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“IL PONTE DI MESSINA? C’È IL RISCHIO CHE INVECE CHE UNIRE DUE COSTE POSSA UNIRE DUE COSCHE”: IL FONDATORE DI “LIBERA” DON LUIGI CIOTTI E I SUOI 80 ANNI DA ERETICO, DALLA BARACCA DI TORINO ALLA BATTAGLIA CONTRO LE MAFIE

“EDOARDO AGNELLI MI CONFESSÒ TUTTE LE SUE SOFFERENZE… RIINA CHE DISSE “CIOTTI? POTREMMO PURE AMMAZZARLO” E IL FACCIA A FACCIA A CORLEONE CON LA MOGLIE DEL CAPO DEI CAPI: “RIINA AVREBBE VOLUTO INCONTRARMI. MA NON SI SAREBBE MAI ABBASSATO A FARMELO CHIEDERE” … “GAZA? COME SI FA A NON PARLARE DI GENOCIDIO?”

Pio Luigi Ciotti. Non tutti sanno che ti chiami Pio.
«Perché da piccolo c’era chi mi chiamava come i pulcini: “Pio, Pio, Pio…”. Sai come sono i bambini: Pio, pio, pio. Allora lo rifiutai. Oggi è diverso. E quel nonno, che morì quando ero ancora piccolo, ce l’ho dentro. Lui e il suo mulino sul Piave».
Forse perché anche tu non ti fermi mai.
«Così era il mulino. E ti abitui tanto alle pale mosse dall’acqua che, se si fermano, ti svegli di soprassalto. Per il silenzio».
Tanti anni fa ne parlasti a proposito del tuo rapporto col grano, il pane, Cristo, Betlemme…
«Beem, t-lehla “casa del pane”. Quando dico messa e arrivo a quel punto lì (“e prese il pane, gli rese grazie, lo spezzò…”) mi viene in mente il mulino. Sono sempre stato orgoglioso di dire che mio nonno era un “moliner”. Quando glielo espropriarono per fare il bacino artificiale del Cadore che lo avrebbe inghiottito, per lui fu l’inizio della fine. Era la sua vita, quel mulino. Ho la sua foto in camera…».
Anche tuo padre, Angelo, era uno che sgobbava.
«Partì da qui quando aveva 14 anni. E scese col fratello più grande, Adone, per fare il manovale in un cantiere delle ferrovie, a Pizzo Calabro. E da lì a Caulonia. Pensa: questa terra era così povera che a metà degli Anni Venti del ’900 andarono in Calabria! Lo racconto sempre, quando vado giù. Ricordando l’affetto con cui lui parlava di queste donne calabresi così povere e generose con lui, il ragazzino costretto a portare “calderelle”, i blocchi incandescenti di calce viva più grandi di lui. Da lì, finì a Napoli».
E quando arrivarono a Torino?
«Prima tornarono al Nord ma ad Alba. Per un cantiere che
faceva le nuove fogne».
E tu ci finisti dentro. Toni Mira nel libro in uscita oggi col titolo «Vi auguro di essere eretici», sostiene ridendo che fu il battesimo giusto per uno destinato a tirar fuori persone infognate nei problemi…
«Ero un bambino irrequieto. Mia mamma fu costretta a portarmi all’ospedale. Avevo un taglio allo zigomo, lei mi fermò l’emorragia (praticità delle donne) piazzandomi sulla guancia una molletta da bucato».
E finalmente, dopo tanto peregrinare, Torino.
«Vivevamo in una baracca dentro il cantiere che costruiva il Politecnico. Non osavo dirlo, a scuola, che vivevamo in una baracca col pavimento in terra battuta. Solo più tardi abbiamo avuto un appartamento. Eppure mio papà era così grato alla città per averlo accolto che quando morì, a 99 anni, volle essere sepolto lì. Vicino alla mamma. Anche lei era venuta via straziata dal Cadore. Per loro Torino era la città dell’ospitalità».
Tu invece…
«Torino mi ha dato tutto. E io le ho dato tutto quello che potevo. Ma per tutta la vita mi sono rimaste dentro le mie montagne. E son venuto su a Pieve di Cadore per chiedere ai cadorini, quando sarà, di essere riportato qui».
E loro?
«Mi vogliono bene. Adesso poi, scherzi del destino, la sindaca è figlia di una emigrazione diversa. Si chiama Sindi Manushi, fa l’avvocato, i suoi arrivarono con le prime navi cariche di disperati dall’Albania. Pensa un po’, la storia…».
Ricordi anche il calamaio che tirasti alla maestra?
«Mia madre mi aveva arrangiato un grembiule senza il fiocco.
La maestra si spazientì, mi chiamò “montanaro”, io reagii nel modo sbagliato. “Hai fatto male, ma ti capisco”, disse la mamma. Fu difficile, per me, inserirmi a Torino. Anche per questo cominciai giovane a occuparmi degli altri ragazzi, che venivano soprattutto dal Veneto o dal Sud».
L’incontro con Dio?
«Frequentavo la parrocchia Beata Vergine delle Grazie, feci la prima comunione lì. Ricordo una lapide col nome di un ragazzo che abitava nei pressi: Pier Giorgio Frassati. Papa Leone XIV l’ha fatto santo domenica».
Cominciò tutto là, in parrocchia?
«La vita, diciamo, curvò le mie strade facendomi incrociare tante persone. Volevo essere utile. Il primo gruppo lo chiamammo “Gioventù Impegnata”. Un nome segno dei tempi. Non entrai in seminario da bambino. Avevo vent’anni e il vecchio cardinale di Torino Maurilio Fossati decise di sperimentare “vocazioni adulte”. Avevo studiato per diventare elettrotecnico. Non entrai in seminario dicendo: “Farò il sacerdote”. Ma “vado a vedere se può essere un percorso da fare”. Sentivo il desiderio di spendere la mia vita per gli altri».
Farti «mangiare dagli altri», dice chi ti vuol bene e ti implora di non esagerare con gli impegni.
«È la mia vita. Il tempo dell’amore non viene stabilito da chi ama, ma da chi ha bisogno di essere amato. E aiutato. Sono gli altri che mi dettano l’agenda. Non posso dire no».
Alla fine hai preso i voti…
«L’ho detto più volte: avevo bisogno di prendere una sana pedata che mi spingesse dentro. Che mi facesse capire se fosse davvero la strada giusta».
E il cardinale Pellegrino disse ai tuoi ragazzi: «Tranquilli, non ve lo porto via, come parrocchia gli affido la strada».
«E lì nacque il Gruppo Abele. Avevo visto un bellissimo servizio di Sergio Zavoli, “I giardini di Abele” su Franco Basaglia e l’apertura dei manicomi. Il nome Abele non ci metteva dalla parte delle vittime rispetto ai carnefici: in fondo i ragazzi che accoglievamo erano entrambe le cose. Il nome era una risposta alla domanda che Caino pone a Dio nella Bibbia: “Sono forse io il custode di mio fratello?”».
Tu rispondi: sì.
«Esatto. Dovevamo farci carico del problema. Essere “custodi” dei nostri fratelli e sorelle meno fortunati. Stare dalla parte dei poveri. Di chi fa più fatica. E quando parlo di poveri non parlo solo di povertà materiale. Ho conosciuto tante persone coi soldi ma in crisi. Povertà esistenziali che chiedono aiuto».
Pensi a persone come Edoardo Agnelli?
«Anche. L’ho conosciuto. Era un ragazzo gentile e fragile. Con dentro una grande sofferenza. Veniva a parlarmi, mi scriveva lettere di duecento pagine… Qualcuno, non so come, venne a sapere che avevamo questo rapporto e avrebbe fatto carte false per avere un memoriale. Non ne parlammo mai. Proprio perché, per noi, era solo un giovane in difficoltà. Che aveva più diritto ad essere protetto».
E l’Avvocato?
«Per lui era un sollievo sapere che il figlio, che viveva in un mondo tutto suo, aveva questo rapporto con noi. Sapere che ogni tanto mi invitava a pranzo lo rassicurava. La solitudine può schiacciare».
Ne ho viste tante, di persone che in silenzio hanno preso coscienza del male fatto ad altri e a se stessi. Conversioni vere». Anche nella ’ndrangheta?
«In questo momento, in questo momento! Anche nella ’ndrangheta, sì. Pensa alla rivolta in questi anni di tante donne che dicono basta».
Non la moglie di Totò Riina Ninetta Bagarella, stando alla testimonianza di quando l’hai incontrata…
«Aveva chiesto di vedermi, la vidi in gran segreto a Corleone. Mi disse: “Parrino, sono cresciuta nell’Azione Cattolica”. Risposi: “Anche io signora ma abbiamo preso strade diverse”. “Sa, preghiamo tanto”. “Forse io un po’ di meno, signora, ma ho sempre pensato che la preghiera è tradurre le parole in fatti…”».
Sapevi che suo marito aveva detto a un compagno di cella «Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzarlo»?
«Quella intercettazione in carcere non era stata ancora pubblicata. Non lo sapevo io, non lo sapeva lei. Era preoccupata per il marito in galera e per i figli. Capii che era stato lui a suggerirle di chiedere l’incontro: “Cerca il parrino”. Avrebbe voluto incontrarmi. Ma non si sarebbe mai abbassato a farmelo chiedere».
Nel libro con Toni Mira c’è la tua delusione per come sta andando con la scomunica dei mafiosi.
«Per papa Francesco la scomunica aveva una funzione medicale: inchiodare le persone alle proprie responsabilità. La Chiesa non ti butta fuori: vuole spingerti a cambiare. Ti offre la possibilità di rimediare al male fatto. L’obiettivo resta la conversione».
Però la scomunica pare arenata…
«Ci sono difficoltà. Speravamo che dopo l’incontro di Francesco a Roma coi familiari delle vittime e l’intervento a Sibari in cui
denunciò “l’adorazione del male” invocando la scomunica si parlasse infine un po’ di mafia nella dottrina sociale della Chiesa, nel catechismo, nel diritto canonico…».
Invece, hai detto, «qualcuno in Vaticano ci ha frenati».
«Ripeto: volevamo incontrare Francesco per sottoporgli le nostre preoccupazioni. Non ci siamo riusciti…».
Ma c’è ancora, la mafia? Non pare più un tema centrale.
«Certo che c’è ancora la mafia. E ci sono i mafiosi. Anche perché l’ultima mafia è sempre la penultima. Nel codice genetico dei mafiosi c’è un imperativo: rigenerarsi. Si rigenerano, loro. Tocca a noi, noi società civili, associazioni, movimenti, rigenerarci».
La corruzione?
«Lo dico anche nel libro: mafia e corruzione vanno a braccetto. Certo, le mafie sono cambiate, non sono più quelle della stagione delle stragi. Ma mai come oggi sono saldate».
Sempre convinto che il ponte di Messina «unirà due cosche»?
«Detta così è una forzatura. Ma insisto: c’è il rischio che invece che unire due coste possa unire due cosche. Ci sono storie, testimonianze, documenti che dimostrano questo rischio. Ridicolizzarlo può essere pericoloso».
Gian Carlo Caselli ha detto che il tuo «capolavoro» è stata la legge sulla confisca dei beni mafiosi: quanti miliardi avete recuperato?
«Noi? È lo Stato che con quella legge votata dalle Camere grazie al milione di firme raccolte, ha recuperato aziende, terreni, credibilità…
Noi con Libera gestiamo solo una parte minore di questi beni».
È per quella legge che sei sotto scorta da decenni?
«Avevo già avuto problemi prima che nascesse Libera. Tutto iniziò quando capii che ogni morto di droga era un morto di mafia. Quello era il nodo: il traffico di droga. Fu allora che la prefettura di Torino mi avvertì che c’erano state delle intercettazioni telefoniche e c’era rischio che qualcuno…».
Sei un eretico, come provoca il titolo del tuo libro?
«È preso da una mia lettera: “Vi auguro di essere eretici. / Eresia viene dal greco e vuol dire scelta. / Eretico è la persona che sceglie e, / in questo senso è colui che più della verità ama la ricerca della verità…».
È questo il senso di questi ottant’anni?
«Sì. Io sono una persona cosciente, non è un modo di dire, delle mie fragilità».
E l’Italia? È cosciente delle sue fragilità?
«Non so. Vedo crescere l’individualismo, i personalismi. Io, io, io… Mi preoccupa l’indifferenza, la superficialità. Al centro non c’è più l’ecosistema ma l’“Ego-sistema”. Non solo da noi.
Ci sono cinque persone (cinque!) che in questi momenti di grande conflitto, guerre, genocidi, fragilità, hanno guadagnato negli ultimi tempi il 114% in più dei loro capitali. Cinque in tutto il mondo. Mentre cinque miliardi di persone già povere stanno peggio. Serve una riflessione. Forse non c’è mai stata tanta corruzione nel mondo. Basta vedere come Trump intende la trattativa. Questi si sentono padroni del mondo. Si sentono immortali».
È la tesi di Mattarella: con i potentati del Web sono tornate le Compagnie delle Indie.
«Vedo tre grandi fratture. La prima è il disordine geo-politico e le guerre in atto. La seconda le disuguaglianze e la crisi sociale,
con la forbice che si allarga sempre di più. La terza: in un pianeta ormai ai limiti c’è una tecnologia che non ha un timone. Il cambiamento climatico non è una minaccia futura: è la realtà. Oggi.
Ma c’è anche una crepa tecnologica: i nostri dati sono la nuova materia prima usata per influenzare i nostri comportamenti. C’è una crisi della verità. Non è più l’etica a stabilire i limiti del fare, ma la potenza della tecnica».
Hai citato i genocidi: parli di Gaza? È ustionante il dibattito sull’uso della parola…
«Scusa: come si fa a non parlare di genocidio? Quando vedi bombardare ospedali, scuole, tendopoli? Uccidere decine di giornalisti che raccontavano quello che succede? Se non è un genocidio certo sono stati creati tutti gli strumenti perché questo avvenga».
C’è chi dirà: occhio, rischi l’antisemitismo…
«Sarebbe assurdo. È una vita che mi batto contro ogni razzismo. E non sono equidistante. Sono “equivicino”: ho a cuore sia il diritto di Israele ad esistere sia il diritto dei palestinesi a non essere annientati. Non possiamo tacere. Come non possiamo tacere sulla prigionia in Venezuela, da mesi, di Alberto Trentini. Vedo troppi silenzi. Troppe prudenze, troppi compromessi, troppe mezze parole… E non ne posso più, delle mezze parole…».
(da Corriere della Sera)

This entry was posted on mercoledì, Settembre 10th, 2025 at 20:06 and is filed under Politica. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can leave a response, or trackback from your own site.

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ALTRO CHE NUOVA ETÀ DELL’ORO PROMESSA DA TRUMP. IL CEO DI JP MORGAN, JAMIE DIMON, SENTENZIA CHE “L’ECONOMIA STATUNITENSE SI STA INDEBOLENDO” »

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