INTERVISTA AL CAPOMISSIONE DI OCEAN VIKING: “I LIBICI SONO ADDESTRATI DA NOI, GLI SI INSEGNA ANCHE A SPARARCI ADDOSSO?”
VENTI MINUTI DI SPARI: “VI AMMAZZIAMO TUTTI”
“Queste persone vengono addestrate da noi e sarebbe interessante capire cosa gli insegniamo. Sanno cosa siano le navi umanitarie? O vengono addestrati per minacciarci, ostacolarci, intimidirci o magari anche ucciderci”.
C’è rabbia palpabile nelle parole del capomissione Angelo Selim, ancora su Ocean Viking adesso ormeggiata in porto ad Augusta. Domenica pomeriggio, quando la Guardia costiera libica ha iniziato a sparare contro la nave era sul ponte a coordinare le operazioni, addosso ha le ferite e i tagli che le schegge hanno provocato. Non è alla sua prima missione, sulle navi di soccorso ci sta da tempo, ma una cosa del genere, spiega, è un inedito assoluto.
“E nessuno venga a dire che non è successo nulla di nuovo perché da tempo i libici minacciano le navi umanitarie, cosa di per sé gravissima. Questa volta hanno sparato ad altezza uomo,
per venti minuti. Uno dei proiettili ha colpito il serbatoio della benzina, avrebbe potuto essere una strage”.
Come state a bordo adesso?
“Siamo contenti che nessuno si sia fatto male, che adesso è la cosa più importante. Ma tutto quello che è successo è inaccettabile da ogni punto di vista”.
Proviamo a ricostruirlo?
“Eravamo a 40 o 50 miglia dalle coste libiche, avevamo ricevuto un mayday relay e ci stavamo dirigendo verso un altro caso quando abbiamo visto una motovedetta, una delle classe Corrubia regalate dall’Italia, dirigersi verso di noi a tutta velocità. Abbiamo alzato il livello di sicurezza e cercato un contatto radio. In inglese, com’è previsto che si faccia in acque internazionali, ho provato a spiegare cosa stessimo facendo”.
Hanno mai risposto?
“Urlavano solo: “Zero, zero, out, out”. Significa “andate via, andate a nord”. Quando è arrivato il mediatore e ha iniziato a parlare con loro in arabo, prima lo hanno insultato, poi hanno iniziato a sparare e ad avvicinarsi sempre di più. A quel punto ho chiesto a tutto l’equipaggio di chiudersi nella cittadella, la zona sicura della nave”. È la procedura standard in caso di attacco.
Avete temuto un abbordaggio?
“Assolutamente sì. Erano vicinissimi e continuavano a sparare. Ho chiesto al mediatore di spiegare loro che stavamo andando via. Lui ha fatto un lavoro grandioso, ha provato in tutti i modi a calmarli e disinnescare la situazione mentre noi viravamo e mettevamo la prua a Nord, ma loro non smettevano. Alla fine ci hanno detto: “Andate via entro un’ora o torniamo e vi ammazziamo tutti”.
In quei momenti vi siete resi conto del pericolo che stavate correndo?
“Sarebbe stato impossibile fare altrimenti. Contro di noi hanno usato due tipi di armi – un mitragliatore e un fucile di precisione di grosso calibro – e hanno sparato ad altezza uomo. Uno dei proiettili ha bucato i vetri del bridge e si è conficcato in un armadio sopra le nostre teste. Se non ci fossimo tutti buttati a terra, adesso non staremmo parlando di tentato omicidio, ma di uno o più morti ammazzati”.
Qualcuno vi ha dato supporto?
“Abbiamo contattato la Nato per chiedere protezione, ma ci ha detto semplicemente di far riferimento a una nave della Marina militare italiana che era la più vicina in area. Non ci hanno mai risposto”.
L’equipaggio oggi come sta? E i naufraghi?
“Paradossalmente i naufraghi sono stati così esposti, per così tanti anni, alla violenza indiscriminata da non aver avuto le reazioni di panico che temevamo. Gli altri a bordo hanno mantenuto tutti la lucidità in quei momenti, ma sono ancora tutti sotto shock e terrorizzati”.
Qualcuno ha chiesto di essere sbarcato?
“Dell’equipaggio umanitario, nessuno. Fra i tecnici a bordo invece, qualcuno sta pensando di cercare altri ingaggi: per le navi che transitano in zone di guerra – dicono – ci sono gli specialisti. Le acque internazionali del Mediterraneo non lo sono, ma i libici operano come se fossero territorio di loro esclusiva competenza, da proteggere militarmente. E gli si consente di farlo”.
Chi lo permette?
“Veniamo da anni di criminalizzazione dell’operato delle ong che lavorano in mare. Ci ostacolano, ci mandano in porti lontani, ci fermano. Noi proviamo solo a soccorrere persone che vengono condannate a una morte atroce fra le onde – e neanche nei Paesi in cui ancora esiste la pena di morte c’è una pena così crudele – mentre la Guardia costiera libica continua a essere finanziata e supportata. Questo clima li fa sentire autorizzati a fare qualsiasi cosa, incluso cercare di ucciderci”.
(da La Repubblica)
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