“NON E’ UNA RIVOLUZIONE PER GIOVANI, MA LORO SI RIPRENDERANNO L’EUROPA”
LO SCRITTORE DI PAOLO: “GLI ADULTI SPAVENTATI DALLA CRISI HANNO DECISO IL RISULTATO DEL VOTO”
Paolo Di Paolo sta scivolando con i suoi 34 anni lentamente fuori dalla categoria giovani, ma ci rimane immerso, frequenta università , licei, tiene i radar accesi sulla sua generazione e quelle che la precedono. Parla con loro, alle sue presentazioni accorrono in tanti.
Ha discusso a lungo prima del 4 marzo con molti ragazzi per capire come si muovessero sull’onda lunga del cambiamento, che con più o meno precisione, tutti vedevano arrivare. Non ha ricette da vendere, ma una convinzione: «Non è detto che questa sia una rivoluzione di giovani per i giovani».
Partiamo da qui. Che rapporto hanno i venti/trentenni con la politica?
«Una delle cose che faccio più spesso è andare nelle scuole, e mi diverte molto provocare gli studenti. Chiedo loro della realtà che li circonda e li ho interrogati sulle elezioni, su quale schieramento si sarebbero orientati. Le risposte hanno manifestato disillusione, quando non apatia: una distanza quasi incolmabile da superare. Non lo capiamo, non ci interessa, non è cosa per noi, ripetono».
Oltre a questo dato comunque c’è un altro filo che li unisce?
«Sì, e mi ha colpito molto. Soprattutto i ragazzi nati a cavallo tra i due secoli, quelli andati a votare per la prima volta chiedono una cosa che non mi sarei mai aspettato, viste le premesse. Vorrebbero professori più “impegnati”, che spendessero più tempo a spiegare loro i fondamentali della vita pubblica. Questo, nelle nostre scuole, avviene di rado: i docenti, anche legittimamente, sono prudenti, o addirittura spaventati da polemiche e attriti con i genitori».
Salendo di qualche anno, arriviamo a una generazione più volte definita come perduta: senza lavoro, senza prospettive. Ha influito sul voto?
«Sì, certo. Nelle cene con i miei coetanei l’aria di disincanto era palpabile. Il non voto o la scheda bianca erano la tentazione più condivisa, con frasi del tipo: no, no, questa volta proprio non ce la faccio. Qualcuno ha volutamente “disperso” il voto verso formazioni minuscole, pur sapendo benissimo che non sarebbe stata una scelta decisiva. Ma alla fine, comunque, l’astensionismo nella fascia giovane non è stato oceanico, anzi».
Questo dimostra che non sono stati i giovani gli artefici della rivoluzione: chi sono stati i protagonisti?
«Mai come oggi nella storia dell’Italia, ma penso anche al resto del mondo, c’è una frattura così profonda tra adulti e giovani. A terremotare il panorama politico credo sia stata soprattutto la generazione di mezzo, quella che nel corso di questi anni difficili ha visto rimpicciolire sempre di più il proprio spazio, le proprie certezze. Inascoltati dalle forze tradizionali, le hanno abbandonate. E se i ragazzi sono nati post-ideologici, i loro padri sembrano esserlo diventati per disperazione».
Ma in teoria i giovani dovrebbero essere il motore di una nazione. Come si fa a risollevarsi senza la loro potenza?
«Non lo so, ma non vorrei svegliarmi quarantenne in un paesaggio dove il sentire comune si nutre solo di rancore. Bisogna ricostruire spazi di azione politica. Spesso la mia generazione si affida all’impegno sociale, al volontariato, ed è bellissimo, ma conta anche – per citare il giovane Gobetti, a cui ho dedicato un romanzo – restare politici nel tramonto della politica».
Non pensa che per far questo serva anche un ruolo più attivo degli intellettuali, mai così silenziosi come questa volta?
«Assolutamente sì. Sono, anzi siamo, stati in disparte, per imbarazzo forse: abbiamo smesso di porre temi al centro del dibattito, abbiamo rinunciato a lavorare sulle parole, lasciando che prevalessero le peggiori del vocabolario pubblico, le più pericolose. Prenda la parola “sicurezza”: era in tutti i programmi. Ma cosa significa di preciso? È una parola-bandiera, troppo facile e approssimativa».
Cosa suggerisce ora come rimedio?
«Basta chiudersi dentro le nostre rassicuranti comfort zone. Sono importanti i saloni del libro, ma non bastano. Apriamo le finestre, facciamo entrare domande nuove».
Nel solco di quello che lei dice c’è stata forse anche una sorta di demonizzazione di 5Stelle e Lega. Concorda?
«Demonizzati non so, ma sicuramente c’è diffidenza reciproca. O almeno c’è stata fino all’altro ieri. Salvini e Grillo non amano gli intellettuali – parola che usano come un insulto – e gli intellettuali sembrano (o sembravano) non amare Salvini e Grillo. E ora? Forse rintanarsi in una opposizione astratta, mentale, è facile. Cercare uno spazio di dialogo, con i cittadini più che con i leader, è necessario».
Oltre a sicurezza una delle parole oscure, velenose di questa campagna elettorale è stata «Europa», vista solo in chiave negativa. Che ne pensa?
«Ecco, su questo terreno potrebbero giocare un ruolo decisivo e salvifico i giovani. I più anziani la detestano, riescono a vedere solo i diktat di Bruxelles o della Merkel, ma tra i ragazzi il sentimento è diverso. Per molti di loro l’Europa è una sola immensa città : così l’hanno scoperta e vissuta. Tempo fa, ho fatto un esperimento che mi ha molto emozionato».
Quale?
«Ho domandato, con alcuni amici scrittori, a un gruppo di ragazzi di completare la frase “Se dico Europa”. Dite la prima cosa che viene in mente. Hanno restituito solo esperienze e immagini positive: non politiche, questo no, ma vitali, luminose».
Come si può tradurre questo in politica?
«Ripartendo proprio da un paesaggio emotivo, da una conquista – un continente senza passaporti – che stiamo mettendo in discussione. Sono convinto che se le forze vincenti confermassero le loro spinte anti-europeiste, l’elettorato giovane proverebbe a frenarle».
(da “La Stampa”)
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