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CONFERENZA SULLA LIBIA, QUALCUNO AL GOVERNO VUOLE FARLA FALLIRE PER BOICOTTARE MOAVERO

IL MINISTRO DEGLI ESTERI E’ PER LA CENTRALITA’ DEI DIRITTI UMANI ED ABILE MEDIATORE, NON UN URLATORE RAZZISTA

Un dubbio si insinua tra quanti stanno lavorando pancia a terra per la buona riuscita della Conferenza sulla Libia promossa dall’Italia il 12 e 13 novembre prossimi a Palermo.
Il dubbio non riguarda la Farnesina: lì tutti tirano nella stessa direzione. Ma, questo è il punto di domanda, la stessa certezza non si manifesta se si guarda al di fuori del Ministero degli Esteri.
E per una volta non si guarda Oltralpe: che la Francia tifi, ed è un tifo attivo, perchè la conferenza non sia un top diplomatico, questo è cosa ormai risaputa e acquisita. Ma il dubbio è che entro i confini nazionali e in altri palazzi della politica, un risultato all’altezza non ecciti troppo gli animi.
Non è solo gelosia personale: portare a Palermo se non proprio Donald Trump e Vladimir Putin (ma le possibilità  esistono) quantomeno i capi delle diplomazie Mike Pompeo e Sergei Lavrov sarebbe comunque un successo per “l’uomo di Mattarella”: il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi.
Un successo, ecco il punto, che riguarda non solo un modo di intendere l’essere ministro, ma una linea in politica estera che non minaccia rotture con Bruxelles un giorno sì e un altro pure, e che guarda ai rapporti con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo non in termini securisti, ma di una cooperazione a 360 gradi che contenga certamente il tema della sicurezza e del contrasto alla migrazione clandestina, ma non lo assolutizza.
Più volte si è detto e scritto che in materia di politica estera — soprattutto sul Mediterraneo e l’Europa— il Governo in carica ha due linee e due pratiche: quella inclusiva di Moavero e quella “muscolare-sovranista” di Salvini.
Lo spartiacque non è la difesa degli interessi italiani. È il come farli valere, è il non restare isolati agitando rotture improbabili oltre che controproducenti. Ed è in questo scenario che si colloca la Conferenza di Palermo.
“Un passaggio importante ma non la conclusione di un percorso di stabilizzazione che avrà  bisogno di altri passaggi e di tempo”, puntualizza all’HuffPost una importante fonte diplomatica.
Insomma, nessuno deve attendersi miracoli da Palermo, ma tutti, nel Governo e fuori da esso, dovrebbero remare nella stessa direzione, perchè così fa un Paese che vuole difendere il proprio spazio geopolitico che altri vorrebbero invadere.
Ma notizie fatte filtrare su defezioni e altro non aiutano.
Così come non aiutano i malumori, sotterranei ma non per questo meno indicativi, che hanno fatto seguito ad alcune considerazioni svolte ieri dal titolare della Farnesina: “In senso stretto e giuridico la Libia non può essere considerata porto sicuro, e come tale infatti viene trattata dalle varie navi che effettuano dei salvataggi”, ha affermato Moavero rispondendo ad una domanda diretta in una conferenza stampa con la collega norvegese.
“La nozione di porto sicuro e di Paese sicuro è legata a convenzioni internazionali, che attualmente non sono state tutte sottoscritte dalla Libia” ha proseguito il capo della diplomazia italiana. Per poi aggiungere: “Noi dobbiamo mantenere forte e intensificare il nostro impegno affinchè la normalizzazione della Libia porti questo Paese pienamente nell’alveo della comunità  internazionale, con il rispetto dei diritti umani e dei diritti fondamentali”.
Rispetto dei diritti umani e fondamentali. Ratifica di Convenzioni internazionali, come quella sui rifugiati, che ad oggi non ha la Libia tra i Paesi sottoscrittori: per il titolare della Farnesina non sono optional, ma punti chiave per portare la Libia “pienamente nell’alveo della comunità  internazionale”.
Temi che rientrano nei due giorni di conferenza. Le sottolineature del ministro degli Esteri sulla centralità  del tema dei diritti umani, trova sponde importanti alle Nazioni Unite.
Il segretario generale Antonio Guterres, in un rapporto del 24 agosto, ha confermato che in Libia “migranti e rifugiati hanno continuato ad essere vulnerabili”, sottoposti “a privazione della libertà  e detenzione arbitraria in luoghi ufficiali e non ufficiali”.
E a settembre, l’Alto commissario Onu per i rifugiati Filippo Grandi lo ha ribadito: “No, la Libia non è un Paese di sbarco sicuro”.
A giugno, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha imposto sanzioni contro Abd al-Rahman al-Milad, direttore della Guardia costiera di Zawiya, accusato di essere un trafficante di esseri umani e di fermare soltanto i migranti inviati in Europa dalle organizzazioni rivali.
Di certo, la definizione di “porto sicuro” e di “Paese sicuro” fornita da Moavero, forte anche della sua formazione da giurista, non rientra nel vocabolario politico del suo collega al Viminale, nonchè vicepremier. Qui la distanza è palmare.
Un passo indietro, neanche troppo lungo, nel tempo.
Sedici luglio 2018: “Dobbiamo cambiare la normativa e rendere i porti libici porti sicuri. C’è questa ipocrisia di fondo in Europa in base alla quale si danno soldi ai libici, si forniscono le motovedette e si addestra la Guardia Costiera ma poi si ritiene la Libia un porto non sicuro”. Così si pronunciava Salvini in una conferenza stampa a Mosca indicando quale fosse l’obiettivo dell’Italia nell’incontro di due giorni dopo per ridiscutere la missione Sophia.
“E’ un bipolarismo europeo che va superato” aggiungeva il vicepremier leghista.
La proposta di Salvini riceveva però una reazione negativa della Commissione europea. Salvini però insisteva e replicava su Twitter: “L’Unione Europea vuole continuare ad agevolare lo sporco lavoro degli scafisti? Non lo farà  in mio nome, o si cambia o saremo costretti a muoverci da soli”.
“La decisione rispetto al fatto che i porti libici non siano porti sicuri è una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, quindi è una valutazione puramente giuridica sulla quale non c’è una decisione politica da prendere”, le faceva eco l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue Federica Mogherini.
Passava poco più di un mese e le “due linee” si scontravano ancora.
Erano i giorni caldissimi del “caso Diciotti” e dei 150 migranti trattenuti da giorni sulla nave militare italiana attraccata al porto di Catania. “L’Italia deve prendersi in maniera unilaterale una riparazione. Non abbiamo più intenzione di farci mettere i piedi in testa. L’Unione Europea non vuole ottemperare ai principi concordarti nell’ultimo consiglio europeo? Noi siamo pronti a tagliare i fondi che diamo all’Ue. Vogliono 20 miliardi dei cittadini italiani? Dimostrino di meritarseli e si prendano carico di un problema che non possiamo più affrontare da soli”, tuonava il vice premier Di Maio, sostenuto in questo frontale con Bruxelles dall’altro co-vicepremier leghista. Era il 24 agosto.
Dal meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, lo stesso giorno, Moavero stroncava la minaccia di Di Maio all’Ue: “Versare i contributi è un dovere legale. Ci confronteremo su questo e altre questioni”.
Per poi aggiungere: “Sto lavorando in questi giorni soprattutto per trovare una sintonia sulla gestione dei flussi migratori che è tra le questioni più importanti per l’Ue, a nostro parere la più importante in assoluto. È fondamentale che riusciamo a comprenderci a livello di Unione per stabilire un clima di condivisione nei confronti di flussi migratori epocali che richiedono un’azione corale europea. Non trovare un accordo su questo per l’Europa è molto triste”.
A fianco di Di Maio si schierava, con il consueto impeto dichiaratorio, Matteo Salvini, che il 30 agosto, da Venezia, in conferenza stampa rilanciava: “Ho chiesto di condividere i porti di sbarco. Se anche a fronte di questo nuova richiesta otterremo un ‘no’ dovremo valutare se continuare a spendere soldi per una missione che sulla carta è internazionale ma di fatto è tutta a carico di 60 milioni di italiani e di un solo Paese”. Per poi aggiungere: “Al momento abbiamo ricevuto un sacco di no da Macron e da altri, abbiamo quasi esaurito tutti i ‘bonus dei no’. Poi faremo da soli, di sicuro non ci manca la fantasia e le capacità “.
Il titolare del Viminale non demorde. Tre settembre .”Dietro alla situazione in Libia c’è qualcuno, penso a chi è andato lì a fare una guerra che non doveva fare e ora vuole fissare date delle elezioni senza interpellare gli alleati, l’Onu e i libici. Le esportazioni di democrazia non hanno mai portato niente di buono”. Così Salvini commentava gli scontri tra milizie che incendiavano Tripoli, addossandone la responsabilità  al governo francese. E a chi gli chiedeva se anche alla luce degli eventi di quelle ore fosse stato un errore chiedere che la Libia fosse dichiarata un “porto sicuro” in cui respingere i migrati, il ministro rispondeva: “Chiedete alla Francia”.
Chiedere, non è, nella “linea Moavero”, sinonimo di “gridare”. Non è un problema di bon ton, ma di sostanza. Come quando si dichiara “fiducioso in dialogo costruttivo con Ue”.
Dialogo costruttivo: un modus operandi che vale per Bruxelles come per Tunisi. C’è voluta molta pazienza e lavorio sotterraneo per convincere le autorità  tunisine a non creare una crisi diplomatica con Roma dopo le affermazioni di Salvini (4 giugno 2018) secondo cui la Tunisia “spesso e volentieri esporta galeotti”.
La rottura è stata evitata ma le scorie sono rimaste. Quando nella visita del 28 settembre, Salvini ha provato a indossare panni moderati e istituzionali (“alla Moavero”) la trasformazione non ha sortito gli effetti sperati: la svolta sui rimpatri non arriva.
Non basta un improvvisato “cambio d’abito” per mascherare l’esistenza delle “due linee”.

(da “Huffingtonpost”)

This entry was posted on mercoledì, Ottobre 10th, 2018 at 21:19 and is filed under Esteri. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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