COSA MANCA ALL’ALTERNATIVA A MELONI
IL CAMPO LARGO E’ RIDOTTO A TERRA INCOGNITA
Un’estate fa, alla festa di Avs del Parco Nomentano, i leader dell’opposizione siglavano il famoso “patto della birra”. Schlein, Conte, Fratoianni, Bonelli e Magi, con un bel boccale di Peroni
in mano suggellavano la santa alleanza del glorioso “campo largo”.
L’ennesima foto-simbolo nell’album di famiglia della sinistra, quello delle grandi speranze poi naufragate: dal patto di Vasto del 2011 (Bersani, Di Pietro e Vendola) a quello di Narni del 2019 (Zingaretti, Di Maio, Conte e Speranza). Anche a Roma, un anno fa esatto, il clima era buono ma il tempo non prometteva niente di buono: pioveva sui capi dell’italica izquierda unida, mentre il padrone di casa Fratoianni salutava l’evento con una pennellata di sano luogo-comunismo: «Coalizione bagnata, coalizione fortunata, e fatemelo dire, piove governo ladro». Dodici mesi dopo cosa rimane di cotanta speme? Bagni parecchi, fortuna poca. Governo ladro, quello sì. Verso le regionali d’autunno, vede un cieco che Meloni è in crisi di nervi e che la sua sgangherata maggioranza è impresentabile. Le prospettive economiche sono sconfortanti. Il pil scenderà a meno 0,5% nel 2026, la produzione industriale è negativa da ventisei mesi, l’effetto dazi farà crollare l’export di 10 miliardi l’anno: Giorgia voleva fare “il ponte”, Ursula voleva fare “il partner”, e ora si ritrovano entrambe a fare le damigelle di Trump.
Le ultime disavventure giudiziarie sono devastanti. Le motivazioni della Corte di giustizia europea sui Paesi sicuri sono una pietra tombale sulla penosa Operazione Albania: un buco nero da quasi un miliardo di euro, con 20 richiedenti asilo per 5 giorni di operatività in un anno e mezzo e un costo di 153 mila euro per singolo posto letto. Le ricostruzioni del Tribunale dei ministri nell’autorizzazione a procedere contro Nordio, Piantedosi e Mantovano sull’affare Almasri sono una campana
a morto per lo Stato di diritto: un simile impiastro di menzogne e abusi di potere si era visto solo ai tempi del Cavaliere e di Ruby nipote di Mubarak. Per nascondere tutta questa vergogna, la premier fa quello che da sempre le riesce meglio: lo squadrismo istituzionale come dispositivo di autodifesa complottista-vittimista. L’attacco ai “giudici golpisti” — dagli studi addomesticati del Tg5 — distrugge l’ordine costituzionale e costruisce il capro espiatorio in vista delle velenose prossime campagne elettorali sulle amministrative e sul referendum per la separazione delle carriere.
Per un’opposizione degna, non ci sarebbe terreno più fertile di questo. Torniamo al “patto della birra”. Cosa è successo, da allora? Il “campo largo” è ridotto a terra incognita, dove si coltivano indignazione per gli orrori della destra e rassegnazione per gli errori della sinistra. Elly Schlein, sempre “testardamente unitaria”, bevendo quella pinta di lager aveva detto una cosa giusta: “Sono convinta che le persone si aspettino da noi un’alternativa credibile, e questa si costruisce sui temi e non sui nomi”. Parole sante. Ma tradite ancora una volta, per responsabilità condivisa. A parte sanità e salario minimo, su cui tutti combattono la stessa battaglia, per tutto il resto la “coalizione fortunata” non si è vista e non si vede. Non si vede sulla politica economica, dove tra fisco e previdenza ogni partito formula le sue raccomandazioni e squaderna le sue proposte. Non si vede sulla politica estera, dove dall’Ucraina a Gaza ogni partito vota le sue mozioni e mobilita le sue piazze. Non si vede sulla politica migratoria, dove non basta condannare il razzismo xenofobo e disumano dei patrioti al di là e al di qua
dell’Atlantico. Non esiste una piattaforma unitaria, praticamente su nulla. Magi, sotto quel diluvio estivo, aveva suggerito un “tavolo permanente, per iniziare ad affrontare le differenze” e a ipotizzare un programma comune. Ottima idea, caduta nel vuoto. E in questo vuoto, per paradosso, la voce dell’opposizione che in questo momento sembra risuonare più forte e più chiara è quella di Matteo Renzi, il royal baby che flirtava con Berlusconi e che adesso bastona la Meloni, il “grande rottamatore” che ha sfasciato la sinistra e che ora sembra incarnarla più degli altri.
Nella cacofonia sui “temi”, i leader cedono alla lotteria dei nomi. È quello che accade sui governatori in corsa alle regionali, sfida cruciale che chiamerà alle urne 17 milioni di italiani in regioni chiave come Veneto, Toscana, Marche, Campania e Puglia. E qui — di fronte a una Schlein tanto collaborativa da apparire quasi remissiva — si staglia Conte. Complice la ventata di inchieste giudiziarie che soffia da Milano a Reggio Calabria, “Giuseppi” gioca da auto-proclamata autorità morale del fronte progressista: boccia o promuove gli altrui candidati in base a regole che cambiano secondo convenienza. Nelle Marche dà il via libera “d’imperio” a Ricci, in Toscana concede il disco verde “condizionato” a Giani, facendolo benedire dal risorto “sacro blog”. In Campania — come contropartita per i Cinque Stelle — esige il lasciapassare a Fico. Sul resto si vedrà (a partire dalla Puglia, dove vaga l’anima in pena di De Caro sovrastata dal fantasma di Emiliano e dove si attende la mediazione del plenipotenziario Boccia, il Witkoff del Tavoliere). Non ci sarebbe niente di scandaloso, se questo pasticciato suk rientrasse in un accordo organico, da lanciare oggi nelle regioni e domani
nel Paese. Ma non è così, perché l’ex premier rivendica con orgoglio “l’autonomia del Movimento” e i Ghini di Tacco pentastellati ci tengono a far sapere che “non ci sono alleanze strutturali” nei territori perché “lo scambio di figurine non fa parte del nostro dna”. Ci vorrebbero i ris come a Garlasco, per riconoscere quel benedetto dna contaminato da troppi “Ignoto uno” rispetto all’antica e presunta purezza di Grillo&Casaleggio.
Il peggio è che le camarille sui candidati governatori nascondono quelle sul candidato premier. Schlein si sente predestinata: ha recuperato a sinistra tutti i voti che poteva, più di questo non sa fare, i sondaggi fotografano un Pd inchiodato al suo massimo da settimane e pur sempre primo partito dell’opposizione. Conte non vuole cedere sovranità: M5S ha perso 9 milioni di voti dal 2018, ma lui giura che non convincerebbe mai i suoi a votare un “cartello” guidato dalla segretaria dem. Autentica realpolitik o malcelata nostalgia di Palazzo Chigi? Sta di fatto che nei polverosi cantieri “riformisti” (qualunque cosa significhi, ormai) si sognano “papi stranieri”: meglio se disposti di ricomporre l’eterna diaspora centrista. Deliri da notti di mezza estate, che Meloni rischia di spazzare via in un amen. Le basta convincere Salvini e Tajani a cambiare la legge elettorale, introducendo l’indicazione del candidato premier sulla scheda, e il “campo largo” diventerà davvero camposanto. Invece di perdersi in baruffe chiozzotte, i compagni della “non coalizione” si diano subito un programma, o sarà troppo tardi
(da La Repubblica)
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