Destra di Popolo.net

PROVINCE GRAN GARAGE D’ITALIA

Novembre 24th, 2013 Riccardo Fucile

GLI ENTI CHE TUTTI (FINGENDO) VOGLIONO ABOLIRE HANNO 3.324 AUTO TRA BLU E GRIGE PER UNA SPESA DI OLTRE 100 MILIONI

Accorpate, rinnovate o eliminate. I governi non sanno dove infilare le 107 province, non sanno come smontare un potere debole e pesante, ma sanno che da Carbonia-Iglesias a Barletta- Andria-Trapani vantano 3.324 auto tra blu (con autista) e grige.
E soltanto queste macchine di rappresentanza o di servizio valgono circa 100 milioni di euro, anzi sono un risparmio mancato di 100 milioni di euro subito e una spesa che s’ingrossa ogni anno.
Il commissario Carlo Cottarelli, esperto di sprechi, ingaggiato per scovare 2 punti di prodotto interno lordo, non faticherà  a tagliare. Se vuole.
Ecco, se cercate un primato, la provincia più spendacciona o la provincia più parsimoniosa, non è semplice.
Perchè i primati sono tanti, diversi. Ci sono quelli che abbondano di autisti e quelli che dispongono (si crede) di un parcheggio enorme.
La provincia di Genova merita di essere citata perchè batte la concorrenza con 93 macchine, ma va distinta con le 106 sorelle perchè 90 sono a noleggio.
Scorrere la cartina geografia è divertente, e soprattutto curioso.
I politici locali siciliani sono famosi per lo sperpero collettivo. Allora con le dita puoi indicare Enna, il distretto più piccino con 172.000 abitanti in totale compreso il capoluogo. Sorpresa: ci sono soltanto 7 automobili.
Attenzione, però: ci sono anche 7 autisti.
Ma se volete evidenziare lo squilibrio più clamoroso, dovete tornare su: in Molise, a Isernia. Una provincia da 86.000 cittadini, la penultima in assoluto, più popolata solo di Ogliastra (Sardegna).
L’Amministrazione di Isernia può contare su 32 macchine e 12 autisti.
Per avere una sensazione generale, per trovare la tendenza che non cambia, perdonate la corsa tra il Centro e il Sud d’Italia, torniamo in Sicilia.
E Catania non delude, mai: 36 automobili e 34 autisti. I catanesi sono rivali dei vicini messinesi, sconfitti in questa competizione che non aiuta le casse pubbliche.
A Messina ci sono 42 macchine e 24 autisti.
A Ragusa preferiscono la qualità : 3 Bmw di imponente cilindrata e 9 guidatori assunti. Potremmo lasciare la Sicilia e scalare ancora l’Italia.
Ma va chiesto: e Palermo, dov’è? Vi stupirete, però, la capitale isolana ha dichiarato la modestia di 13 autovetture.
Quasi un terzo di Catania. In Calabria, senza andare troppo al Nord, Cosenza ha la supremazia: 27 macchine e 17 autisti.
Il particolare gustoso lo regala Catanzaro: avevano bisogno di una Smart, agile per le metropoli, e l’hanno comprata.
La Campania è il mondo capovolto: la Provincia con meno macchine è quella di Napoli (9), stravince Avellino con 20.
Il Lazio va studiato. La provincia di Roma non ha ricollocato gli autisti, che sono 18, ma ha ridotto le automobili a   50.
Direte: sarà  l’ente laziale più esoso. Errore. Perchè a Frosinone di macchine ne hanno 52, a Viterbo 61.
Anche in Toscana va di moda la medesima eccezione: Firenze che si ferma a quota 18, Pisa che svetta a 84 macchine.
Chissà  con che criterio vengono acquistate le automobili. No, i luoghi comuni sono inutili. Perchè al Nord le abitudini non mutano.
Per la provincia di Pavia sono necessarie 66 automobili, a Milano ne sono sufficienti 72: c’è una differenza di 2,5 milioni di abitanti.
Anche Cuneo fa peggio (o meglio) di Torino con 86 macchine a 83.
Ma fa sorridere che a Torino, (patria Fiat, la marca più utilizzata ovunque), in garage ci siano ben 8 esemplari di Daihatsu, la casa giapponese che da quest’anno non vende più in Europa.
Da segnalare Lecce, che ha snobbato Agnelli e Marchionne, e s’è presa 13 Opel e 11 Fiat su 40 macchine. Restiamo in Puglia.
Perchè il buon esempio arriva da Bat, sigla che sta per Barletta- Andria-Trani: una macchina una. E Macerata, 6.
Però a Pesaro-Urbino ne vogliono 63, almeno.
Non va inserita nell’elenco perchè autonoma, ma la Provincia di Bolzano è senz’altro fra le più ricche: 12 macchine tra Bmw, Audi e Mercedes ed esattamente 12 autisti. Cottarelli dice che vuole fare come l’Inghilterra: auto blu solo al ministro.
Siccome le province resistono e fatturano; siccome non possono viaggiare a piedi, Cottarelli può fare una domanda: perchè a Viterbo occorrono 61 macchine, mentre a Napoli ne bastano 9?

Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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SE SI SOPPRIMESSERO LE PROVINCE UNDICIMILA NUOVI POSTI NEGLI ASILI NIDO

Novembre 4th, 2013 Riccardo Fucile

DALLE CONSULENZE ALLE SPESE CORRENTI, LE STIME DEI MINISTERI SUI BENEFICI DELLA CHIUSURA… INEFFICIENZE PER 2,6 MILIARDI

È una sfiancante guerra di trincea, quella che si combatte sul destino delle Province. Una guerra cui neppure i calcoli sui risparmi che si potrebbero ottenere eliminando i soli apparati politici, equivalenti secondo un dossier del ministero degli Affari regionali a 11.300 nuovi posti negli asili nido italiani, afflitti da un deficit drammatico, riesce a imprimere una svolta.
Una guerra nella quale un Paese che ha un disperato bisogno di tagliare la spesa pubblica è invischiato ormai da anni, nonostante non ci sia stata una forza politica che non si sia schierata per l’abolizione di quegli enti.
E le armi più acuminate sono i numeri che si scambiano i due schieramenti opposti.
Da una parte i bellicosi esponenti del partito delle Province, rianimati dalla sentenza della Consulta, affermano che la soppressione produrrebbe un aumento dei costi (tesi cara all’Upi). Un paio di miliardi l’anno, addirittura.
L’obiettivo è almeno allungare i tempi della legge del ministro Graziano Delrio per arrivare fino alla prossima primavera, contando che a quel punto sarà  impossibile non andare a votare per rinnovare più di 70 consigli provinciali: con il risultato di mettersi al sicuro per altri cinque anni.
Dall’altra chi è determinato a fiaccarne la resistenza, con l’obbligo di far passare prima di Natale quel provvedimento, oggetto di una estenuante melina in commissione alla Camera presieduta dal pidiellino Francesco Paolo Sisto, snocciola dati completamente diversi.
A cominciare dai 113 milioni e 630 mila euro stimati dalla Bocconi come costo per le sole indennità  degli oltre 4.200 politici provinciali: dai presidenti delle giunte ai consiglieri.
Somma che come dicevamo potrebbe essere investita secondo il ministero di Delrio in 11.300 nuovi posti negli asili nido.
Oppure nel dissesto idrogeologico del Paese, considerando che lo stanziamento statale per affrontare quel gravissimo problema non raggiunge un quarto di tale cifra.
Ma è niente, rispetto ai risparmi che quel dossier ministeriale ipotizza.
Per esempio, le spese correnti amministrative delle Province.
Ammontano a 2,3 miliardi: dei quali sarebbero aggredibili un miliardo 335 milioni, considerando che il costo del personale, pari al 43 per cento del totale, non verrebbe toccato: i dipendenti resterebbero in carico alla Provincia, trasformata in organismo non più elettivo con funzioni ridotte, o transiterebbero in forza ad altri enti.
Di più. L’analisi condotta dalla Sose (Soluzioni per il sistema economico), società  di consulenza e servizi controllata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia, nel 2012 ha stimato per la spesa di beni e servizi delle Province un tasso di inefficienza pari al 31,44 per cento, calcolando un risparmio possibile di 2 miliardi 612 milioni di euro a fronte di una massa di risorse pari a 8 miliardi 297 milioni.
Dalle sole spese per gli organi istituzionali, le consulenze, le collaborazioni e i contratti di cosiddetto «global service» si potrebbero recuperare oltre 553 milioni, considerando una inefficienza addirittura superiore.
Pari in questi campi, secondo Sose, al 55,36 per cento.
Per tutta risposta, l’Unione delle Province argomenta che l’aumento dei costi colpirebbe settori nevralgici, come quello delle scuole.
Dice l’associazione guidata dal democratico presidente della Provincia di Torino Antonino Saitta che la spesa per riscaldarle, una volta che la funzione venisse trasferita ai Comuni, lieviterebbe del 53 per cento: 424 milioni in più.
Opposta la tesi del dossier Delrio, che porta alcuni esempi. Come un paragone fra le scuole gestite dalla nuova Provincia di Fermo e dai Comuni che la compongono: considerando tra l’altro che metà  delle scuole «provinciali» si trova proprio nella città  di Fermo.
Comune che spende per riscaldare i propri plessi scolastici 7,48 euro al metro quadrato contro gli 8,55 della Provincia.
La differenza è del 13 per cento, che però sale al 28 per cento se si prende in esame il dato del Comune più virtuoso.
Lo stesso accade anche in altre Province.
Quella di Treviso spende per riscaldare le scuole il 22 per cento più del Comune di Vittorio Veneto, quella di Reggio Emilia il 33 per cento più del Comune di Novellara, quella di Milano il 46 per cento in più rispetto a Sesto San Giovanni, quella di Parma il 68 per cento più di Sorbolo…
«Se adottiamo lo stesso criterio utilizzato dall’Upi e calcoliamo la media dei risparmi dei Comuni virtuosi», conclude il dossier del ministero degli Affari regionali, «avremo dunque un risparmio medio del 39 per cento corrispondente, rispetto ai costi sostenuti dalle Province nel 2012 per riscaldare tutti gli edifici scolastici, pari a 312 milioni)».
Per non parlare poi dei risparmi indiretti che si conseguirebbero con la riduzione dei livelli amministrativi e la dismissione di un patrimonio immobiliare spesso ridondante.
Nonchè la probabile (e auspicabile) eliminazione di uno strato di centinaia di società  pubbliche spesso funzionali al solo mantenimento di poltrone, quando non inutili o in perdita.
Per avere un’idea delle dimensioni di questo aspetto, si consideri che la sola Provincia di Bergamo ha 33 partecipazioni in società  di capitali.
Mentre la Provincia di Reggio Calabria controlla il 69 per cento della società  che gestisce il locale piccolo aeroporto, in grado di accumulare nei dieci anni dal 2001 al 2010 perdite per 27 milioni senza mai chiudere un esercizio in utile.
Sappiamo che l’abolizione delle Province, o almeno la loro trasformazione in «agenzie di area vasta» non può essere la soluzione definitiva di un problema molto più complesso, che riguarda l’assetto di un sistema istituzionale disarticolato, confuso e costosissimo, con inutili duplicazioni e sovrapposizioni di competenze, e un numero assurdo di livelli amministrativi.
Ma è comunque un passo avanti ineludibile. Poi si dovrà  necessariamente mettere mano a funzioni e ruolo delle Regioni: molto più potenti e agguerrite delle Province .

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)

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PROVINCE, LA SUPERCAZZOLA DELL’ABOLIZIONE

Luglio 28th, 2013 Riccardo Fucile

INVECE CHE ABOLIRLE INTANTO SI PROROGANO… E DIETRO LE CITTA’ METROPOLITANE RISPUNTANO LE ELEZIONI

Dimenticate il sodoku o la settimana enigmistica, se volete tenere sveglio il cervello sotto l’ombrellone seguite il processo legislativo di abolizione delle Province.
Dopo il disegno di legge costituzionale che dovrà  cancellare la parola “Province” dalla Costituzione, il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge “recante disposizioni sulle città  metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni comunali”. Ma come, ancora le Province?
Ebbene sì, perchè per abolirle bisogna prima prorogarle, anche se soltanto come coordinamento di sindaci.
La linea è di trasferire le competenze dalle Province alle Città  metropolitane, nel caso dei grandi centri, o alle Unioni di Comuni.
Dal primo gennaio 2014 a fianco delle Province-zombie (che resistono finchè non cambia la Costituzione) nasceranno finalmente le Città  metropolitane, rimaste sulla carta per oltre 20 anni: Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria.
Nei primi sei mesi di vita devono soltanto approvare lo statuto poi, si spera, le Province svaniranno e si prenderanno altri poteri.
Il lettore medio si chiederà : che senso ha abolire le Province se al loro posto compaiono Città  metropolitane che hanno la stessa forma e circa le stesse competenze?
Risposta: invece che consiglieri provinciali, giunta, presidente eccettera ci sarà  semplicemente una riunione dei sindaci dei Comuni dell’area della Città  metropolitana. Quindi niente elezioni provinciali, niente stipendi dei consiglieri, niente poltrone da assessori.
Tutto così semplice? Ovviamente no: l’articolo 4 della legge prevede che il “sindaco metropolitano” (che sostituirà  il presidente della Provincia) sia di diritto il sindaco del Comune capoluogo e che il Consiglio metropolitano sia eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio.
C’è anche una seconda opzione: le Città  metropolitane possono darsi anche uno statuto con “elezione a suffragio universale del sindaco metropolitano e del Consiglio metropolitano”, con apposita legge elettorale da approvare entro tre anni.
Rispuntano le elezioni, quindi. Ma soltanto come competizione tra sindaci (per diventare super-sindaco metropolitano) e tra consiglieri comunali (per diventare super-consiglieri metropolitani).
Unico dato positivo: la doppia carica non prevede doppio stipendio.
Ma questo è il meno, forse.
A Roma, che è il caso più complicato, i Comuni che non aderiscono (devono scegliere) alla Città  metropolitana rimarranno sotto l’ombrello della Provincia-zombie, che continuerà  a d esistere “limitatamente al territorio residuo rispetto a quello della Città  metropolitana di Roma Capitale”.
E Città  e Provincia dovrebbero spartirsi risorse e personale secondo le competenze che hanno.
Un virtuosismo amministrativo che dovrebbe compiersi rispettando l’ultimo comma del disegno di legge, secondo cui “dall’attuazione della presente legge non possono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.
Il solito Antonino Saitta, presidente dell’Upi, solleva il punto dei dipendenti delle Province “che a seguito dello svuotamento delle funzioni dovranno essere trasferiti ai Comuni singoli o associati con tutti i rischi di mobilità  che tale processo comporta”.
Vi siete persi? In effetti è complicato.
Ma potrebbe diventare molto peggio se questa maggioranza non riuscisse ad approvare il disegno di legge costituzionale in tempo.
Che succede se le Province restano in Costituzione anche al termine della fase transitoria? O se le Province attuali — in gran parte commissariate — non approvano la riforma per diventare coordinamenti di sindaci?
Chissà . Meglio non scoprirlo mai.
Ma se il governo cerca di infilare l’abolizione definitiva delle Province nel progetto più ampio di riforma della Costituzione in discussione, le possibilità  di una serena approvazione diminuiscono parecchio.

Stefano Feltri
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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IL SOGNO DI UN’ITALIA SENZA REGIONI E PROVINCE MA CON 36 DIPARTIMENTI

Luglio 24th, 2013 Riccardo Fucile

LA PROPOSTA DELLA SOCIETA’ GEOGRAFICA ITALIANA PER RENDERE OMOGENEE LE AREE   E RIDURRE GLI SPRECHI

Il termine non è particolarmente elegante, ma rende bene l’idea di quanto accaduto in Italia nel dopoguerra: «Iperterritorializzazione».
All’inizio, spiega la Società  geografica italiana, c’erano le Province, retaggio tipico di un Risorgimento che aveva rinnegato il federalismo.
Lo Stato unitario era stato modellato sull’organizzazione centralistica di stampo napoleonico con 59 ripartizioni territoriali di dimensioni ottimali per poter essere attraversate in una giornata di cavallo.
Poi sono arrivate le Regioni, le quali avrebbero dovuto mettere fine a quel modello avviando la stagione delle autonomie e del decentramento.
Invece le Province hanno preso a lievitare come la panna montata.
Alla nascita delle Regioni, nel 1970, erano 94, tre in più rispetto al 1947.
Oggi sono 110. E con loro si moltiplicavano Unioni dei Comuni, Comunità  montane, Comunità  collinari, Circoscrizioni comunali, Circondari, Aree di sviluppo industriale, Ambiti turistici, Centri per l’impiego…
Per non parlare dell’inestricabile groviglio degli enti intermedi fra Comuni, Province e Regioni: dalle aziende sanitarie locali alle migliaia di società  pubbliche locali, agli ambiti territoriali ottimali, ai consorzi di bonifica, perfino alle istituzioni scolastiche. E l’autonomia si è trasformata in un delirio.
Sovrapposizioni di competenze, duplicazione di funzioni, moltiplicazione di responsabilità  senza che nessuno sia davvero responsabile.
Il tutto con ben cinque Regioni (o sei, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano) a statuto talmente speciale da metterle di fatto al riparo da qualunque condizionamento centrale.
Un coacervo talmente complicato che nessuno è oggi nemmeno in grado di dire con esattezza quante siano in Italia le pubbliche amministrazioni: una recente ricognizione le ha stimate in un numero prossimo a 46 mila.
Ma oltre una semplice stima non si è ancora riusciti ad andare, appunto.
Il che la dice lunga sul disordine prodotto da questa superfetazione incontrollata di livelli amministrativi.
La riforma del titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra nel 2001 ha poi contribuito a far impazzire definitivamente la maionese, decentrando poteri spesso in modo irrazionale: basti dire che ogni Regione poteva farsi il bilancio con principi contabili propri, e che fra le materie di concorrenza legislativa fra Stato e Regioni era stato messo anche il lavoro.
Come se le aziende del Lazio potessero avere sui contratti relativi agli stessi mestieri regole diverse da quelle della Campania.
Non è un caso, dunque, che proprio dall’inizio del nuovo secolo la spesa pubblica abbia cominciato ad aumentare esponenzialmente: in dieci anni i bilanci regionali sono raddoppiati, senza che alla crescita delle spese in periferia abbia corrisposto una riduzione analoga delle spese dello Stato centrale.
E fare marcia indietro ora si rivela complicatissimo, come dimostra la telenovela dell’abolizione delle Province.
Parte da qui un’idea che la Società  geografica italiana aveva già  presentato all’inizio di marzo, provando a immaginare un’Italia con una articolazione territoriale completamente diversa.
Senza più le 110 Province (109 al netto della valle d’Aosta, dove Provincia e Regione coincidono), nè le 20 Regioni (21, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano): al loro posto 36 dipartimenti regionali più omogenei per radici storiche e fondamentali economici.
Qualche esempio aiuta a capire.
L’attuale Piemonte verrebbe suddiviso in tre Regioni più piccole: una comprendente i territori di Asti, Cuneo e Alessandria, la seconda coincidente con la Provincia di Torino e la terza ottenuta dall’unione di Novara, Vercelli e la Valle D’Aosta.
Ancora. Le Province di Brescia, Verona e Mantova dovrebbero dare luogo a una piccola Regione a cavallo fra l’attuale Lombardia e il Veneto.
Così come al Sud si unirebbero Campobasso e Foggia. Mentre La Spezia confluirebbe nella piccola Regione tirrenica composta da Pisa, Livorno, Lucca e Massa Carrara.
Gli unici dipartimenti a coincidere con gli attuali confini regionali sarebbero Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.
Facile immaginare le possibili reazioni: non troppo differenti, supponiamo, da quelle che hanno accolto, impallinandola, la proposta di accorpamento delle Province partorita dall’ex ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi.
Pensate alla fusione fra Pisa e Livorno. Con Lucca, poi…
E l’integrazione fra Firenze e Prato? Ci sono voluti decenni per dividere le due Province e ora di nuovo insieme, per giunta con Pistoia e Arezzo.
Come spiegare poi a viterbesi e reatini che il loro destino sarebbe di confluire in una microregione con Roma?
O ai cremonesi che la via maestra li porterebbe nelle braccia di Parma e Piacenza?
Niente più che una simulazione, ovvio.
Con zero speranze di fare breccia nel marasma legislativo, dove, ancora prima di vedere la luce, il disegno di legge che svuota le Province cui sta lavorando il ministro Graziano Delrio non ha vita facile.
Ma con l’aria che tira può essere già  considerato un successo, per la Società  geografica ora presieduta da Sergio Conti, che la proposta venga esaminata da un «tavolo tecnico» al ministero degli Affari regionali con il sottosegretario Walter Ferrazza, candidato senza fortuna alle ultime politiche con il Mir di Gianpiero Samorì e poi ripescato al governo, nonchè tuttora sindaco di Bocenago, 400 abitanti in Provincia di Trento.
Il quale si ritrova fra le mani un autentico scoop.
Per la prima volta, da quando esistono le Regioni, sul tavolo del governo c’è una proposta che sia pure come caso di scuola ne mette in discussione la loro stessa esistenza: sulla base di quell’assunto del famoso geografo Calogero Muscarà  che nel 1968, un paio d’anni prima che venissero create, le definì «una conchiglia vuota sul piano identitario».
Un guscio che però negli anni si è riempito di potere e soprattutto denaro.
Tanto denaro: ogni anno le Regioni gestiscono più di 200 miliardi di euro.
Oltre un quarto di tutta la spesa pubblica.

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)

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PROVINCE IMMORTALI, LA CONSULTA CANCELLA MONTI

Luglio 4th, 2013 Riccardo Fucile

I GIUDICI: “NON SI POSSONO ELIMINARE PER DECRETO”, PER FARLO BISOGNA MODIFICARE LA COSTITUZIONE… LA CASTA FESTEGGIA: RESTERANNO INCOLLATI ALLA POLTRONA ANCORA PER ANNI

Salva Italia? Tiè. La Corte costituzionale, con una sentenza che lascia pochi margini ai dubbi, boccia senza appello il taglio delle Province deciso per decreto legge e confermato dal voto del Parlamento all’epoca del governo dei tecnici guidato da Mario Monti.
Lo strumento del decreto legge non può essere adoperato per organizzare una materia costituzionale come quella dell’esistenza in vita delle Province (espressamente indicata in Costituzione al Titolo V) o della loro razionalizzazione.
L’epitaffio della nota dei giudici costituzionali è senza scampo per chi aveva pensato di poter cancellare le Province con il sistema spiccio della decretazione d’urgenza: “Il decreto legge, atto destinato a fronteggiare casi straordinari di necessità  e urgenza, è strumento normativo non utilizzabile per realizzare una riforma organica e di sistema, quale quella prevista dalle norme censurate nel presente giudizio”.
L’ennesima frittata istituzionale è servita.
Attraverso il Salva Italia definito giusto ieri “incostituzionale”, infatti, nel 2012 non sono andate al voto le province di Ancona, Belluno, Cagliari, Caltanissetta, Como, Genova, La Spezia, Ragusa, Vicenza e Ancona, e nel 2013, ancora, quelle di Roma, Agrigento, Asti, Benevento, Catania, Catanzaro, Enna, Foggia, Massa-Carrara, Messina, Palermo, Trapani, Varese e Vibo Valentia.
Per loro, adesso, si apre il limbo di commissariamenti senza prospettive, in attesa del giudizio che daranno la commissione per le Riforme costituzionali e il governo in un percorso che se va come deve andare potrà  durare almeno un paio d’anni.
E allora che si fa?
Adesso il governo, per bocca del ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello , afferma di avere fretta: “L’odierna sentenza della Corte Costituzionale sulle Province — afferma il ministro — rende ancora più importante intervenire attraverso le riforme costituzionali sull’intero Titolo V, in particolare per semplificare e razionalizzare l’assetto degli enti territoriali. È il tempo di rendersi conto che mancate riforme e scorciatoie hanno un costo anche economico che in un momento di così grave crisi il Paese non può più sopportare”.
È una frase che suona disperata, mentre i rappresentanti delle Province festeggiano la vittoria.
Il presidente dell’Unione delle Province italiane (Upi) Antonio Saitta centra un punto: “Nessuna motivazione economica era giustificata e quindi la decretazione d’urgenza non poteva essere la strada legittima”.
Constata Saitta: “Per riformare il Paese si deve agire con il pieno concerto di tutte le istituzioni, rispettando il dettato costituzionale. Non si possono sospendere elezioni democratiche di organi costituzionali con decreto legge. Non si può pensare di utilizzare motivazioni economiche, del tutto inconsistenti, per mettere mani su pezzi del sistema istituzionale del Paese”.
È un tema che nella contesa giuridica è stato fatto proprio anche da tre dei “saggi” che siedono nella commissione per le Riforme costituzionali istituita dal governo su inpulso del Quirinale: Beniamino Caravita di Toritto che era difensore di Lombardia e Campania, Giandomenico Falcon (difensore del Friuli Venezia Giulia) e Massimo Luciani (che ha patrocinato la Sardegna).
La loro idea di riforma, anche in seno all’assemblea delle riforme, è più conservatrice. Le Province resistono.
Il taglio da “2 miliardi di euro”, previsto da anni con la loro soppressione, si allontana.

Eduardo Di Blasi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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MA QUALE ABOLIZIONE, LE PROVINCE RESISTONO ANCORA

Luglio 1st, 2013 Riccardo Fucile

DOVESSE PASSARE IL COMPLESSO DISEGNO COSTITUZIONALE STUDIATO DAI “SAGGI”, SARANNO POI LE SINGOLE REGIONI A DOVER SCEGLIERE SE CONSERVARE GLI ENTI INTERMEDI

La circostanza più incredibile è stata, nell’aprile scorso, l’elezione del nuovo consiglio provinciale di Udine.
Ma come? In attesa della loro definitiva abolizione, il decreto “Salva Italia” non aveva previsto che non si votasse più per eleggere i presidenti di Provincia?
Il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, ha ritenuto di non tener conto della legge nazionale del governo Monti che fino ad allora aveva commissariato Province come: Ancona, Belluno, Cagliari, Caltanissetta, Como, Genova, La Spezia, Ragusa, Vicenza e Ancona nel 2012.
E poi Roma, Agrigento, Asti, Benevento, Catania, Catanzaro, Enna, Foggia, Massa-Carrara, Messina, Palermo, Trapani, Varese e Vibo Valentia nel 2013.
Adesso viviamo una situazione di paradosso: ci sono enti provinciali eletti prima dell’entrata in vigore della legge che continuano fino a scadenza, enti provinciali retti da prefetti e commissari, enti provinciali, segnatamente quello di Udine, che hanno anche rinnovato le proprie cariche elettive.
Su tutto ciò pesa ancora presso la Consulta il ricorso presentato nell’ottobre del 2012 da 8 Regioni che contestavano l’idea di poter normare materie complesse di natura costituzionale (le Province sono espressamente citate al Titolo V, articolo 114) attraverso una decretazione d’urgenza. La corte costituzionale dovrebbe pronunciarsi il 2 luglio — la partita riguarda nello specifico l’elezione diretta di consigli e giunte che sono state “congelate” in attesa degli eventi.
Da luglio in poi, dunque, il governo Letta dovrebbe contribuire a mettere mano a una complessa riforma costituzionale già  elencata dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Graziano Delrio nelle sue scadenze ma non nei suoi contenuti.
Le linee guida del governo enunciate dal ministro in un’intervista al Corriere della Sera del 26 maggio scorso chiarivano due questioni.
La prima: nessuno dei 53mila dipendenti provinciali sarebbe stato mandato a casa.
La seconda: il governo mostrava una fretta che nei fatti non riesce a mantenere.
Delrio aveva infatti predetto che “prima dell’estate” si sarebbe dovuta mettere in moto la macchina, non con uno ma con ben due provvedimenti: il primo di natura costituzionale per stralciare le Province dalla Carta.
L’altro di natura amministrativa per redistribuire funzioni e ambiti territoriali delle nuove realtà  che andrebbero a sostituire le Province.
Al 29 di giugno, con l’estate in casa, la partita è in mano alla commissione dei Saggi il cui orientamento (le riunioni riprenderanno lunedì e continueranno nelle settimane a venire), è quello di far approvare un provvedimento costituzionale per delegare poi le singole Regioni.
Ai singoli governatori sarà  chiesto: avete bisogno di quegli enti intermedi o no?
E a seconda della modulazione di quella risposta avremo più o meno “Province”.
Niente abolizione tout court, dunque, ma un processo lungo e anche incerto, poichè legato alle riforme costituzionali appese all’esistenza stessa del governo Letta per un periodo congruo.
Per capirci è il modello che oggi stanno seguendo le Regioni a statuto speciale come la Sicilia, la Sardegna e il Friuli.
Non tutte (si veda per l’appunto l’elezione di Udine) potrebbero decidere per la cancellazione degli enti.
Così, dopo le promesse pre e post elettorali contro gli “stipendifici” delle Province, ancora una volta i partiti vengono meno a quanto dichiarato.
Con la cancellazione delle Province, al netto della conservazione del personale che andrebbe redistribuito nella macchina pubblica, e delle funzioni che qualcuno dovrà  pur sostenere (scuole superiori, strade provinciali, formazione, ambiente e trasporti per citare le maggiori), si stima un risparmio di due miliardi sui 12 che oggi costano.
Per adesso, con il “congelamento” di una ventina di elezioni provinciali, si è riusciti a risparmiare un quinto dei 110 milioni di euro che pesano annualmente giunte e consigli provinciali.
Con il timore che la Consulta, martedì, possa decidere di far tornare a eleggere anche presidenti e consiglieri.

Eduardo Di Blasi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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L’ELENCO DEI TAGLI (SOLTANTO) ANNUNCIATI

Maggio 24th, 2013 Riccardo Fucile

PICCOLI TRIBUNALI RESISTONO ANCORA, DECISO IL RINVIO DI UN ANNO… NULLA DI FATTO SULL’ABOLIZIONE DELLE PROVINCE

Smontare il poco che è stato già  fatto: la regola base cui si attiene scrupolosamente ogni nuovo Parlamento è destinata a segnare anche l’avvio di questa legislatura.
Ecco allora spuntare nella commissione Giustizia del Senato, presieduta dall’ex Guardasigilli del governo Berlusconi Francesco Nitto Palma, il rinvio di un anno dei tagli agli uffici giudiziari voluto dal precedente governo.
D’accordo il centrosinistra, che ha proposto la proroga: «Le norme hanno creato in vari territori disfunzioni pesanti e dubbi di legittimità  anche costituzionale», dice la proposta di legge di cui è primo firmatario l’ex magistrato Felice Casson.
D’accordo il centrodestra: «È un testo che crea molti problemi, ci sono diverse cose da fare e per questo serve tempo», dice il senatore pidiellino Giacomo Caliendo.
D’accordo con la proroga anche i grillini e perfino Scelta civica di Mario Monti, proprio il premier del governo autore della riforma che senza lo stop avrebbe tagliato 31 piccoli tribunali e 220 sedi distaccate.
Risparmio stimato, 17 milioni l’anno.
Difficile dire se siano più insormontabili i problemi tecnici che pure ci saranno, o invece le allergie politiche locali allo smantellamento di posti di lavoro pubblici.
Ma che dopo tre mesi di paralisi parlamentare si parta innestando la retromarcia, non depone proprio bene.
Del resto è un segnale perfettamente in linea con la conclusione della legislatura precedente, spentasi affossando la riformina delle Province.
Non era certo l’abolizione: un semplice accorpamento. Comunque avrebbe fatto risparmiare 500 milioni, sepolti in Parlamento sotto una irridente gragnuola di emendamenti.
Non possono dunque non far ripensare a quella storia le dichiarazioni di chi, oggi, torna a parlare di abolizione delle Province: sono gli stessi partiti che l’hanno affossata. Di più. Un mesetto fa, in barba al decreto «salva Italia» che a fine 2011 aveva comunque privato le Province dell’elezione diretta da parte dei cittadini, si è votato per il rinnovo del consiglio provinciale di Udine.
Quale migliore prova dell’esistenza di «nodi aperti» che secondo Graziano Delrio renderebbero complicata l’eliminazione di quegli enti, se non questa?
Lo stesso ministro degli Affari regionali si è spinto a rilanciare pubblicamente il federalismo. I suoi colleghi l’avranno guardato come un extraterrestre.
Perchè quella è una parola che non va più di moda da un bel pezzo.
Il federalismo è completamente arenato. A cominciare da quello fiscale, per continuare con quello demaniale e finire con i costi standard.
Già , chi se li ricorda più?
Eppure era il meccanismo pensato per farla finita con le siringhe pagate dagli ospedali del Sud il doppio che dagli ospedali del Nord.
Niente di così complicato: soltanto una cosa di buonsenso.
Ma chissà  perchè quando si tratta di risparmiare soldi pubblici diventa tutto difficile.
Così anche il piano di riordino degli incentivi industriali cui aveva lavorato l’economista Francesco Giavazzi, e per il quale inizialmente erano stati stimati risparmi di 10 miliardi l’anno, si è misteriosamente spiaggiato.
E pensare che il governo Letta non sa dove trovare i quattrini per gli sgravi fiscali, il taglio dell’Imu, il salvataggio degli esodati…
Altrettanto misteriosamente si arenano leggi alle quali tutti si dichiarano favorevoli.
Per trovare qualcuno che sia contrario alla riduzione del numero dei parlamentari bisogna andarlo a cercare con il lanternino.
Al Senato, nella scorsa legislatura, sono andati avanti per mesi a negoziare tagli e sforbiciatine.
Quando però si è arrivati al dunque, la riforma costituzionale è rimasta nel cassetto insieme all’abolizione del bicameralismo perfetto.
A un passo dal traguardo c’è sempre qualcuno che fa «più uno!», e magicamente tutto si ferma.
Nella fattispecie, il Pdl voleva accoppiare il taglio di deputati e senatori al presidenzialismo.
E l’accordo è evaporato.
Per la riforma elettorale, invece, non c’è stato nemmeno bisogno di rilanciare. A nulla hanno portato 46 disegni di legge e 24 proposte di iniziativa popolare: il Porcellum nessuno lo voleva cambiare.
Nè ora le prospettive sono migliori, com’è chiaro dalle inconcludenti schermaglie cui stiamo assistendo. Se avremo un sistema elettorale meno indecente di quello attuale sarà  solo dopo che la Consulta ne avrà  decretato l’illegittimità  costituzionale.
Ma non aspettiamoci miracoli nemmeno su altri fronti. E ce ne sono davvero tanti.
Del tutto escluso, per esempio, è che si possa assistere a qualche inasprimento delle misure anticorruzione, magari con l’introduzione del falso in bilancio o del reato di autoriciclaggio: le norme approvate in Parlamento prima delle elezioni sembrano un brodino tiepido.
E anche se il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando ha rivelato un «accordo con il ministro dell’Agricoltura Nunzia Di Girolamo» per riprendere il tema della limitazione al consumo di suolo aperto la scorsa estate con un disegno di legge dell’ex ministro Mario Catania (sperduto anch’esso nei cassetti rigonfi di buoni propositi), su quel fronte siamo ancora alle pie intenzioni.
Idem sulle norme relative alla natura giuridica dei partiti, che riguardano un articolo della Costituzione (il numero 49) mai attuato compiutamente in 65 anni: l’iter della legge quasi in dirittura d’arrivo pochi mesi fa si è esaurito insieme alla legislatura e le proposte sfornate questi giorni assomigliano più a un tentativo di mettere il dito nell’occhio di Beppe Grillo che alla soluzione del problema.
Per non parlare poi delle tante riforme arrivate a un passo dall’approvazione e mai diventate legge, dalle adozioni al testamento biologico, al divorzio breve.
Talvolta, però, la paralisi non è colpa della cattiva volontà  dei politici.
Dipende dalle decine di norme attuative che non vedono la luce rendendo inapplicabili i provvedimenti.
Quando non da indolenze locali, spesso per cause impalpabili.
Un caso? La liberalizzazione delle farmacie.
Il decreto Monti prevede l’apertura di 4.500 nuovi punti vendita tramite gare a cura delle Regioni. Doveva concludersi tutto lo scorso 24 marzo. Ma non è successo ovunque.
Nel Lazio siamo ancora a carissimo amico: sostengono che il termine del 24 marzo non era perentorio…

Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)

argomento: Politica, Provincia, sprechi | Commenta »

ABOLIRE LE PROVINCE? INTANTO I PRESIDENTI LEGHISTI CHIEDONO SOLDI

Maggio 9th, 2013 Riccardo Fucile

APPELLI AL GOVERNO PER LIMITARE I TAGLI “AGLI ENTI VIRTUOSI”, OVVERO CHIARAMENTE QUELLI GESTITI DA LORO

Che senso ha rimpinguare le casse di enti ormai “morituri”?
Ma le Province lombarde non mollano e pretendono che siano confermati i 170 milioni di euro di trasferimenti statali, smentendo quanto il governo Monti aveva deciso, cioè sforbiciare dal bilancio statale quella cifra.
“Su un taglio totale di un miliardo e duecento milioni di euro al sistema complessivo delle Province per il 2013 — spiega   il presidente dell’Unione Province Lombarde Massimo Sertori –   le nostre avranno una riduzione di circa 6 milioni in più di quanto preventivato. Questo andrà  a incidere pesantemente su una situazione già  critica”.
Sertori, che è anche il presidente della Provincia di Sondrio, uno degli enti che doveva essere tagliato, prima di essere salvato perchè a tutela di un’importante specificità  territoriale e poi perchè della legge anti-province non se ne fece più niente, vorrebbe che ora il Governo smentisse quanto deciso da Monti, “prevedendo — spiega — che per le Province virtuose e operose come le lombarde sia possibile ridurre i tagli di almeno il 30%”. Secondo l’esponente della Lega Nord “la nostra gente deve sapere che questo riparto è stato fatto anche per trovare una soluzione al caso del tutto eccezionale delle Province campane impegnate nell’emergenza rifiuti, ma che è assurdo porre a carico di altre Province”.
Dalle parole ai fatti è passata un’altra amministrazione provinciale leghista, quella di Lodi, anche lei tra le prime a dover essere depennata.
Anche se qui il Governo nel 2013 farà  arrivare 5 milioni e 300 mila euro in meno di contributi pubblici.
Detto questo l’ente ha promesso battaglia.
Infatti, la giunta provinciale lodigiana — per bocca del suo Presidente, Pietro Foroni — ha fatto sapere che ricorrerà  al Tar del Lazio per bloccare i tagli di Roma.
Foroni, che è dimissionario, vista la sua nuova carica di consigliere regionale, ha parlato dei rischi di un provvedimento che toglierà  al suo ente risorse necessarie per servizi essenziali al cittadino.
Gli fa eco il presidente dell’Unione delle Province d’Italia, Antonio Saitta, che dal canto suo prova a rilanciare: “Con l’eliminazione delle Province non si produrrebbero risparmi, ma aumento della spesa pubblica, visto che si metterebbe il personale in mobilità  e crollerebbe il livello dei servizi ai cittadini”.
Le Province, insomma, non ci stanno a essere cancellate e cercano di vendere cara la pelle. Dall’Upi fanno notare che se dovesse essere attuato quanto stabilito di recente dal decreto sui pagamenti alle imprese della Pubblica Amministrazione — uno degli ultimi atti del Governo dei tecnici — che contiene anche un netto taglio alle risorse delle Province, le stesse rischierebbero il dissesto economico.
Il neopresidente del Consiglio Enrico Letta, lo ha però detto chiaramente, addirittura nel suo discorso di investitura: “Le Province vanno abolite”, anche se per rendere meno traumatico questo passaggio ha aggiunto che “si può pensare a una riorganizzazione delle Regioni”, e quindi   far pesare sulle spalle delle stesse gli esuberi di personale e di competenze provinciali.
Per una “linea dura” anche molti rappresentanti del Pdl.
Tra i quali Daniela Santanchè, che ha commentato il discorso di Letta ricordando che “l’abolizione delle Province era nel nostro programma e a questo punto spero che il premier tenga fede a quanto detto”.

Fabio Abati
(da “il Fatto Quotidiano”)

argomento: la casta, LegaNord, Provincia | Commenta »

MODELLO SICILIA: ABOLITE LE PROVINCE, REGGE L’ASSE CROCETTA-GRILLINI, MA IL FUTURO NON E’ ANCORA CHIARO

Marzo 20th, 2013 Riccardo Fucile

LA REGIONE SICILIA ABOLISCE LE ELEZIONI PROV. E SOSTITUISCE LE PROVINCE CON I “CONSORZI DI COMUNI”… IL RISPARMIO E’ DI 10 MILIONI, MA PER ORA RIGUARDA SOLO GIUNTE E CONSIGLIERI, LA STRUTTURA RIMANE

Abolite le province in Sicilia, con i voti del centrosinistra e di Cinque Stelle.
Ieri sera l’assemblea regionale ha approvato un maxi-emendamento della maggioranza (Pd, Udc e Lista Crocetta) che sospende le elezioni provinciali previste a fine maggio. Gli enti verranno commissariati ed entro l’anno dovranno essere sostituiti, con una nuova legge, da liberi consorzi di Comuni, i cui componenti verranno indicati dai sindaci.
A favore dell’emendamento, passato con 53 sì e 28 no, ha votato anche il gruppo di Cinque Stelle.
Il modello Sicilia resiste anche nelle sabbie mobili dell’Assemblea regionale, tradizionale teatro di imboscate e franchi tiratori: l’asse fra la maggioranza di centrosinistra guidata da Rosario Crocetta e i grillini fa passare la legge che abolisce le Province.
Mentre a Roma continua l’onda lunga delle polemiche sul contributo dei “traditori” di M5S all’elezione del neo presidente del Senato Pietro Grasso, a Palermo «5 stelle» e Pd superano insieme in aula la prova di sei voti segreti e producono una riforma che, per una volta, pone l’isola all’avanguardia.
Rosario Crocetta incassa un successo non facile.
Si era spinto avanti, il presidente, annunciando tre settimane fa in tv, nel salotto domenicale di Giletti, l’imminente abolizione delle nove Province siciliane. Omettendo di aggiungere che, per raggiungere un risultato del genere, sarebbe servita non solo una delibera di giunta, ma una legge approvata dal riottoso Parlamento di Palazzo dei Normanni.
E il primo testo varato dal governo regionale di Crocetta era stato pure bocciato informalmente dal commissario dello Stato, l’organo che giudica la costituzionalità  delle leggi siciliane.
Alla fine il presidente si «accontenta » di una riforma che non cambia subito le cose ma indica una direzione precisa: vengono cancellate le elezioni di fine maggio ed è stabilito che al posto delle Province nascono (o meglio ritornano, visto che sono previsti dallo Statuto siciliano) i liberi consorzi dei Comuni.
Organismi che non saranno più figli delle urne, ma avranno vertici scelti, al loro interno, dai sindaci dei territori interessati.
Ora l’Ars avrà  tempo sino al 31 dicembre per dare contenuti, attraverso una normativa specifica, al provvedimento.
Nel frattempo le attuali Province saranno commissariate.
Risparmio stimato: 10 milioni di euro subito (il costo di giunte e consigli), 50 a regime.
Diciamo che il risparmio è limitato ai costi del personale politico, resta da vedere se i consorzi tra comuni non finiranno poi per essere una brutta copia degli sprechi attuali.
Ovvero se si tratta di un’operazioe di facciata o di sostanza.
L’ostruzionismo del centrodestra, che si è manifestato attraverso interventi-fiume e un continuo ricorso al voto segreto, si è dissolto nello scrutinio finale: 53 sì, 28 no e un astenuto.
Decisivo, con ogni probabilità , il consenso dei 15 consiglieri grillini.
«È stata una nostra vittoria», dice Giancarlo Cancelleri, il capogruppo di M5S che ricorda come «fino a qualche tempo fa gli intenti di governo e opposizione si limitavano a un semplice rinvio del voto. Abbiamo sparigliato le carte – afferma Cancelleri – e alla fine Crocetta ha preso in considerazione la nostra proposta».
Il presidente frena («è una vittoria di tutti») ma ammette che «i grillini stanno dando un sostegno concreto alle riforme. L’Italia oggi ci guardava: siamo il primo governo a fare una legge del genere».
È una collaborazione ormai stabile, quella di Crocetta e dei grillini che, pur rifiutandosi di far parte della maggioranza di centrosinistra, in Sicilia stanno contribuendo a scrivere l’agenda della «giunta della rivoluzione», per usare l’autodefinizione del presidente.
Finora M5S si era però limitato a orientare le mosse di Crocetta attraverso mozioni d’aula: la più importante quella che ha portato la giunta a chiedere al governo americano la sospensione dei lavori del Muos, il sistema satellitare di Niscemi.
Ieri il «modello Sicilia » ha approvato la prima, vera, legge (oggi uno scontato voto finale).
Ed è una legge che, per dirla con il senatore Beppe Lumia, il parlamentare più vicino a Crocetta, «lancia un segnale al Paese. Proveniente proprio da una regione che è stata sempre considerata patria di sprechi e clientelismo».

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