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“CHIUDEVA IL BAGNO PER NON FARCI ANDARE, SE MANGIAVO L PANE TOGLIEVA SOLDI DALLA PAGA”

LE STORIE DI CAPORALATO DI TRE RAGAZZI VENTENNI PARTITI DAL MAROCCO E SFRUTTATI IN ITALIA

Ahmed, Kamal e Omar (nomi di fantasia) sono tre ragazzi poco più che ventenni partiti dal Marocco per raggiungere l’Italia. Hanno attraversato boschi a piedi, camminato per chilometri, o hanno intrapreso viaggi sotto ai tir solo per arrivare in un Paese dove speravano di poter trovare un futuro migliore di quello che la loro terra d’origine avrebbe potuto dare.
Tutti e tre però, una volta in Italia, sono finiti nella rete dello sfruttamento lavorativo e del caporalato: turni massacranti, condizioni di vita degradanti, minacce e vessazioni e il tutto per pochi euro. Ahmed, Kamal e Omar sono riusciti a uscire da queste condizioni e si sono rivolti alla Cooperativa Lule, che li sta guidando in un percorso di integrazione sociale e lavorativo.
La storia di Ahmed
“Ho scelto l’Italia perché cercavo un’opportunità lavorativa. Sono partito in compagnia di altri due ragazzi. Ho fatto diverse ore di viaggio. Quando sono arrivato in Italia, ho iniziato a chiedere in giro se qualcuno avesse un lavoro. Mi serviva sia per avere un sostegno economico che per pagare i debiti”, ha spiegato Ahmed in un’intervista a Fanpage.it.
Il ragazzo ha poi trovato lavoro in Sicilia e precisamente nella
raccolta degli agrumi: “Mi svegliavo alle 5 del mattino, facevo un viaggio di qualche chilometro e poi iniziavo a lavorare alle 7.30 e fino alle 3 del pomeriggio. Non c’erano pause e andavo a lavorare a prescindere dal mio stato di salute altrimenti avrei perso il posto di lavoro”.
È poi arrivato in Lombardia dove ha trovato lavoro in un panificio: “Iniziavo alle 18 e finivo alle 5 del mattino. Mi trattavano come fossi un animale. Quando chiedevo la paga, mi davano solo acconti di circa 200 euro sempre con moneta e mai con contanti. Mi hanno chiuso il bagno per non usarlo e quando prendevo il pane per mangiare, mi trattenevano i soldi dalla paga”.
“C’era un socio del datore di lavoro che era molto aggressivo: mi ha minacciato un paio di volte. Diceva che avrebbe chiamato i carabinieri perché ero lì senza documenti. Un giorno ho perso il pullman e ho avvisato che sarei arrivato in ritardo. Quando sono arrivato, ho trovato un’altra persona che lavorava al posto mio. Ho dovuto aspettare che finissero il loro turno”.
Ahmed dormiva in una stanza del panificio: “La stanza era molto piccola. C’era cattivo odore, era molto calda e umida”. A un certo punto, grazie a un video che gli aveva mostrato un suo amico, ha scoperto il Numero Verde Nazionale Anti Tratta: “Li ho contattati e piano piano sono entrato nel progetto”. Adesso sta studiando italiano e sta seguendo alcuni corsi che parlano di diritti sul lavoro e sicurezza: “Vorrei rimanere in Italia. Anche se ho subito tutto ciò, non significa che tutta Italia sia così. Spero di poter trovare lavoro e costruire qui il mio futuro”.
La storia di Kamal
La sua storia, per certi versi, è simile a quella di Ahmed. Anche lui ha lasciato il Marocco, ma perché ha deciso di abbandonare l’esercito: “Per questa mia decisione, ho avuto alcuni problemi con la
mia famiglia. A me però questo lavoro non piaceva. Preferivo studiare: quando sono andato via, ero al secondo anno di Diritto Internazionale all’università. A me piace la vita, la libertà lì non potevo avere queste cose”.
Invece è arrivato in Italia passando dalla Turchia, Bulgaria, Serbia, Ungheria e poi Austria. Una parte del viaggio l’ha affrontata a piedi e un’altra chiedendo passaggi in macchina a persone che lui ha poi pagato. Dopo aver trascorso qualche giorno in Toscana, è arrivato in Lombardia.
In Lombardia ha lavorato come lavapiatti, cameriere e barista. Tutti i lavori che ha trovato, gli sono stati segnalati da persone che frequentavano la moschea: “Ho iniziato a lavorare in un albergo dove la cucina era stata trasformata in stanze per il personale. Io dormivo in una di queste: era piccolissima, 2 metri per un metro e mezzo. Non c’erano finestre e la porta veniva chiusa tutta la notte per poi essere aperta al mattino da chi iniziava il turno o dalla responsabile”.
Kamal aveva due responsabili di riferimento: “Uno era italiano e un altro marocchino. Quest’ultimo caporale non dava niente per niente. Dovevi infatti pagare per qualsiasi cosa chiedevi”.
“Una volta è caduto in cucina un ragazzo che lavorava in nero come lavapiatti. Il responsabile non ha nemmeno chiamato l’ambulanza. Lo ha portato con la sua automobile in ospedale e lo ha lasciato lì. Non l’ho più visto. Ma subito dopo è arrivato un altro. I responsabili trovano sempre sostituti perché girano con l’automobile alle fermate dell’autobus, fuori dalle stazioni e sono sempre in cerca di persone senza documenti”.
Anche Kamal è seguito da Lule: “Adesso studio la lingua italiana. Il mio futuro è qui in Italia dove voglio pagare le tasse e lavorare”.
La storia di Omar
Quella di Omar è una storia più complessa: “Quando è morta mia madre, ho scelto di partire. Non potevo più vivere in Marocco. Non riuscivo a trovare un lavoro dignitoso e, insieme ad altri sei ragazzi che vivevano nel mio quartiere, sono partito”, ha spiegato. Dopo aver raggiunto la Turchia con un aereo, ha attraversato la Grecia a piedi in un viaggio che è durato sei giorni. Una volta in Bulgaria, ha raggiunto l’Austria attaccato all’asse di un camion insieme a un amico. Il conducente non sapeva nulla della loro presenza.
Inizialmente è arrivato a Milano. Poi si è trasferito a Bari: “Un mio amico mi ha detto che potevo lavorare nella raccolta delle olive e così l’ho raggiunto”. Poi è stata la volta della Sicilia, il Veneto e infine la Lombardia dove ha iniziato a lavorare in un panificio: “Dormivo nella stessa stanza in cui lavoravo. Guadagnavo molto poco e venivo anche trattato male. Lavoravo dalle 6 alle 5 del mattino e quando arrivava la fine del mese, mi dicevano che non c’erano mai soldi per pagare. Dopo quindici giorni, mi davano un accanto in moneta. Erano circa 200-300 euro”.
“Non è stato un periodo facile. Ti senti impotente. Non riesci a reagire. Sai che quelle modalità sono ingiuste, ma non è facile uscirne”. Ma dopo diverso tempo, ha trovato un’associazione a Catania a cui ha chiesto aiuto. È stato poi indirizzato verso Lule Onlus. Anche Omar sogna di rimanere in Italia e trovare un lavoro qui.
Lo sfruttamento lavorativo in Lombardia
L’Ente Anti-Tratta ha identificato 128 casi di vittime di gravissimo sfruttamento. La maggior parte, come nel caso di Ahmed, Kamal e Omar sono uomini tra i 26 e i 32 anni. Tra gli sfruttati potrebbero esserci anche diversi minori stranieri che arrivano in Italia non accompagnati e che è difficile rintracciare.
Su questi 128 casi, 36 sono in campo agricolo, 23 nel settore edile
poi segue quello alberghiero, commerciale, industriale, manifatturiero. All’apparenza potrebbero sembrare pochi casi, ma in realtà non è molto semplice rintracciare le vittime di sfruttamento.
La difficoltà è data da diversi fattori. In primis, la mobilità: “Serve che la manovalanza a basso costo sia estremamente mobile”, ha spiegato a Fanpage.it un operatore di Lule. “Una persona potrebbe lavorare in Lombardia per alcuni mesi, poi potrebbe essere spostato in un’altra zona. E anche il campo di sfruttamento non è detto che rimanga lo stesso”.
Per spostare persone, esistono cooperative senza terra che chiedono inoltre il pagamento di un’abitazione, del trasporto sul luogo di lavoro e di eventuali pseudo avvocati: “C’è una grossa organizzazione”. Oltre alla mobilità, a complicare l’attività è il fatto che spesso si lavora in strutture private in cui è difficile entrare.
Una volta che gli enti anti-tratta riescono a individuare le possibili vittime e, dopo aver accertato che sussistano gli indicatori per riconoscere lo sfruttamento lavorativo (paga scarsa o assente, misure di sicurezza praticamente inesistenti, niente pause o ferie e fino alla violenza o al ricatto nei casi più estremi), Lule propone un percorso di protezione: “Questo prevede un’abitazione lontana dalla situazione di pericolo, un servizio di mediazione linguistico-culturale, visite sanitarie per agire tempestivamente su problemi fisici causati dalle condizioni di vita degradanti e usuranti e psicologiche per affrontare sia il trauma migratorio o i possibili episodi di violenza subiti . Successivamente è previsto un percorso di assistenza legale per far ottenere il permesso di soggiorno. Ci vogliono specialisti sanitari, aziende di inserimento lavorativo, specialisti per la formazione, per i corsi di italiano e per gli psicologi”.
“Dopodiché cerchiamo di capire la storia della persona: se ha denunciato per esempio dove è stato reclutato. Cerchiamo di creare
una relazione di fiducia. Il percorso è poi finalizzato a rendere la persona autonoma sul territorio e ad autodeterminarsi. Saranno quindi erogati corsi di italiano, verrano approfondite le competenze. L’obiettivo è permettere nell’arco di un anno e mezzo di far raggiungere un’autonomia personale, abitativa e lavorativa”.
In tutto questo, quindi, il lavoro multi-agenzia è fondamentale: “A un sistema si risponde con un sistema, non come singolo attore. La Lombardia rappresenta una singolarità. Ci sono due progetti Antitratta: Mettiamo Le Ali, Lombardia 2 che vede come capofila Lule onlus e opera su 7 province (Bergamo, Brescia, Cremona, Lodi, Lecco, Pavia, Mantova), l’altro ha come capofila il Comune di Milano e si chiama Derive e Approdi su Milano e provincia, Varese, Monza e Brianza e Sondrio. In altre regioni, come per esempio in Veneto, c’è un progetto regionale che vede la Regione come capofila”.
Il punto è che bisogna imparare a parlarsi e confrontarsi: “A Mantova e Lodi siamo in co-progettazione con le Prefettura e i risultati sono ottimi. Questi progetti dimostrano che è possibile creare sistemi virtuosi dove vi è una comunicazione fluida con tutti gli Enti coinvolti”.

(da Fanpage)

This entry was posted on venerdì, Maggio 30th, 2025 at 20:06 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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