IL GOVERNO E LA FALSA DOTTRINA EUROPEISTA
ANCORA UNA VOLTA, MELONI COMPIE UN’IMPOSTURA: RESTA AGGANCIATA AL CONVOGLIO ANGLO-FRANCO-TEDESCO MA SEMPRE PRONTA A SCARTARE DI LATO
Ancora una volta “troppo zelo”, signora Meloni. Vittima dei soliti “eccessi di compiacenza” di cui si lamentava Talleyrand nel ‘700, la presidente del Consiglio ha riposto una fiducia immotivata nelle bufale paci-finte dell’amico amerikano. “Finalmente si aprono spiragli di pace”, aveva commentato dopo la messinscena agostana di Anchorage, orchestrata dall’impresario Trump insieme al socio Putin. Gli imperi seduti a tavolino, per negoziare il cessate il fuoco in Ucraina: pareva una svolta, invece era diplomazia for dummies. I due autocrati avevano parlato solo di soldi, e mai di soldati (dalle truppe nel Donbass alla forza di interposizione Nato). Era facile immaginarlo, ma la Sorella d’Italia aveva sperato ancora una volta nelle virtù taumaturgiche del falso alleato di Washington, che in realtà condivide col suo alleato vero di Mosca un unico obiettivo: umiliare l’Europa, ridisegnando il nuovo ordine mondiale basato sulla forza.
Si è visto cosa valeva quel vertice in Alaska, per l’uomo del Cremlino. I meloniani “spiragli di pace” sono tragicamente sepolti sotto le macerie di Kiev, martoriata da 598 droni e 31 missili, in una topografia di sangue dove nulla è lasciato al caso. I micidiali Shahed-Geran lanciati sui condomini, gli ipersonici Kinzhal puntati sui treni e i capannoni della turca Bayraktar, le bombe terra-aria pilotate sulle sedi della delegazione europea e del British Council. Ogni ordigno, un avvertimento. Ma anche un insegnamento. Per chi nel Vecchio continente non ha ancora compreso quello che Angela Merkel predisse già nel marzo 2014: trattare con Putin non è difficile, è inutile “perché lui abita un altro pianeta”. Era già successo il 20 febbraio 2022, quando il nuovo Zar — che aveva già schierato le truppe al confine ucraino — promise a Macron un colloquio “ma prima che io entri in palestra”: anche tre giorni fa, mentre la Casa Bianca liquidava come “stronzate” le minacce del falco Lavrov, le bombe assassine erano già in rotta verso Kiev.
“Mad Vlad” non è matto, ma insegue un suo disegno. Con la violenza come modus operandi e la guerra come prosecuzione della politica, punta a ricucire la Russia imperiale e la Russia sovietica. Non a caso il povero Navalny lo chiamava “bunkerny ded”, il “nonno nel bunker”: estraniato dalla realtà, ossessionato dalle armi, agito da quella che Iosif Brodskij chiama “xenofobia uterina”, dominato dalla mania delle grandezze perdute. A lui importa solo ristabilire l’amata derzhava, la “potenza” della madre Russia rievocata nell’ultima stesura dell’inno nazionale. L’Ucraina è il pretesto per dispiegare quella potenza, come scrisse nel saggio del 2021, Sull’unità storica dei russi e degli ucraini: siamo “lo stesso popolo”, fosco presagio dell’attacco imminente.
La recita di Anchorage è stata l’occasione per illudere i gonzi con la stessa menzogna: la Russia torna tra i grandi e vuole scendere a patti. Altro film già visto, alle Olimpiadi di Sochi del 2014. Allora il dittatore forgiato al Kgb presentò la maschera soft della “nuova Russia”, globale e tollerante, multiculturale e
integrata, nelle stesse ore in cui disponeva l’annessione della Crimea. Adesso simula il dialogo con Trump, e intanto ordina ai siloviki del suo cerchio magico di spingere al massimo la macchina di morte contro Zelensky. Chi cade in queste trappole? Chi crede ancora nella pace promessa dal tycoon newyorchese, il “Groucho Marx della diplomazia” secondo l’Economist? Con Putin stiamo vedendo dove porta: molti carrarmati sul fronte ucraino sventolano addirittura la doppia bandiera, russa e americana. Con Netanyahu va persino peggio: Israele è a un passo dalla liquidazione totale di Gaza, stermina bambini e giornalisti e Trump mugugna “non sono contento”. Troppa grazia.
L’Europa, nonostante tutto, resta in vita. Von der Leyen, genuflessa di fronte al “paparino” nel suo golf-resort in Scozia, è stata penosa. I leader europei, interrogati come scolaretti nello Studio ovale, sono stati scandalosi. Ma il formato Marcon-Merz-Starmer non cede alla sindrome di Chamberlain e regge l’urto della diarchia degli autocrati: garantisce il sostegno a Zelensky e capisce che difendere Kiev equivale a salvare l’Europa, la sua storia e la sua cultura, i suoi valori e le sue istituzioni. In una parola: le sue democrazie. Come ha scritto qui Andrea Bonanni, la coalizione dei volenterosi non è l’Unione e questa Unione non è abbastanza. Ma se lo zar bombarda le sue sedi, vuol dire che è in gioco. Con i suoi vizi e i suoi limiti. Mario Draghi e Romano Prodi li hanno messi a nudo: siamo marginali sull’Ucraina e spettatori sulla Palestina. Prigionieri del voto all’unanimità, non sappiamo decidere né incidere. Ma qui torniamo al paradosso Meloni. Acclamata a Rimini come “cancelliera moderata” — in odor di santità secondo i ciellini del meeting e di Ppe secondo gli opinionisti del mainstream — la presidente del Consiglio si è appropriata delle critiche all’Europa di Draghi, per dire non si sa bene da quale pulpito “io lo ripeto da anni”. Come se la sguaiata eurofobia meloniana dei tempi dell’opposizione dura e pura si
possa assimilare al whatever it takes dell’ex presidente della Bce. E la proposta dell’ex premier (più integrazione e più mutualizzazione del debito) si possa conciliare con quella della premier in carica (più Stati-nazione e meno burocrazia Ue).
Ancora una volta, Meloni compie un’impostura. Resta agganciata al convoglio anglo-franco-tedesco, ma sempre pronta a scartare di lato. Glielo ricorda Mario Monti: ora fa l’europeista, ma si oppone al voto a maggioranza e preme su Bruxelles perché sia docile con Washington. Non solo: abbraccia il guerriero Zelensky, ma poi nomina ambasciatore a Mosca il filo-putiniano che trattò l’accordo di partenariato tra la Lega e Russia Unita. Non sta mai con Macron, Merz e Starmer sull’invio di truppe, ma si schiera spesso con Orban e Fico. L’abbiamo toccato con mano ieri, il vero dramma dell’Unione: la risoluzione di condanna per la strage russa su Kiev non è passata per il veto del tiranno ungherese.
Ma è esattamente questo il modello caro alla Sorella d’Italia, che non a caso parla a vanvera solo di un “Occidente” immaginario: l’Europa delle Nazioni, uno spazio economico dove ognuno ha la sua identità e ognuno va per la sua strada, semmai trattando in proprio i favori degli imperi. E questa è appunto l’Europa reale, che esiste già ed è arrivata a questo tornante della storia proprio perché erosa al suo interno dai partiti sovranisti di cui i “patrioti” tricolore sono i fieri capi-famiglia. Per questo la dottrina Meloni sull’Europa — mutuata da Draghi, ma deformandone il senso — suona del tutto fasulla. La destra che lei incarna non è la cura: è la malattia. Peccato solo che la sinistra, indaffarata tra cacicchi e capibastone, non sappia neanche spiegarlo agli elettori.
(da repubblica.it)
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