvanizzare la platea e capire se un giorno potrebbe davvero essere la sua.
L’intervento non è comunque passato inosservato. «La X Mas di cui parla Vannacci è quella che, dopo l’8 settembre, rimase fedele al fascismo, combattendo con i nazisti e diventando nota per rastrellamenti, torture e massacri di civili e partigiani?», ha ricordato Irene Manzi, deputata del Pd.
Poca manovra
Pontida 2025 lascerà i suoi strascichi. Salvini ha chiuso la mattinata del raduno e, suo malgrado, è scivolato un po’ a piè di pagina nell’attenzione generale. Certo, ha convocato con anticipo di quasi mezzo anno una manifestazione nazionale per il 14 febbraio, «in difesa dei valori, dei diritti, dei confini e delle libertà della civiltà occidentale». Ma non è apparso nella sua forma migliore, forse a causa del problema di calcoli renali che nella giornata di sabato lo avevano costretto a una serie di controlli medici.
Il vicepremier ha comunque ribadito la posizione del partito sulla politica estera: «Non manderemo mai i nostri figli e i nostri nipoti a morire in Ucraina. Non siamo in guerra contro nessun». E ha confermato il «no all’esercito europeo e a un debito europeo per comprare armi e carri armati».
L’ultimo fronte di Salvini è quello della manovra, dopo un rapido e doveroso passaggio sull’autonomia (che non c’è), per cui ha riproposto un cavallo di battaglia delle ultime settimane: «Chiederemo un contributo non alle piccole banche dei territori ma a quelle grandi che hanno fatto più di 500 milioni di utili su interessi».
In mezzo alla propaganda rumorosa, è finito quasi in sordina l’intervento del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ha cercato di accontentare gli astanti: nella legge di Bilancio ci sarà «pace fiscale» e taglio alle tasse. In una lunga lista di dichiarazioni propagandistiche non hanno le promesse a breve scadenza.
(da Domani)
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Settembre 22nd, 2025 Riccardo Fucile
POI STRAPARLA DI MINACCE ED EVOCA LE BR: “IO MOSSA DALL’AMORE”
Dopo avere sostenuto davanti ai giovani di FdI, tesi bizzarra, che il grosso delle televisioni e della stampa italiana le sia ostile (lei che controlla la Rai, si gode le lodi delle trasmissioni Mediaset, ha Angelucci del gruppo Angelucci, tre quotidiani in dote, nella sua maggioranza parlamentare), Giorgia Meloni appare all’ora di pranzo su Rai Uno, a Domenica In, prima puntata, per dialogare con Mara Venier sulla cucina italiana. A una settimana dalle elezioni nelle Marche, prima tappa delle regionali d’autunno.
L’occasione è un evento pensato dai ministri Francesco Lollobrigida e Alessandro Giuli, in asse con l’Anci, “il pranzo della domenica”, per tirare la volata alla candidatura della cucina italiana come patrimonio dell’Unesco. La premier si attovaglia a
favore di telecamera accanto a Sabrina Ferilli e Paolo Bonolis. C’è pure il sindaco di Roma, il dem Roberto Gualtieri, mentre supervisiona la scena il sottosegretario al Mic (molto operativo sulle questioni tivvù) Gianmarco Mazzi. Collegata con la “zia Mara”, tenendo il microfono in mano come un’inviata Rai, racconta: «Passavo il pranzo della domenica con i nonni, era legato alle pastarelle». Più che di diplomazia, la premier parla di diplomatici nel senso delle paste. L’opposizione attacca e il sindacato dei giornalisti di destra Unirai ricorda: «Anche Gentiloni e Conte andarono nella stessa trasmissione», anni addietro.
La comparsata sull’ammiraglia della tv di Stato avviene in una domenica in cui a destra si gareggia a chi è più kirkiano, nel senso di Charlie Kirk. Con tempistica ben studiata, prima che Matteo Salvini parli sul pratone di Pontida per omaggiare l’influencer Maga, la premier comizia su un altro prato, al laghetto dell’Eur di Roma, alla festa dei giovani di Fratelli d’Italia.
Discorso tutto incentrato sul presunto clima d’odio che si respirerebbe pure qui, nel Belpaese, e sull’attivista trumpiano. Prima della premier – che colpaccio, avranno pensato i ragazzi della fiamma – appare Lorenzo Caccialupi, il giovane che in un inglese un po’ sgangherato aveva dialogato con l’idolo dei Maga. Virale, dopo il brutale e sconvolgente omicidio in Utah.
È una Meloni in formato ultra berlusconiano, che si dice mossa «sempre dall’amore e non dall’odio», che attacca la stampa e la sinistra rea a suo dire di «pensare che la vita di chi la pensa diversamente vale meno». «Non commiseratevi», dice ai giovani di FdI, mentre si commisera per gli attacchi subiti. In un continuo alzare i toni, cita pure le Br («Non avevamo paura quando potevi essere ammazzato a colpi di chiave inglese per un tema sulle Brigate rosse e non abbiamo paura oggi») e se la prende di nuovo con i «sedicenti antifascisti» ricordando ancora il post social di un semi-sconosciuto collettivo di studenti contro Kirk. «Una minaccia di morte», mentre «le minacce si moltiplicano». E fuori «c’è la tempesta». Davanti ai militanti della sua giovanile, Meloni esalta le riforme di scuola e università operate dal suo governo. L’istruzione, è la tesi, va liberata «dalla gabbia asfissiante» della sinistra, dai «disastri del ‘68». Cita lo sgombero del Leoncavallo e promette un piano casa per i giovani, «per avere prezzi calmierati».
Soprattutto, alla sua Gioventù nazionale rivolge parole al miele, un anno dopo l’inchiesta di Fanpage sui saluti romani e i cori antisemiti. «Siete uno spettacolo, hanno tentato di sporcarvi, di dipingervi come mostri, volevano colpire me in malafede», la blindatura. Poco prima della mezza, a ridosso del derby Roma-Lazio, Meloni conclude: «C’è una partita importante, non voglio fare la fine di Fantozzi, con la corazzata Potëmkin e le radioline». E per chi non si sintonizza sull’Olimpico, c’è sempre Domenica In.
(da Repubblica)
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Settembre 22nd, 2025 Riccardo Fucile
LA DISAFFEZIONE TOTALE PER L’INFORMAZIONE AUMENTA IN PRESENZA DI TITOLI DI STUDIO PIÙ BASSI. NON SI INFORMA MAI DI POLITICA L’11,3% DEI LAUREATI, IL 24,4% DEI DIPLOMATI E IL 41,2% DI CHI HA LA LICENZA MEDIA
Si parla spesso di una malattia della democrazia, una degenerazione che porterebbe le
istituzioni liberali a morire piano piano, nel disinteresse, con i cittadini sedotti e affascinati dalla velocità e dalla presunta efficienza delle autocrazie. Una malattia che l’Istat ha ora misurato scientificamente, con un poderoso rapporto sulla “Partecipazione politica in Italia” negli ultimi vent’anni, dal 2003 al 2024.
Si tratta di un tema cruciale, notano i ricercatori dell’Istituto nazionale di statistica, “per la coesione e il benessere della
collettività perché dalla natura del rapporto tra cittadini, gruppi e istituzioni politiche che caratterizza un sistema politico dipende, in ultima analisi, la qualità stessa della democrazia”. […] L’Istat è invece andato a misurare quella che viene definita la “partecipazione invisibile” o indiretta, ovvero informarsi e discutere di politica, fino a forme di partecipazione più attiva .
I risultati
Nel 2024, a informarsi di politica almeno una volta a settimana è meno della metà della popolazione di 14 anni e più, per la precisione il 48,2%, 8,9 punti percentuali in meno rispetto al 2003. Più di un quarto della popolazione di 14 anni e più (29,4%) non si informa mai di politica. Si tratta, in valori assoluti, di 8 milioni 900mila donne e 6 milioni 300mila uomini: pari rispettivamente al 33,4 e al 25,1%.
Ancora più cospicua la componente di popolazione che non parla mai di politica (36,9%): più di 11 milioni e mezzo di donne (43,6%) e oltre 7 milioni e mezzo di uomini (29,9%). A interessarsi e parlare di politica regolarmente sono soprattutto le persone che appartengono a nuclei familiari agiati, cui solitamente si associano titoli di studio mediamente più elevati, mentre i meno abbienti sono più portati a non occuparsene mai.
La disaffezione totale per l’informazione e la discussione politica è più diffusa in presenza di titoli di studio più bassi. Non si informa mai di politica l’11,3% dei laureati, una percentuale più che doppia di diplomati (24,4%) e quasi quadrupla di quanti
hanno al più la licenza media (41,2%).
Nonostante il trend discendente accomuni uomini e donne, l’entità del calo è significativamente diversa. Se nel 2003 a informarsi con regolarità di politica era il 66,7% degli uomini a fronte del 48,2% delle donne, nel 2024 questi valori calano di 12,6 punti percentuali per gli uomini e di 5,7 punti per le donne (collocandosi rispettivamente al 54,1% e al 42,5%). La distanza tra uomini e donne passa da 18,5 a 11,6 punti percentuali. Insomma, almeno in questo le differenze di genere si attenuano.
La partecipazione per territori
La partecipazione politica è infine molto differenziata sul territorio. Le aree del Centro-nord raggiungono livelli di partecipazione più alti che il resto del Paese: si informa di politica almeno una volta a settimana la maggioranza della popolazione del Centro-nord (con valori compresi tra il 52 e il 54%), contro il 40% circa di Sud e Isole. Sempre nelle regioni del Mezzogiorno una quota analoga (37,3%) non si informa mai a fronte del 25,0% circa delle regioni del Nord.
Brutte notizie per i talk show. Anche l’ascolto dei dibattiti politici ha fatto registrare un calo importante, essendosi quasi dimezzata la quota dei cittadini che li hanno seguiti almeno una volta nei 12 mesi precedenti l’intervista, dal 21,1% del 2003 all’10,8% del 2024. Notizie nere per i quotidiani di carta: si è dimezzata, passando dal 50,3 al 25,4% la quota di cittadini che si informano tramite i giornali comprati in edicola.
Se non desta sorprese apprendere che quasi la metà degli utenti di Internet (47,5 si informano attraverso i social network, colpisce che circa i due terzi (65,4%) di quanti usano la rete per informarsi di politica lo fa ancora attraverso i quotidiani
(da La Repubblica)
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Settembre 22nd, 2025 Riccardo Fucile
COMICI E GIORNALISTI LICENZIATI, CENSURE E DIVIETI, DA QUANDO ‘THE DONALD’ È PRESIDENTE LO SCIVOLAMENTO VERSO METODI DA AUTOCRAZIA AVVIENE PASSO DOPO PASSO E SIAMO ANCORA LONTANI DAL FONDO
Poco prima di imbarcarsi per la visita in Gran Bretagna, due giorni fa, Donald Trump si è fermato a rispondere ai cronisti. Il corrispondente capo di Abc News da Washington, Jonathan Karl, ha chiesto a Trump informazioni sulla annunciata stretta allo studio dell’attorney general Pam Bondi contro i “discorsi di odio”. Trump si è subito visibilmente infastidito e ha spiegato benissimo quanto abbia a cuore la libertà di parola: “Probabilmente Bondi se la prenderebbe con persone come lei visto che mi tratta così ingiustamente. Questo è odio. Lei ha molto odio nel cuore”. Esiste un video di questo scambio ed è agghiacciante.
Al di là della totale gratuità e illogicità della replica, quella di Trump è la risposta che potrebbe dare un capriccioso dittatore cui non è ancora concesso – ma solo per ora, solo per ora – di dare ordine alla sicurezza di mettere in ceppi l’uomo.
Non è finita. Dopo il corrispondente di Abc ha preso la parola un giornalista dell’Australian Broadcasting Corporation, John Lyons, e ha chiesto a Trump: “Le sembra appropriato che un presidente in carica sia impegnato in così tante attività commerciali?”.
Domanda su un tema cruciale, quasi rimosso dal dibattito pubblico. Trump non è più abituato a domande vere e, forse spiazzato dall’audacia, ha reagito quasi come volesse davvero rispondere: “Beh, in realtà – ha detto – non sono impegnato. Sono i miei figli a gestire gli affari”. Ma è stato un attimo.
Trump si è subito ricordato che lui è un sire e nessuno può infastidirlo con domande sui suoi macroscopici conflitti di interesse. Quindi ha smesso di rispondere sul merito e ha chiesto a Lyons: “Da dove viene lei?”. Alla risposta dell’uomo, Trump ha proseguito: “Secondo me, sta danneggiando molto l’Australia in questo momento, e il governo australiano vuole andare d’accordo con me. Sapete che il vostro leader verrà a trovarmi molto presto. Gli parlerò di te”.
Quindi, prima di passare a un’altra domanda, ha rivolto a Lyons l’ultimo saluto: “Stai zitto!”. Questo episodio misto di bullismo e megalomania – che Martin Scorsese renderebbe certamente sapido nella scena di un suo mafia movie – è passato più o meno
sotto silenzio. Abbiamo capito da tempo che ogni limite è saltato: vale tutto. E siamo ancora lontani dal fondo.
Poche ore dopo la scena dei due giornalisti messi a tacere, Abc ha deciso di cancellare “a tempo indeterminato” il late show di Jimmy Kimmel, uno dei programmi più longevi e di maggior successo negli Usa. L’accusa: lesa maestà. Durante il programma Kimmel aveva messo in dubbio la matrice ideologica dell’attentato mortale a Kirk e ironizzato sul lutto di Trump mostrando un video in cui, a una domanda sulla morte del cosiddetto suo “caro amico”, risponde surrealmente dicendo che sta costruendo una sala da ballo da 200 milioni di dollari e che i lavori sono a buon punto.
Il commento di Kimmel in studio: “Questo non è un adulto in lutto, è la reazione di un bambino di 4 anni alla morte del suo pesciolino”. Trump ha subito accolto con gioia la sospensione del programma: “Bene! Abc ha fatto benissimo! Kimmel è stato sospeso per la sua mancanza di talento”, ha detto con il solito sprezzo per la verità.
Quindi ha indicato due bersagli da colpire presto: Jimmy Fallon e Seth Meyers, conduttori di altri due popolarissimi show. Nella notte italiana Brendan Carr, messo da Trump a capo della Federal Communications, ha minacciato nuovi interventi sui network americani: “Non abbiamo ancora finito. Quella di Abc non credo sia l’ultima sorpresa. Sta avvenendo uno spostamento enorme nell’ecosistema mediatico e le conseguenze continueranno a manifestarsi”, ha assicurato Carr. Nel mirino c’è già anche un altro programma di Abc, network di proprietà Disney, ovvero The View.
Nell’ultima settimana altri editori hanno licenziato giornalisti rei di aver espresso opinioni non gradite sul caso Kirk. Msnbc ha messo alla porta l’analista Matthew Dowd. Il Washington Post, dove l’editore e patron di Amazon Jeff Bezos ha ingiunto il divieto di pubblicare editoriali antigovernativi, ha estromesso l’editorialista Karen Attiah per un post pubblicato sui social. “You’re fired”, sei licenziato, era il tormentone di The Apprentice, il famoso programma tv condotto da Trump all’inizio degli anni Duemila (una versione italiana del format fu affidata a Flavio Briatore). Ma questo non è un reality, è l’America 2025.
Da quando Trump è di nuovo presidente lo scivolamento verso metodi da autocrazia prosegue passo dopo passo senza significative reazioni e contromisure. Come in tutti i regimi non c’è insofferenza solo alle critiche, persino alle semplici domande o qualsiasi atto che non si adegui ai voleri dell’amministrazione. Nei mesi scorsi Trump ha deciso di cacciare l’Associated Press dalla sala stampa della Casa Bianca e di negare l’accesso anche all’Air Force One.
La colpa dell’Ap? Non essersi adeguata al cambio di denominazione del Golfo del Messico, ribattezzato Golfo d’America da Trump.
Paramount, che possiede il network Cbs, ha deciso di versare a Trump 16 milioni di dollari per chiudere un contenzioso legale. Il motivo della causa? La scelta dello storico programma 60 minutes di intervistare l’allora vice-presidente e candidata Kamala Harris. Gli avvocati di Trump hanno sostenuto che il loro assistito ha sofferto “angoscia mentale” nel seguire l’intervista.
Sempre Cbs ha deciso di cancellare a fine stagione il late show di Stephen Colbert, un altro dei conduttori nel mirino della Casa Bianca, e questo pochi giorni dopo che Colbert è intervenuto per deplorare la transazione con cui Paramount ha ritenuto di dover risarcire il presidente per la sua sofferenza alla vista di Kamala in tv.
Trump ha chiesto un risarcimento di 10 miliardi di dollari al Wall Street Journal per un pezzo sul caso Epstein e di 15 miliardi al New York Times per alcuni articoli su di lui, tra cui uno sulle sue attività finanziarie.
Questa è la libertà di parola e di stampa negli Usa di Trump, i cui sostenitori rivendicano di essere difensori del free speech contro le censure ideologiche della sinistra. Nel febbraio scorso il vicepresidente J.D. Vance ha pronunciato a Monaco un atto di accusa contro l’Europa: “Qui avete messo a rischio la libertà di parola”. I Maga sanno essere spudorati come nessuno.
(da La Repubblica)
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