“ALMASTRI LO PROCESSIAMO NOI”: IL TRUCCO DEL GOVERNO LIBICO PER FARSI CONSEGNARE IL TORTURATORE, CON LA COMPLICITA’ DEL GOVERNO ITALIANO
C’ERA UN MANDATO D’ARRESTO “IMMEDIATAMENTE ESECUTIVO” MA NESSUNO IN ITALIA GLI HA DATO SEGUITO
Nell’esile carteggio che Tripoli ha spedito a Roma il 20 gennaio scorso per convincere l’Italia a liberare al più presto Almasri “in nome dei comuni obiettivi”, c’è un dato che salta all’occhio. E che avrebbe dovuto far dubitare anche il più sprovveduto dei funzionari: Tripoli rivendica il diritto di procedere in via prioritaria contro il comandante libico perché oggetto di un mandato di cattura emesso dalla procura della capitale, immediatamente – almeno stando a quanto si legge – esecutivo.
Il documento c’è, è stato allegato alla lettera inviata al “gentile ministro Antonio Tajani” nei giorni dell’affaire Almasri e il governo non ha avuto pudore nell’inserirlo nello scarno dossier inviato alla Cpi, per tentare di difendersi dall’accusa di aver tradito il trattato di Roma e i suoi obblighi, a partire da quello che implica l’assicurare un ricercato internazionale alla giustizia. Consta esattamente di 14 righe.
Da Tripoli comunicano che l’ex comandante della Rada “ha avuto un ruolo di comando nelle violenze scoppiate nel quartiere di Abu Salim a Tripoli il 14 agosto 2023” e che “le azioni condotte sotto la sua autorità hanno provocato numerose vittime civili e distruzioni di beni”. Senza fornire ulteriori dettagli, il procuratore aggiunto Mohamed Al Muqaryef chiede di “arrestare l’imputato ovunque si trovi, assicurarlo alla giustizia libica per essere processato secondo le leggi in vigore, collaborazione con le autorità giudiziarie italiane per l’identificazione, detenzione provvisoria e la consegna”.
Ma c’è soprattutto un elemento che stona. Anzi, due. E fanno ragionevolmente pensare a un pasticcio messo insieme ex post neanche troppo ben congegnato.
Primo, la data di emissione del mandato. Stando al documento allegato, quell’ordine sarebbe stato emesso dalla procura di Tripoli il 12 novembre 2024, cioè mesi prima dell’esecuzione del mandato di cattura spiccato dalla Cpi. Peccato che in quei mesi, il comandante libico non si sia affatto nascosto.
Da capo della polizia giudiziaria, che opera – anzi, operava dopo le purghe di ieri – alle dirette dipendenze funzionali della magistratura e dello stesso Procuratore generale nazionale, Sadiq Al-Sur, da novembre a gennaio quando è stato arrestato in Italia non si è certo reso latitante. Ha partecipato a innumerevoli riunioni, convegni, conferenze stampa, protetto dai suoi uomini, non ha mai smesso di girare per Tripoli, né di farsi vedere in uffici pubblici e palazzi di governo. Per arrivare in Europa insieme a cinque compari, ha attraversato i varchi, presidiati dalle forze dell’ordine, dell’aeroporto di Mittiga. Di più: ha mostrato un passaporto, il suo nome è stato inserito nei database degli aeroporti. Perché non lo hanno arrestato?
Secondo elemento: in punta di diritto, l’Italia ha potuto espellerlo, ma non avrebbe mai potuto estradarlo. La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra contro la tortura e per questo Roma, che sì l’ha sottoscritta, ha l’obbligo di non respingere soggetti che nel proprio Paese potrebbero essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Certo, con Almasri non c’era assolutamente il rischio.
I festeggiamenti, come ha rivelato Repubblica organizzati con grande anticipo, per il suo ritorno in Libia non sono stati interrotti da nessun arresto in flagranza. E la fantomatica inchiesta non ha avuto esito alcuno: tre giorni dopo il suo ritorno in Libia a bordo di un Falcon di Stato dell’Italia, la Procura generale si è limitata a comunicare che “le accuse nei suoi confronti sono destituite di ogni fondamento”.
“L’ambasciatore libico in Italia nella missiva di trasmissione del mandato di arresto indirizzata al ministro Tajani chiedeva al Ministro degli esteri di seguire l’iter della procedura ‘al fine di contribuire al raggiungimento degli obiettivi comuni’. Alla fine l’obiettivo comune è stato raggiunto: Almasri è libero di torturare ed uccidere in Libia”, commentano dall’associazione Baobab, che da tempo supporta e segue Lam Magok, uno dei principali testimoni d’accusa nel
procedimento instaurato contro il comandante libico e altri presso la Cpi.
Il suo regno però negli ultimi mesi ha iniziato a scricchiolare. E il terremoto iniziato con l’omicidio del potentissimo capo delle Ssa, Gheniwa, ha finito per travolgere anche lui. Con un tratto di penna, il premier Aldabaiba ha cancellato il dipartimento di polizia giudiziaria che lui comandava e affidato al ministero della giustizia il compito di sparpagliare il personale tra diversi apparati e divisioni. Al comandante Almasri nelle note ufficiali neanche un cenno. E secondo alcuni analisti potrebbe essere diventato tanto ingombrante da candidarsi al ruolo di prossimo obiettivo.
(da La Repubblica)
Leave a Reply