INTERVISTA A DENIS VERDINI: “SARO’ PRESENTABILE ANCHE PER IL PD”
“PARLAVO A TUTTI, TUTTI AVEVANO BISOGNO DI ME”
Tre Marlboro rosse di fila, praticamente senza respirare.
Poi Denis Verdini si lascia andare, in un angolo del cortile del tribunale: «Che fatica questo interrogatorio, ma combatto. In questo processo non c’è davvero un cavolo, mi creda. Però mi devo difendere, l’ho sempre fatto. E d’ora in poi lo farò su tutto».
In effetti l’ex coordinatore berlusconiano ha bisogno di uscire indenne da questo corpo a corpo con la giustizia.
Inevitabile, per chi bussa alla porta del Pd, ha un piede e mezzo nella maggioranza di Matteo Renzi e sogna un posto al sole nel partito della Nazione: «Certo che lo faccio anche per una questione di “presentabilità ” politica, come la chiama lei. Ed è ovvio che in questa fase sono esposto. Ma, mi creda, lo faccio soprattutto per una questione di onorabilità personale».
Bisogna rientrare in aula, la prima pausa concessa dal tribunale è già finita.
«Non mi sono mai sottratto ai giudici. Politica e giustizia restano, per me, due binari separati»
È arrivato a piazzale Clodio poco dopo le nove. Completo blu, cravatta tendente al viola, bretelle nere. Tra i suoi legali c’è il professor Coppi, a cui indirizza lo sguardo con ostentata noncuranza prima di rispondere ai quesiti più delicati.
A un certo punto incrocia il faccendiere Flavio Carboni, anche lui imputato per la P3, descritto come un simpatico guascone: «Scusi, signor capo del governo»…, scherza il faccendiere.
E Verdini: «Se lo dici di nuovo – sorride – ci arrestano a tutti e due…».
Vuole conquistare i giudici. Come?
«Spiego la politica, che è il mio lavoro».
Racconta la dura attività da Mister Wolf di Fivizzano. Sangue e merda, diceva Rino Formica. «Fare il politico è una cosa tosta, c’ho sempre la gente addosso… Godo negativamente dell’immagine dell’uomo dal carattere forte, che manda a quel paese e si fa rispettare. È il mio linguaggio, non lo filtro. Parlavo con tutti, bastava una telefonata. Tutti avevano bisogno di me».
Costruisce l’immagine di un potente spregiudicato che decide e magari calpesta, ma che non ha certo bisogno di una banda di millantatori: «Non per fare l’arrogante, ma è il mio mestiere scontentare qualcuno. Sa, lui diceva di sì a tutti, poi intervenivo io».
E alza il dito verso l’alto, tanto che i giudici domandano: «Lui chi?». «Lui, Berlusconi»
A pranzo siede al ristorante con Coppi. Poi torna di fronte ai giudici. Gesticola molto, studia i tempi come fosse a un talk: «Visto che in sala ci sono giornalisti mi lasci dire… ». «Si rivolga a me!», lo riprende il pm.
Per smorzare la tensione il neorenziano cita il “Quarto potere” di Orson Welles, poi Guicciardini.
Ogni tanto la discussione vira verso altri dossier. La premessa è standard: «Di questo sto discutendo in un altro processo». Una, due, tre volte. Quattro, come i suoi guai giudiziari.
Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)
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