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CONTI, TESSERE, BUCHI: CALENDA MANAGER SOLO DI SE STESSO

I TRUCCHI DELL’EX MINISTRO CHE HA FATTO FLOP ANCHE NELLA GUIDA DELLE AZIENDE

E se alla fine, come consigliava il re Franceschiello, Carlo Calenda stesse facendo ’a faccia feroce solo per nascondere una intrinseca debolezza?
Il personaggio è abile, ha saputo galleggiare dentro un’Italia fatta di relazioni e amichettismo, ha avuto una brillante esposizione politica, ma dove andrà? Con il solito stile provocatorio ha inviato alla segretaria del Pd questo messaggio: “Se mi chiede di scegliere tra Conte e Salvini, allora torno a fare il manager”. Ma guardando alla storia passata anche quella prospettiva appare fragile. Così come fragile sembra la sua vittoria al recente congresso di Azione e il controllo di un partito che pure è stato plasmato attorno alla sua persona.
La vita lavorativa di Calenda inizia, per sua ammissione, grazie a una raccomandazione. Lo disse alla Confessione di Peter Gomez che la sua carriera in Ferrari dipese dal fatto che suo padre fosse andato a scuola con Luca Cordero di Montezemolo che gli fece fare uno stage, “non retribuito” di un anno. Da lì, diventa “responsabile relazione con le istituzioni finanziarie” e “responsabile customer relationship management”. Non certo un ruolo di direzione strategica, ma ha meno di 30 anni. Nel 2004 arriva Sergio Marchionne e Calenda se ne va, o viene messo alla porta, per approdare in Sky a fare il “responsabile marketing di prodotto e programmazione” in una televisione in cui prodotti e programmazione vengono comunque decisi altrove. Ma va bene. L’incarico forse più produttivo è però quello tra il 2004 e il 2008 di “direttore affari internazionali” in Confindustria, dove lo chiama ancora Montezemolo divenuto presidente. È un incarico di relazioni e lui, viaggiando per il mondo con i principali imprenditori italiani, ne coltiva a iosa e gli saranno utili in futuro.
Sicuramente lo aiutano a diventare, nel 2008, quando Montezemolo esce da Confindustria, il direttore generale dell’Interporto campano, presieduto dall’imprenditore Giovanni Punzo, già accostato alla camorra, senza condanne, e comunque uomo anch’egli di grandi relazioni. Negli anni in cui è direttore generale di Interporto, Calenda gestisce un’azienda che annuncia costantemente la propria futura grandezza ma che intanto si gonfia di debiti e contributi pubblici. Quando lui arriva, nel 2008, il debito verso le banche ammonta a 308 milioni di euro soprattutto in virtù di un accordo siglato l’anno prima con il pool Mps-Unicredit-Intesa. Debito che negli anni in cui Calenda è un top
manager non scende, anzi nel 2010 vengono attivati altri finanziamenti, con Banco di Napoli e Bnl, per altri 70 milioni. La situazione richiede un aumento di capitale della Interporto, nel 2009, di 11 milioni di euro ma anche uno di 120 milioni della controllante, la Cisfi di Punzo di cui 30 milioni saranno sottoscritti, guarda un po’, da Mps, Unicredit e Intesa. Interporto nel 2011, nella sua relazione annuale, dichiara di “aver investito 750 milioni per sviluppare un sistema di 2 milioni di mq di infrastrutture logistiche” e allo stesso tempo di aver ottenuto “contributi a fondo perduto per 190 milioni” e ne attende ancora 40 dalla Regione. Dal sistema bancario ha incassato complessivamente 484 milioni. Eppure la relazione si chiede seriamente cosa fare nel futuro. Nel 2009 era stata costituita, con grandi prospettive di “piattaforma integrata” nel trasporto merci a livello nazionale la Interporto Servizi Cargo, di cui Calenda è stato presidente. A gennaio 2023 la Isc è stata liquidata, i contratti disdetti e avviata la procedura di licenziamento collettivo di 113 dipendenti. Insomma, un fallimento anche manageriale. Per affrontare l’indebitamento bancario Interporto inizia la lunga trattativa con gli istituti di credito per rinegoziare i prestiti, resa necessaria anche dai bilanci del 2013, ultimo in cui Calenda è in azienda, che vedono un rosso di 14,137 milioni, frutto del calo del fatturato e di un indebitamento bancario di 272 milioni. Il negoziato con le banche è affidato a Ernst & Young e porterà nel 2016 a un accordo che prevede la creazione di un “convertendo”, un prestito obbligazionario da 102 milioni, diventati poi 109, che si affianca al debito “senior” da 110 milioni. Quando Mps va gambe all’aria ed è salvata dallo Stato, la società di Giovanni Punzo, diretta da Calenda, è tra le principali aziende debitrici. E così accade che quando il M5S chiede che la lista dei principali debitori di Mps venga resa pubblica a opporsi è proprio Carlo Calenda: “Lo fai per nascondere i debiti di Carlo De Benedetti” è l’accusa che gli viene rivolta. In realtà aveva qualcosa che lo riguardava più da vicino.
Il partito del Sud Resta il partito, dove Calenda appare il re incontrastato. All’ultimo congresso è stato rieletto segretario con l’85,7% dei voti, mentre Giulia Pastorella, la sua avversaria, ha ottenuto il 14,3% con una partecipazione al voto di circa 13.700 iscritti. C’è però anche un’altra verità. Pastorella ha infatti ottenuto quel magro risultato in virtù di un regolamento che imponeva di raccogliere dei sottoscrittori a livello provinciale pari almeno al 5% degli iscritti (con in più un complesso sistema legato al numero di iscritti provinciali).
Pastorella non ha ottenuto i sostegni prescritti dal regolamento in moltissime province, presentandosi solo nel 31% dei collegi elettorali. Però, conteggiando i voti ottenuti nelle province in cui si è candidata, il vantaggio di Calenda è stato solo del 54 contro il 46% con la candidata segretaria vincente nelle zone rilevanti e produttive (decisive apparentemente per un partito come Azione) come Milano (55%), Varese (51%) Bergamo (54), il Trentino Alto Adige (88), Imperia e Savona, gran parte del Veneto e soprattutto le province di Vicenza e Verona, Trieste oppure, in Emilia, Bologna (54%) e Reggio Emilia. “Il risultato ottenuto dalla nostra mozione ‘Azione dipende da noi’ è storico e straordinario” dichiarava in quei giorni il sito della oppositrice. “Abbiamo ottenuto la vittoria in oltre la metà delle province in cui ci siamo presentati”.
Calenda però si è fatto forte di due elementi: essersi presentato in solitaria nel 70% delle province, dove la sua avversaria non era presente, grazie a un regolamento eccessivamente rigido, e la grande infornata di voti al Sud, in particolare in Campania che con oltre 6.500 iscritti ha espresso 58 delegati su 300 al congresso nazionale. Pastorella, alla fine, non ha voluto dare battaglia in quello che, molti dei suoi sostenitori, definiscono una sorta di “tradimento”: “Ha acconsentito a parlare solo 3 minuti e mezzo al congresso nazionale” dice uno di loro nell’anonimato, “mentre doveva pretendere almeno di farsi eleggere presidente del partito”.
Il paradosso del voto, comunque, è che il paladino della borghesia produttiva e fustigatore del voto meridionale del M5S, prospera grazie a quello stesso bacino elettorale: i delegati al congresso provenienti da Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, infatti, sono stati 112 su 300 e tutti per Calenda (tranne uno di Taranto) in rappresentanza di circa 10 mila iscritti su un totale di 16 mila. Sempre secondo i suoi oppositori, poi, la gestione del partito non è certamente espressione dei nuovi ceti produttivi (la critica viene in particolare dal Veneto). Si punta il dito contro la gestione Rosato, transfuga renziano e da tempo in predicato di passare a Forza Italia e che ha perso il congresso nella sua città, Trieste. Si lamenta l’eccessivo peso che ha il vicesegretario Andrea Mazziotti di Celso, sponsor della candidatura, con sicura elezione, di Valentina Grippo, “paracadutata” da Roma in Veneto e figlia di Eugenio Grippo dello studio studio Gianni Origoni, Grippo, Cappello & Partners di cui Mazziotti è partner. Mal sopportato è il ruolo di figure come l’ex Cisl Giovanni Faverin,
responsabile del lavoro pubblico di Azione, costretto a dimettersi dalla segreteria della Funzione pubblica Cisl di Padova nel 2017 per “Violazione delle norme di tesseramento e contributive” e oggi finito in Azione (dove in segreteria nazionale siede anche l’ex segretario Cisl, Raffaele Bonanni, dimessosi dopo lo scandalo della sua pensione).
In questo contesto continuano le fughe dal partito: se ne sono andate le due golden lady berlusconiane, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini, pochi giorni fa l’ex senatrice Barbara Masini, in Veneto c’è aria di esodo e soprattutto non si capisce quale sia la prospettiva politica. Forse ancora il terzo polo che si è già rivelato, nel 2022, il sesto ma che domani, se non superasse il quorum elettorale, potrebbe risultare addirittura non classificato. Intanto, la consegna al partito è: facite ’a faccia feroce.
(da ilfattoquotidiano.it)

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