CUREVAC, SANOFI, REITHERA: L’EUROPA INCIAMPA SUL VACCINO
PESANTI INCOGNITE SU TRE VACCINI COMUNITARI… UN GAP DI INVESTIMENTI
CureVac, Sanofi, ReiThera: i dolori dei vaccini europei. Sembra la parafrasi dei dolori del giovane Werther, opera simbolo dello Sturm und Drang tedesco; è la condizione poco felice dei vaccini anti Covid made in Europe, che fatta eccezione per BioNTech continuano a imbattersi in delusioni e battute d’arresto. L’ultima – e la più clamorosa – è quella del vaccino sviluppato dall’azienda tedesca CureVac: da uno studio condotto su 40mila volontari in Europa e America Latina, il vaccino ha dimostrato un’efficacia preliminare del 47% contro la malattia Covid-19, una débâcle se paragonato ai cugini a mRNA Pfizer/BioNtech e Moderna, forti di un’efficacia superiore al 90%.
“Speravamo in un risultato interinale migliore, ma riconosciamo che dimostrare un’elevata efficacia in un contesto così ampio di varianti è difficile. Mentre continuiamo verso l’analisi conclusiva, l’efficacia complessiva del vaccino potrebbe cambiare”, ha commentato il ceo del gruppo, Franz-Werner Haas.
La delusione, però, è evidente e non potrebbe essere altrimenti, visto che un vaccino – per rispettare i requisiti minimi richiesti dall’Oms – deve avere un’efficacia pari ad almeno il 50%. Il dato ha avuto una ripercussione diretta in Borsa, dove i titoli di CureVac hanno avuto un tonfo del 50,6%.
A catena, si è aperto un problema a Bruxelles: l’Unione europea aveva siglato un contratto per la fornitura di almeno 225 milioni di dosi da fornire “non appena saranno dimostrate la sicurezza e l’efficacia del vaccino contro il Covid-19”.
L’annuncio della conclusione del contratto con la Commissione europea – che ha negoziato con le aziende farmaceutiche a nome dei 27 Stati membri – è datato 17 novembre 2020. L’accordo preliminare di acquisto prevede anche l’opzione di fornitura di ulteriori 180 milioni di vaccini. Per l’Italia erano attese 30,2 milioni di dosi.
Per ora, l’Ue prende tempo. “La Commissione europea e gli Stati membri seguono da vicino la questione” della ridotta efficacia del vaccino Curevac e attendono “la valutazione dell’Ema”, ha dichiarato un portavoce dell’esecutivo comunitario.
“Il contratto stipulato con l’azienda farmaceutica, disponibile online, prevede una serie di clausole anche sulle scadenze di consegna delle dosi”, ha aggiunto in merito alla possibilità di rescindere il contratto.
“Ma – ha aggiunto – non stiamo assolutamente conducendo questo tipo di discussione”. Su CureVac riponevano molte speranze anche i Paesi in via di sviluppo, per la facile conservazione e per i minori costi del vaccino.
Per quanto riguarda il candidato vaccino di Sanofi – azienda farmaceutica francese – i tempi sono dilatati rispetto ai programmi iniziali. L’Italia doveva ricevere 40 milioni di dosi a partire dalla metà di quest’anno; forse, se ne riparlerà nel 2022.
Nel luglio dell’anno scorso la casa farmaceutica stringeva un importante accordo con gli Stati Uniti: 2,1 miliardi di dollari di finanziamento per lo sviluppo del vaccino, il tutto per assicurarsi 100 milioni di dosi.
A settembre l’Ue firmava un contratto per una fornitura totale di 300 milioni di dosi a partire dalla seconda metà del 2021. A metà dicembre la doccia fredda: i risultati degli studi in corso mostravano una scarsa efficacia nella risposta immunitaria negli over 50, forse per un errato dosaggio di antigene.
Tutto da rifare, dunque, con l’entrata in pista della britannica GSK come partner della fase 2: la sperimentazione – secondo una nota diffusa a metà maggio dalla casa farmaceutica inglese – sta mostrando una “forte risposta immunitaria in tutti i gruppi di età adulta”, con “una sieroconversione dal 95% al 100% dopo una seconda iniezione”. Lo studio di fase 3 è appena iniziato, nella speranza di ottenere l’approvazione entro la fine dell’ultimo trimestre dell’anno.
Quanto al vaccino italiano ReiThera, la grande incognita restano i finanziamenti. A maggio dalla Corte dei conti è arrivato lo stop al finanziamento pubblico da 81 milioni di euro che avrebbe permesso di procedere con la fase 3 della sperimentazione. Secondo i giudici contabili, il vaccino made in Italy deve essere finanziato con un reale investimento produttivo: “l’assenza di un valido e sufficiente investimento produttivo non ha consentito di ammettere al visto di legittimità l’atto in esame”, si legge nelle motivazioni.
Dopo il blocco della Corte dei conti, i vertici hanno scritto ai centri che hanno preso parte finora alla sperimentazione sottolineando che si continuerà a credervi “come prima e più di prima, con determinazione e impegno”; la notizia sullo stop “per un vizio di forma del contratto di sviluppo non avrà alcun impatto sul regolare proseguimento e svolgimento della fase II”.
E ancora: il pronunciamento della Corte “non riguarda la bontà del progetto o del vaccino, ma aspetti tecnico-giuridici legati al contratto di finanziamento”. Intanto, però, le difficoltà aumentano, con i volontari italiani che si ritrovano nel limbo, impossibilitati per mesi a ricevere il green pass europeo.
Secondo Aldo Tagliabue, immunologo esperto in ricerca e sviluppo di vaccini, il messaggio di questi ritardi e battute d’arresto “è che non abbiamo vinto la guerra contro il coronavirus e la produzione dei vaccini resta una sfida complessa”.
“La tecnologia mRna – osserva – ha funzionato bene, però si può anche sbagliare, come dimostra il caso CureVac. Non sappiamo il perché di un dato così negativo – se c’entrino le varianti, il modo di somministrazione o difficoltà nel trial”.
“Su CureVac è presto per dare un giudizio, perché si tratta di dati intermedi”, spiega ad HuffPost Antonio Clavenna, responsabile dell’Unità di Farmacoepidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano.
“Difficilmente il proseguimento dello studio darà un’efficacia elevata, ma ci saranno risultati che sarà interessante osservare. Ad esempio, bisognerà vedere se questa efficacia inferiore rispetto ad altri vaccini a mRNA è dovuta alla presenza di varianti del virus differenti rispetto a quelle che erano presenti negli studi che hanno valutato Pfizer e Moderna, oppure se c’è un problema specifico relativo a questo vaccino”.
Quel che è certo è che il fattore tempo non è neutro. “Ad un certo punto, c’è da fare una considerazione che vale sia per Sanofi sia per Reithera”, prosegue Clavenna. “Tutti i vaccini che arrivano in un secondo tempo rispetto a quelli già autorizzati si trovano in difficoltà, non solo per i finanziamenti ma anche per l’uso nella pratica. O un vaccino avrà la possibilità di essere ulteriormente innovativo, ad esempio ottenendo un’efficacia maggiore rispetto ad alcune varianti o presentando vantaggi in termini di conservazione/somministrazione, o avrà pochi sbocchi, quanto meno all’interno dei Paesi che hanno già una campagna vaccinale avanzata. Quando un’azienda si trova in una fase di sviluppo non così vicina al traguardo, può decidere che non vale più la pena proseguire perché difficilmente il proprio candidato si inserirà con successo nella campagna vaccinale”.
L’altro problema che riguarda un po’ tutti i vaccini ancora in fase di sviluppo è di tipo etico. Sperimentare un vaccino oggi significa che, almeno dal punto di vista etico, non dovrebbe essere fatta una sperimentazione con placebo, soprattutto in gruppi di età più a rischio. La difficoltà aumenta ulteriormente con il progredire delle campagne vaccinali nei Paesi più sviluppati, dove diventa difficile trovare persone arruolabili.
Fatta eccezione per BioNTech, la ricerca europea è in affanno nella corsa ai vaccini. Gli sforzi europei sembrano briciole se paragonati all’Operazione Warp Speed, il programma di investimenti da oltre 10 miliardi di dollari lanciato dall’ex presidente Usa Donald Trump con il mandato di finanziare vaccini e terapie. Per cambiare passo, la ricerca europea dovrebbe adottare un approccio da Stati federali d’Europa. La teoria già c’è; calarla nella pratica è un’altra cosa.
“C’è da tempo l’idea di fare un Barda europeo, che nell’ultima formulazione dovrebbe chiamarsi Hera (Autorità dell’Ue per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie) – osserva Aldo Tagliabue – ma è un processo che richiede anni. La storia di successo tra Nih e Moderna – il Vaccine Research Center (VRC) – è il frutto di un lavoro che va avanti da 15 anni. Gli investimenti bisogna farli – e continuare farli – per tanto tempo, mettendoci su tanti soldi. L’Ue deve entrare in quest’ottica, se vuole andare oltre le dichiarazioni d’intento. Esiste un Cdc europeo, ma fa ridere se paragonato a quello americano. Il coordinamento europeo serve a poco, se poi mancano i finanziamenti. Noi europei siamo sempre farraginosi. Stiamo facendo dei passi in avanti, ma mai abbastanza per competere con gli Stati Uniti o con Cina e Russia. La lezione – che però è tale sono a patto di voler imparare – è che una spinta federale alla ricerca non s’imprime dal giorno alla notte: ci vogliono fondi e visione, insieme alla consapevolezza, da parte degli Stati europei, di aver bisogno l’uno dell’altro anche su questo”.
Clavenna sottolinea la responsabilità dei singoli Stati membri. “Alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, prestano poca attenzione agli investimenti nella ricerca, soprattutto in quella preclinica. La ricerca italiana è molto competitiva, ma la mancanza di infrastrutture e sostegno limita le possibilità dei ricercatori italiani, molti dei quali si trasferiscono all’estero proprio per questo. Serve più attenzione da parte di chi decide, a livello politico e organizzativo, per dare più infrastrutture e possibilità”. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza dovrebbe contribuire a superare questi limiti. Ma il cambiamento deve partire dalla testa.
(da Huffingtonpost)
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