Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
NON A CASO HA FATTO MODIFICARE LAST MINUTE IL TESTO RENDENDOLO PIÙ DIFFICILE DA ACCETTARE PER HAMAS CHE, A LORO VOLTA, INSISTONO SU TRE PUNTI: UN SALVACONDOTTO PER I CAPI; UN IMPEGNO A CREARE LO STATO DI PALESTINA; IL RITIRO DELL’ESERCITO ISRAELIANO, ANCHE DALLA ZONA CUSCINETTO … L’UMILIAZIONE DI “BIBI” CON LA TELEFONATA AL QATAR: L’EMIRO AL THANI NON HA VOLUTO PARLARE CON LUI E HA DELEGATO IL PRIMO MINISTRO … L’ANTISEMITISMO DILAGA IN EUROPA
Che Gaza succede ora? Mentre i capoccioni di Hamas si riuniscono a Doha dal loro grande burattinaio e protettore, l’emiro del Qatar, al-Thani, insieme agli emissari egiziani e turchi, Israele si sta per fermare per la festività dello Yom Kippur, il giorno dell’espiazione.
E Benjamin Netanyahu prega che i terroristi palestinesi non accettino il piano di pace che Trump l’ha costretto a firmare.
“Bibi”, come ha rivelato il solito Barak Ravid di “Axios”, è riuscito a far modificare il piano rendendolo più sbilanciato verso Israele. Sa, il primo ministro, che la guerra è la sua miglior assicurazione sulla vita politica: più dura, meglio è. Ed è notizia di qualche minuto fa: i miliziani, pur essendo propensi ad accettare, avrebbero chiesto alcune modifiche.
I punti più indigesti per i jihadisti, come riporta l’ANSA, sono “il disarmo, l’esilio della leadership e la necessità di ottenere garanzie per un ritiro completo dell’Idf”
Hamas chiede innanzitutto un salvacondotto per i propri capi: i nuovi vertici sanno che anche se esiliati in qualche località dorata del Golfo, circondati da escort e lussi, non saranno mai al sicuro.
Dai nazisti in Argentina ai cercapersone di Hezbollah fino ai raid mirati, il Mossad ha dimostrato che i nemici di Israele, o prima o dopo, vengono fatti fuori in qualsiasi parte del mondo.
Nelle modifiche fatte introdurre last minute da Netanyahu, si specifica che l’amnistia sarà data “solo a coloro che riconsegneranno le armi”, e si inserisce “il processo di smilitarizzazione sotto la supervisione di osservatori indipendenti”
Secondo, il gruppo terroristico pretende che Netanyahu sottoscriva un impegno alla costituzione di uno Stato di Palestina. Un’ipotesi sempre negata da “Bibi”, che giusto ieri, a meno di 24 ore dalla conferenza stampa con Trump ha voluto ribadire: “Non ho accettato nessuno Stato palestinese”
La precisazione è doverosa, perché tra i 20 punti del piano (il 19) si vagheggia: “Con il progredire della ricostruzione di Gaza e l’attuazione del programma di riforme dell’Autorità Palestinese ci saranno le condizioni per l’autodeterminazione e la statualità palestinese, che viene riconosciuta come aspirazione del popolo palestinese”.
Infine, Hamas chiede il ritiro effettivo e completo dell’IDF, l’esercito israeliano, anche dalla zona cuscinetto lungo il confine con lo Stato ebraico, ultima modifica inserita last minute da Netanyahu.
L’accordo siglato alla Casa bianca, infatti, prevede tre fasi di arretramento delle truppe all’interno della Striscia: la prima di qualche chilometro appena rispetto alle posizioni attuali, prima del rilascio degli ostaggi; la seconda che sarà raggiunta solo quando sarà dispiegata la forza di stabilizzazione internazionale (Isf); la terza, appunto, la zona cuscinetto, che riguarda sempre il territorio palestinese. In pratica, non è previsto il ritiro completo, come richiede invece Hamas.
Il movimento di “resistenza” palestinese ha chiesto 2-3 giorni di tempo “per definire la propria posizione”, in linea con l’ultimatum di Trump, pena “l’inferno”.
Ed è oggetto di un pressing forsennato da ogni angolo del globo: a partire da Papa Leone XIV, tramite il cardinale Pizzaballa, fino al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, e ovviamente ai Paesi arabi.
Con una mossa inedita, infatti, 8 stati musulmani (Arabia Saudita, Giordania, Emirati Arabi Uniti, Indonesia, Pakistan, Turchia, Qatar ed Egitto), hanno sostenuto apertamente lo sforzo di Trump e stanno cercando di convincere le milizie ad accettare: vedono un futuro fatto di miliardi di investimenti in ricostruzioni e grandi possibilità commerciali, perché negarselo in nome della “purezza” rivendicata da Hamas, destinata a essere soffocata nel sangue
A proposito di Paesi arabi, a emiri e sceicchi è venuto un colpo apoplettico quando hanno letto il nome di Tony Blair come “pro-console” nel “Consiglio di Pace” che dovrà sovrintendere al governo di Gaza.
“Bigliet-Tony” se lo ricordano bene: era il primo ministro inglese che, insieme a George W. Bush, bombardò l’Iraq sulla
base di false accuse contro Saddam Hussein, e ha sempre rivendicato la sua posizione. Memorabile l’immagine di Colin Powell che, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, sventolava una fialetta puzzolente sostenendo che Saddam avesse armi chimiche nel suo arsenale.
Ps./1 Ha fatto il giro del mondo la foto di Donald Trump che porge il telefono a Benjamin Netanyahu costringendolo a scusarsi con il Qatar. Dall’altra parte del filo, però, non c’era l’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, che non ha voluto rivolgere la parola a “Bibi” che settimane fa ha bombardato Doha, ma il primo ministro, Mohamed bin Abdulrahman Al Thani.
Già osteggiato da mezzo mondo, Israele non sogna uno scontro diplomatico con i paesi di provenienza della Flotilla. Senza considerare il clima da anni Trenta che si respira in Europa: in Germania moltissimi ebrei stanno cambiando cognome, e anche in Italia, hanno ricevuto il consiglio dalle proprie sinagoghe, di non indossare la kippah. Di ‘sti tempi meglio non farsi riconoscere: un’aggressione è sempre dietro l’angolo.
(da Dagoreport)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
I FUNERALI DELL’ATTRICE A PARIGI NON C’ERA UN RAPPRESENTANTE DEL GOVERNO ITALIANO, NÉ UN MINISTRO O UN SOTTOSEGRETARIO (PER LA FRANCIA C’ERA LA MINISTRA DELLA CULTURA, RACHIDA DATI, E ANCHE IL SUO REMOTO PREDECESSORE JACK LANG, QUELLO DI MITTERRAND) … ASSENZE IMPERDONABILI, ERA SIMBOLO DI UNA GRANDE ITALIA
Forse si poteva mandare qualcuno, anzi forse si doveva. Invece al funerale di Claudia
Cardinale l’Italia era rappresentata solo dalla nostra ambasciatrice, Emanuela D’Alessandro. Il Governo non c’era, non pervenuto. Non hanno ritenuto di dover fare il viaggio né il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, né uno dei suoi sottosegretari, magari proprio quella con la delega al cinema, Lucia Borgonzoni, sempre loquacissima e presentissima sui tappeti rossi.
Per la Francia, la ministra della Cultura, Rachida Dati, c’era, anche il suo remoto predecessore Jack Lang, quello di Mitterrand. Questione di stile, e stavolta bisogna purtroppo ammettere che ne hanno avuto di più i cugini.
E poi Claudia Cardinale era un simbolo di un’Italia che dovrebbe essere cara a ogni nostro governo e soprattutto a questo, così sensibile, a parole, a storia e gloria nazionali. Perché rappresentava un cinema che nei suoi anni d’oro era davvero il migliore del mondo, e in generale un’Italia che, forse perché per la prima volta nella sua storia tutti andavano a letto avendo mangiato a sufficienza, traboccava letteralmente di genii in ogni campo, nel cinema ma anche nel teatro, nella letteratura, nella musica, nell’arte, nella moda, nel design.
Esserci significava dire grazie a lei, che l’Italia l’ha portata sugli schermi di tutto il mondo, e ribadire che non dimentichiamo quale meraviglioso Paese siamo stati, che è poi è il modo migliore per tornare a esserlo. Chissà che improrogabili impegni avevano i nostri maggiorenti della cultura, che inderogabili obblighi istituzionali, che priorità irrinunciabili. Eppure, per il breve spazio di una messa da requiem sarebbe stato meglio essere accanto a quella bara, dove si ricordava non soltanto una grande attrice, ma una grande Italia.
(da La Stampa)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
I GIOVANI SONO I PIÙ ANTIPATIZZANTI: SETTE SU DIECI SONO CONTRARI A INNVIARE ARMI
Un sondaggio Siena/New York Times ha evidenziato come l’appoggio degli statunitensi a Israele sia evaporato negli ultimi due anni; oggi, inoltre, la maggioranza è contraria a inviare aiuti militari ed economici allo Stato ebraico come gli Usa fanno senza sosta dal 1948.
In particolare, per quanto riguarda “la simpatia” verso Israele questa è scesa dal 47% al 34%; al contrario è cresciuta quella verso i palestinesi dal 20% (nell’ottobre del 2023) al 35% registrato l’ultima settimana.
Contrari in proporzioni assai ampie all’appoggio militare allo Stato ebraico sono gli under 30: sette su dieci sono contrari a inviare armi.
È un sentimento bipartisan quello registrato fra i giovani. Generalmente però, restano le differenze fra repubblicani e democratici sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Israele.
Se per gli elettori di destra infatti continuare il sostegno a Israele è fondamentale, si registra un netto declino fra i democratici. Il 40% degli americani invece ritiene – contro il 22% del dicembre 2023 – che Israele colpisca intenzionalmente i civili nella
Striscia di Gaza.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
LA VITTORIA DEL MELONISSIMO ACQUAROLI SCIOGLIE IL NODO DEL VENETO, CHE LA PREMIER LASCERÀ AL CARROCCIO (IN CAMBIO, CHIEDERÀ MILANO E LA LOMBARDIA)
Il bicchiere dopo le Marche in via Bellerio è mezzo vuoto: calano i voti, cala la percentuale,
Forza Italia sorpassa la Lega, Fratelli d’Italia ha abbastanza eletti da fare praticamente da sola nel prossimo Consiglio.
Eppure tutti nel Carroccio vogliono vederlo mezzo pieno: il centrodestra vince, non c’è un tracollo, il Veneto a questo punto dovrebbe venire riaffidato proprio alla Lega.
In sala Garibaldi al Senato, Roberto Calderoli, seppur scuro in volto, parlando con Repubblica, minimizzava il tonfo: «Il dato della Lega nelle Marche è buono».
Poco male per i quindici punti in meno in quattro anni. «Allora avevamo anche il 34 per cento a livello nazionale», taglia corto il ministro. Altri tempi, altri numeri.
E se Matteo Salvini, come da tradizione, canta vittoria di default dopo ogni elezione, anche i nordisti non si fasciano la testa: «Galleggiamo, andiamo avanti per inerzia: non affondiamo, e non è poco», ammette un critico della svolta nazional-sovranista.
I numeri, intanto. Nelle Marche la Lega prese il 17,3 alle Politiche 2018; il 38 per cento nell’exploit delle Europee del 2019, quelle di Salvini ministro sceriffo; alle Regionali del 2020 scese al 22,4. Poi il vento a destra è cambiato. Politiche 2022: 7,9 per cento, Europee dello scorso anno 8,2, due giorni fa il 7,4. «Se avessimo avuto il candidato presidente avremmo avuto un altro risultato: ci sono fattori nelle regionali che sono evidenti, chi ha il presidente traina di più di chi non lo ha», dice Luca Zaia. Lo sguardo è sì alla Calabria ma soprattutto al Veneto: a giorni il centrodestra potrebbe chiudere su Alberto Stefani come candidato presidente, un leghista di stretta osservanza salviniana. Nel Carroccio si nega che il prezzo sia lasciare la corsa in Lombardia al partito della premier: «Non si fanno scambi, le regioni non sono figurine», è il commento infastidito di Calderoli.
Tra i meloniani, c’è chi lascia intendere che lo squilibrio nella suddivisione dei governatori sia ormai oltre la soglia critica. Luca De Carlo, senatore veneto di FdI, ieri a Palazzo Madama masticava amaro: «Quello che stiamo facendo per gli alleati è oltre la generosità, serve un termine nuovo per dirlo». Tanto più, continuava, «guardando ai risultati nelle Marche, dove si è visto che valiamo tre volte la Lega».
E poi, anche se la partita per il centrodestra sembra persa perlomeno lì, in casa Carroccio si guarda con interesse alla Toscana, dove il fenomeno Vannacci dovrà misurarsi coi voti: nel partito locale si è mosso come un padrone, estromettendo candidati e commissariando sezioni. Se il Carroccio andrà meglio del passato recente, sarà merito suo. Se andrà peggio, il responsabile non potrà che essere l’ex generale che va promettendo “tsunami” elettorali in lungo e in largo.
Di certo brucia parecchio il sorpasso ormai consolidato di FI, già sancito per un soffio alle ultime Europee. Che ci sia nervosismo tra alleati è cosa nota e anche a Milano, sulla vicenda stadio, la vicesegretaria Silvia Sardone ha lanciato pesanti strali agli azzurri. La Lega oggi insidia i voti della destra radicale a FdI, mentre i forzisti cercano di monopolizzare l’area moderata. Inevitabile scontarsi. Ma anche qui, ancora il bicchiere mezzo pieno: con questo modello alle Politiche del 2027, cosa mai accaduta in Italia, le forze di governo possono spuntarla di nuovo. Meglio non litigare troppo.
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
INTERVISTA A FEDERICO BONI, DOCENTE DI SOCIOLINGUISTICA ALL’UNIVERSITA’ DI MILANO
A Milano qualunque cosa accada, è sempre colpa del maranza. Le maranzine che hanno rubato i profumi, i maranza che in manifestazione hanno rotto vetrine insieme agli anarchici “ProPal”, il trapper Baby Gang e le sue pistole un po’ in linea con i criminali milanesi di altre epoche.
Una volta trovato il nemico comune, tendenzialmente straniero o di seconda generazione, ecco che gli si costruisce tutt’intorno una narrazione che colpevolizza le sue azioni.
Ma chi è davvero il maranza? Ne abbiamo parlato qui a Fanpage.it con Federico Boni, docente di sociolinguistica all’Università degli Studi di Milano.
Professore, nei decenni scorsi la denominazione maranza indicava il “tamarro italiano che si comportava seguendo determinati codici considerati fuori moda. Era ben rappresentato da un Jovanotti vestito a stelle e strisce (il primo che utilizzò maranza in una canzone) o da pezzi come il Funkytarro degli Articolo 31. Oggi il suo significato è drasticamente cambiato.
Come si è evoluta questa parola?
Prima il maranza era un fenomeno prettamente italiano, indicava persone che si vestivano con marche riconoscibili, ma ne facevano un uso scorretto ed eccessivo rispetto al gusto comune. Negli ultimi anni c’è stato uno shift, un cambiamento drammatico: oggi la parola designa giovani teenager stranieri o di seconda generazione e quindi al concetto di eccesso si è aggiunto un fattore più linguistico. C’è un totale scollamento generazionale che non è solo “etnico”, ma proprio di linguaggio. Le altre generazioni non riescono proprio a capire ciò che rientra nell’immaginario del “maranza”.
Eppure la narrazione del maranza è preponderante nei media italiani. Quali possono essere gli effetti sul sociale di questo tipo di racconto?
Ha l’effetto di creare panico e di individuare un nemico pubblico che è perfetto perché il maranza già si propone come tale. Vale anche per tutte le sottoculture dei decenni precedenti: i giovani si sono sempre prestati a essere il giusto capro espiatorio. Questo perché sono da sempre un anello debole della catena, sono lo specchio di una comunità che non vuole vedersi riflessa in determinati atteggiamenti. Con i maranza contemporanei succede molto questa cosa, sono raccontati come un pericolo, il nemico numero uno.
La parola maranza è stata sdoganata e si è deciso che appartiene a un determinato gruppo. Da quel momento, in che modo è cambiata la percezione delle persone di quel gruppo? Hanno iniziato a sentirsi davvero maranza?
Io credo di sì. Il maranza si identifica nell’etichetta che gli è stata
affibbiata, ne fa una questione d’onore, un po’ come la parola Nigga utilizzata come codice tra i neri degli Stati Uniti. Lo scollamento con gli altri gruppi sociali è qualcosa che vogliono anche loro stessi. Al maranza non interessa essere descritto come una figura estranea rispetto al comune sentire, al contrario è proprio lui che si propone come altro, anche in maniera abbastanza radicale. Fa propri alcuni valori fondanti della nostra società, come il successo, la fama e i soldi, li porta all’esasperazione e poi li sbatte in faccia a tutti dicendo: “Se tu non mi capisci, non me ne frega proprio niente”. C’è un’incomunicabilità di fondo perché forse la cultura dominante non vuole vedere che il maranza parla il suo linguaggio, ma lo deforma in maniera tale che riconoscere determinate pratiche significherebbe riconoscere la propria mostruosità.
Come si potrebbe fare per avere una narrazione più accogliente verso chi è considerato il diverso, come nel caso dei maranza?
Il punto di partenza sarebbe conoscere il mondo del maranza, che più che una sottocultura è uno stile generalizzato. Ma non credo sia quello che si vuole. Il problema dei media è che, a differenza di altri stili giovanili del passato come il punk, quello dei maranza sembra qualcosa che non si può normalizzare, che non si fa stritolare nell’abbraccio della cultura mainstream.
Cosa c’è di così diverso tra il maranza e altre sottoculture da non permettere tutto ciò?
Il fatto cruciale è che sono stranieri. L’essere straniero o di seconda generazione porta una frattura molto più forte rispetto a tutte le precedenti. Basti pensare alle sottoculture hip hop degli anni ’90 in cui veniva recuperato un certo localismo linguistico
regionale, come la scena salentina che ha riportato in auge la Taranta. Questo fenomeno è completamente diverso: il maranza non ha problemi nel dirti che il re è nudo, prende il sistema valoriale e lo rivolta, lo ridefinisce, gli dà un altro significato. È proprio una cultura altra che entra in aperto conflitto con la nostra.
Pensi che questa narrazione del maranza come capro espiatorio sia volta a isolare e combattere determinati fenomeni, che vanno in contrasto con il racconto di una Milano attrattiva?
Fino a un certo punto. Io rimango convinto che il maranza sia funzionale al racconto di Milano come città così cosmopolita da rivendicare la paternità di questo o quel fenomeno giovanile, così globale da accogliere culture alternative a quella dominante. La narrazione di Milano è un po’ una meta narrazione, che ne comprende tante diverse. Il fatto che i media cavalchino così tanto questa definizione di uno stile giovanile mi fa pensare che in fin dei conti sono consapevoli del ruolo positivo che ha il maranza nella costruzione dell’immaginario di Milano.
(da Fanpage)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
CENTINAIA DI MIGLIAIA DI DIPENDENTI PUBBLICI SARANNO POSTI IN DISOCCUPAZIONE E SI PREVEDONO GRAVI DISAGI PER GLI UTENTI DEI SERVIZI PUBBLICI
Gli Stati Uniti sono entrati alla mezzanotte locale (le 6 in Italia) ufficialmente in
shutdown, con conseguente congelamento di parte dell’amministrazione federale.
È la prima volta che accade in sette anni e al momento non c’è una soluzione in vista per l’impasse di bilancio al Congresso americano tra i repubblicani di Donald Trump e l’opposizione
democratica.
Diverse centinaia di migliaia di dipendenti pubblici saranno posti in disoccupazione e si prevedono gravi disagi per gli utenti dei servizi pubblici. Si tratta di una situazione altamente impopolare negli Usa, per la quale ogni partito sta già incolpando l’altro. I democratici “vogliono chiudere tutto, noi no”, ha assicurato il presidente americano.
Lo psicodramma della «chiusura della pubblica amministrazione» è cominciato ufficialmente a mezzanotte, ora di Washington. Salvo accordi dell’ultima ora tra repubblicani e democratici, il mancato accordo sul finanziamento del deficit federale provoca una penuria di fondi, e sospensioni di alcuni servizi. Visto il clima politico attuale, la tentazione di drammatizzare sarà quasi irresistibile. Ma questa pantomima di «paralisi dello Stato» non è una vera emergenza. Tantomeno una novità.
Accadde, a ripetizione, sotto presidenti democratici come Bill Clinton e Barack Obama. Non che sia un bello spettacolo. È uno dei tanti sintomi che la vita istituzionale negli Stati Uniti soffre di patologie e disfunzioni varie, compresa la polarizzazione, la crescente difficoltà a negoziare compromessi
Se l’esperienza passata vale qualcosa, di solito il partito che sta all’opposizione – e che usa l’arma dell’ostruzionismo negando i rifinanziamenti federali – finisce per pagare il maggior prezzo in termini di impopolarità. E prima o poi il compromesso si trova, dopo aver inflitto qualche disagio ai cittadini.
Ma se le apparenze dicono che l’America è malata, la sostanza della sua economia reale rivela l’esatto contrario: nei guai è la
sua principale rivale, la Cina. A riprova, questi due flash di analisi-lampo che riprendo testualmente dal sito del settimanale britannico The Economist:
Lo Shutdown in Usa
«Ottimismo sull’economia americana. L’interpretazione prevalente sull’economia statunitense nella prima metà di quest’anno era che la crescita e il mercato del lavoro fossero stati colpiti duramente dalle politiche tariffarie avventate di Donald Trump. Certo, i dazi hanno causato qualche danno. Ma i dati più recenti suggeriscono che l’economia si sia dimostrata più resiliente del previsto. Le nuove revisioni delle cifre sul Pil hanno alzato la stima di crescita per la prima metà del 2025: dal tasso annualizzato dell’1,2% della prima valutazione di luglio, all’1,6% secondo gli ultimi dati di questo mese—non una performance eccezionale, ma nemmeno disastrosa. […
Anche gli indici PMI (Purchasing Managers’ Index), un indicatore rapido e utile della crescita, sono saliti lo scorso mese. I dati sull’occupazione restano deboli, ma ciò potrebbe riflettere un rallentamento dell’immigrazione. Le nuove cifre su occupazione e PMI, attese la prossima settimana, completeranno il quadro. Paradossalmente, le buone notizie economiche potrebbero creare problemi alla Federal Reserve. Donald Trump ha fatto pressioni sulla banca centrale affinché abbassi i tassi di interesse. Se l’economia appare in miglioramento, questo potrebbe portare a uno scontro spiacevole.
La fiacca economia cinese. Il quindicesimo giorno dell’ottavo mese del calendario lunare cinese, quando la luna è piena, il Paese celebra la festa di metà autunno. Quest’anno cade il 6
ottobre ed è, per tradizione, dedicata al raccolto. Quest’anno, però, molti festeggeranno un altro tipo di abbondanza: la Borsa cinese è salita di oltre il 40% rispetto alla festa dello scorso anno. Il rilancio del mercato finanziario, tuttavia, non si è tradotto in una ripresa dell’economia reale
Un sondaggio sui direttori degli acquisti, pubblicato martedì dall’Ufficio nazionale di statistica cinese, ha segnalato che a settembre i servizi hanno rallentato, compensando in gran parte un lieve miglioramento di manifattura e costruzioni. La banca centrale potrebbe tagliare i tassi di interesse per sostenere l’economia. Ma procederà con cautela, per evitare che la Borsa si surriscaldi troppo».
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
BARBUTI E PANZONI (“È INACCETTABILE VEDERE GENERALI E AMMIRAGLI GRASSI”) E AGLI “STUPIDI POLITICI” CHE PER ANNI HANNO “PRIVILEGIATO IL POLITICALLY CORRECT”
Centinaia di generali e ammiragli hanno ascoltato ieri i discorsi del capo del Pentagono Pete Hegseth e del presidente Donald Trump presso la base di Quantico, in Virginia. Il raduno dei leader militari americani da ogni parte del mondo è stato voluto da Hegseth per esporre la sua visione sul recupero di quello che ha definito «l’ethos del guerriero»
Abituato a folle entusiaste, Trump ha notato subito il silenzio e ha esordito con una battuta, provocando risate: «Se volete applaudire, applaudite. Se non vi piace quello che dico, potete lasciare la stanza, ovviamente perderete il rango e il vostro futuro». Lasciando la Casa Bianca, poco prima, Trump aveva detto ai giornalisti che è pronto a licenziare in tronco i leader militari che non gli piacciono. Ma nel suo discorso ha elogiato i presenti: il loro aspetto, la forza dei sottomarini, la Space Force, le capacità nucleari americane (definite da lui «l’altra n-word», l’altra parola con la n che «non si dovrebbe mai menzionare»).
Il presidente ha promesso un trilione di dollari per la difesa […] Ha parlato delle guerre in Medio Oriente e in Ucraina. «Mi daranno il Nobel per la pace? Assolutamente no. Lo daranno a qualcuno che non ha fatto niente, a un tizio che ha scritto un libro sulla mente di Trump» (ha aggiunto che non darglielo sarebbe «un insulto» agli Stati Uniti).
Poi ha parlato dello schieramento dei militari nelle città americane (Washington, Portland, Chicago): «La nostra storia è piena di eroi militari che hanno combattuto tutti i nemici, stranieri e interni. Abbiamo anche nemici interni. George Washington, Abraham Lincoln, Grover Cleveland e altri hanno usato le forze armate per mantenere l’ordine e la pace all’interno del Paese»
Ha aggiunto di aver suggerito a Hegseth di «usare alcune di queste città pericolose come terreno di addestramento per i nostri militari». Queste parole toccano un tema aperto all’interno del Pentagono ovvero il dibattito sulla nuova Strategia nazionale di Difesa
Secondo il Wall Street Journal, la strategia punta soprattutto alla sicurezza dell’Emisfero Occidentale, come evidente dai raid aerei contro presunti trafficanti di droga venezuelani e dall’enfasi sull’immigrazione. Secondo il Washington Post, c’è un certo dissenso poiché alcuni generali, incluso Dan Caine, capo di stato maggiore delle forze armate voluto da Trump, temono che le nuove priorità si spostino troppo sulle minacce interne anziché restare sulla competizione con la Cina.
Parlando prima di Trump, Hegseth ha promesso di dare una svolta a «decenni di decadenza» nelle forze armate e ha accusato «stupidi politici» di aver privilegiato il «politically correct» e la «diversità» rispetto al merito. «È completamente inaccettabile vedere generali e ammiragli grassi nelle sale del Pentagono», ha dichiarato l’ex veterano della Guardia Nazionale e presentatore di Fox News. «L’era dell’aspetto non professionale è finita. Niente più barbuti». Ha detto ai presenti che, se le sue parole li «gettano nello sconforto», dovrebbero dimettersi.
Ha difeso i licenziamenti fatti negli ultimi 8 mesi ai vertici delle forze armate (inclusi il capo di stato maggiore Charles Q. Brown, afroamericano, e l’ammiraglia Lisa Franchetti, prima donna a capo della Marina): «Troppo a lungo abbiamo promosso troppi leader in divisa per le ragioni sbagliate, basate sulla razza, le quote di genere, le cosiddette prime volte». E ha promesso
cambiamenti nel modo in cui le denunce per discriminazione vengono gestite e indagate, anche se «essere razzisti e le molestie sessuali» resta «sbagliato e illegale».
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
ASTENSIONE DAL LAVORO PER CGIL E USB… IL VIMINALE BLOCCA I PERMESSI PER I POLIZIOTTI
La convocazione di prefetti e questori. E il blocco di permessi e congedi per i poliziotti. Il
Viminale si prepara agli scioperi per la Global Sumud Flotilla, che si trova ormai nelle acque di Gaza ed è già stata “visitata” dall’esercito israeliano. E così una circolare invita i questori ad una «valutazione particolarmente attenta e oculata della concessione di permessi, congedi e qualsiasi altra forma di assenza legittima al personale di polizia dall’1 al 6 ottobre».
Gli scioperi per Gaza e per la Sumud
Dopo la guerriglia urbana del 22 settembre a Milano la direttiva è la solita: consentire la libera espressione del pensiero, ma fermare derive violente della protesta. A Roma è in preparazione un corteo da Porta San Paolo a San Giovanni – ventimila le
presenze annunciate ma si prevede che saranno di più – c’è quindi da organizzare al meglio il servizio d’ordine. Che sarà imponente, come ha annunciato il questore Roberto Massucci, con rinforzi da inviare nella Capitale e raccolta di informazioni nelle principali città per capire chi parte verso Roma.
Lo sciopero generale
Prima della manifestazione di sabato ci saranno però da gestire le proteste che seguiranno il prevedibile blocco della Flotilla da parte dell’Idf. La Cgil ha dato mandato di proclamare uno sciopero nazionale per tutte le categorie. Anche l’Usb si è aggregata, mentre i Sì Cobas sono in sciopero dal 2 al 3 ottobre. A preoccupare sono le iniziative estemporanee con blocchi di infrastrutture di trasporto. L’associazione dei Giovani palestinesi, tra gli organizzatori del corteo di Roma, ha invitato anche a scioperare venerdì 3. Tante le mobilitazioni poi nelle università, altro luogo caldo.
Università e scuole occupate
Nel pomeriggio di ieri petardi, fumogeni e vernice sono stati lanciati contro l’ingresso del rettorato, durante il corteo degli studenti pro-Pal alla Sapienza. Ed al grido di “blocchiamo tutto” gli studenti hanno occupato la facoltà di Scienze Politiche dell’ateneo romano. Occupati anche i licei Cavour e Socrate. A Napoli è stata occupata la Federico II. A Livorno, protesta del portuali contro l’attracco della nave israeliana Zim Virginia. Il prefetto della città toscana ha disposto nel pomeriggio che la nave lasci il porto per evitare problemi di ordine pubblico.
I presid
Ci sono poi i presidi dei Sumudsupportersroma. A Piazza dei Cinquecento, vicino alla statua di Karol Wojtyla, è presente un presidio permanente per Gaza. Il programma delle proteste è stato esplicitato sul canale Telegram
(da agenzie)
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Ottobre 1st, 2025 Riccardo Fucile
ORMAI META’ DEGLI ITALIANI NON VA A VOTARE
Anche nelle Marche, l’astensionismo si è confermato il primo partito uscito dalle urne. Con il 50% del corpo elettorale che ha disertato i seggi, la previsione del centrosinistra, secondo cui la guida della Regione sarebbe stata contendibile, si è rivelata
irrealistica e infondata.
Ci sono due serie di dati che, incrociate tra loro, dimostrano un teorema non scritto delle dinamiche elettorali: maggiore è l’astensionismo, maggiore è la probabilità di vittoria delle destre. I primi numeri da tenere a mente sono relativi ai comportamenti del corpo elettorale italiano in relazione alle differenze sociali e generazionali. Secondo un’indagine condotta da Area Studi Legacoop e Ipsos (presentata il 18 luglio 2024), l’astensionismo è più marcato tra le fasce di età 31-50 anni. Più nel dettaglio, il 40% dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha disertato le urne alle elezioni politiche del 2022 (vinte dal centrodestra). Mentre gli over 65 si dimostrano i più propensi al voto con un tasso di partecipazione del 66%. L’astensionismo sale, inoltre, tra le fasce a basso reddito, a bassa scolarizzazione e tra i disoccupati.
E qui entra in ballo la seconda serie di numeri. Quella relativa al rapporto tra gli italiani e la televisione. Già nel 2016 l’annuario dell’Istat ha messo a fuoco gli spettatori più incalliti del piccolo schermo: a farla da padrone i giovanissimi tra 6 e 14 anni (che non votano) e gli anziani tra i 65 e i 74 anni (cioè la fascia con la maggiore propensione al voto).
Per quest’ultima categoria, l’88,4% guardava tutti i giorni un canale della tv di Stato contro il 48,6% dei giovani tra i 24 e i 34 anni. Dati che trovano riscontro in un più recente studio condotto da The Trade Desk e YouGov sulle abitudini di consumo tv suddiviso per fasce d’età: l’86% degli intervistati dai 55 anni in su ha manifestato una netta preferenza per la televisione tradizionale.
Concludendo, gli over 65 rappresentano in Italia il doppio prototipo dell’elettore tipo più assiduo ma anche del più incallito consumatore di tv, in particolare di quella pubblica, che rappresenta la sua principale fonte di informazione. Ora chiedetevi a che serve TeleMeloni e datevi una risposta.
(da lanotiziagiornale.it)
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