LA RICOSTRUZIONE CI E’ COSTATA 120 MILIARDI IN 50 ANNI
ERRORI ED ORRORI DAL BELICE ALL’EMILIA, SOLO IL FRIULI E’ STATO UN MODELLO VIRTUOSO
All’inizio la ricostruzione non fu facile nemmeno in Friuli. «Fasin di bessà’i», avevano detto gli abitanti dopo la tragedia del 6 maggio 1976. Facciamo da soli.
E avevano cominciato a riparare le case distrutte, a rinforzare quelle pericolanti. Poi venne la scossa del 15 settembre e tutto crollò di nuovo.
Ci sono voluti dieci anni e quasi 20 miliardi di euro per far rientrare a casa gli ottantamila sfollati e far tornare come prima i 137 Comuni colpiti dall’Orcolat, l’orco sotterraneo della Carnia.
«Dopo un sisma non ci sono ricostruzioni felici», commenta Andrea Barocci, mentre si prepara a partire per le zone terremotate. Ingegnere delle strutture, coordinatore della sezione norme, certificazioni e controlli in cantiere dell’associazione Ingegneria sismica italiana, Barocci è autore di un manuale, «Rischio sismico» (edizioni Grafill), in cui spiega che il terremoto, in Italia, è una certezza con cui dobbiamo convivere.
In meno di cinquant’anni sette sismi ci sono costati cinquemila morti, oltre 500 mila sfollati e 121 miliardi di euro di soldi pubblici spesi per ricostruire.
Come una manovra aggiuntiva di due miliardi e mezzo ogni anno.
LA VERGOGNA DEL BELICE
Primo venne il Belice, la valle siciliana dove l’Italia diede il peggio di sè negli aiuti e nella ricostruzione. Gibellina, Salaparuta, Montevago erano polvere, ma lo Stato lasciò per quasi due anni i cittadini nelle tende, assieme ai loro sindaci esautorati, per ricostruire malamente i paesi in una distesa di case a schiera tutte uguali.
A poco servì la protesta di Danilo Dolci, il Gandhi della Sicilia, che gridava «La burocrazia uccide più del terremoto». Quarant’anni fa c’erano ancora 47 mila sfollati, le ultime baracche di eternit sono state smantellate nel 2006.
Agli antipodi dell’Italia, il Friuli è un’altra storia.
Siamo ancora in guerra fredda, il premier Aldo Moro non può lasciare solo il territorio militarmente più esposto a eventuali attacchi da Est. Già il 7 maggio, il giorno dopo la scossa da quasi mille morti, Giuseppe Zamberletti viene nominato commissario straordinario ad hoc.
Tre le linee guida: decentrare le decisioni, reinsediare al più presto la popolazione, ricostruire tutto com’era e dov’era. Prima le fabbriche, per garantire il lavoro, poi le case e infine le chiese. Sono anni da stato d’assedio: roulotte sequestrate in tutta Italia, case espropriate, interi Comuni come Venzone che diventano «opera pubblica», edifici privati compresi.
Cossiga, ministro dell’Interno, scrive di suo pugno: «Il commissario agisce in deroga a tutte le leggi ivi comprese quelle sulla contabilità generale dello Stato». Fioccano le denunce e le proteste di chi aveva un appartamento e si vede restituire una stanza. Ma intanto i paesi rinascono.
Con la tecnica certosina dell’«anastilosi» si ricostruiscono palazzi e chiese numerando le pietre e rimettendole al loro posto esatto. Diecimila quelle del Duomo di Venzone, finito quasi vent’anni dopo. Alla metà degli anni ’80 gli ultimi sfollati lasciano i prefabbricati e tornano a casa. Ed è questo il modello Friuli, forse l’unico esempio positivo di ricostruzione in Italia, che non ha purtroppo fatto scuola.
Solo quattro anni dopo viene l’Irpinia, quasi tremila morti, la madre di tutte le sconfitte dello Stato e delle cosiddette autorità locali. La prima stima dei danni, nel 1981, parla di 8.000 miliardi di lire, ma alla fine il conto totale supererà i 50 miliardi di euro.
Ogni volta che facciamo benzina, paghiamo 4 centesimi al litro per la ricostruzione dell’Irpinia, una piaga che nel frattempo si è allargata dai 99 Comuni dichiarati all’indomani del sisma ai 643 riconosciuti dal governo di Arnaldo Forlani e ai 687 finali: miracolo al contrario di un’Italia che promette consensi elettorali in cambio di contributi non dovuti. Ancora oggi i quartieri di Penniniello e Quadrilatero delle carceri a Torre Annunziata, feudi di camorra, aspettano la ricostruzione. I fondi dello Stato sono finiti altrove.
LA RISATA E LE NEW TOWN
Della ricostruzione in Umbria e Marche si può parlare bene o male, ma il lavoro di restauro della basilica di Assisi e la riparazione dei paesini storici feriti hanno del miracoloso.
Nulla di sacro c’è, invece, nella gestione del dopo-sisma in Abruzzo, marchiato dalla risata oscena fra Francesco Maria De Vito Piscicelli e suo cognato al pensiero dei lucrosi appalti in arrivo. «Ricostruiremo in sei mesi tenendo fuori speculazione e mafia», aveva promesso Silvio Berlusconi. Ma la sua idea della «new town», i paesi di plastica dove ricollocare gli sfollati, è stata un autogol.
Sette anni dopo la tragedia, migliaia di persone vivono nelle Case (Complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili) o nei Map (Moduli abitativi provvisori). L’Aquila non è risorta, l’emergenza non è mai finita.
Nemmeno il terremoto nella pianura padana emiliana è un esempio di rapida ricostruzione: in quattro anni sono poche le attività ripartite.
Per il Centro Italia nuovamente colpito non ci sono modelli vincenti.
L’unica strada è una vera prevenzione strutturale, con la revisione di tutti gli edifici a rischio.
Ma questa sarebbe un’altra Italia.
Alessandro Cassinis
(da “La Stampa”)
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