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MIGRANTI, I GIUDICI DI BOLOGNA RINVIANO ALLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA IL DECRETO SUI MIGRANTI: “CON QUESTI CRITERI LA GERMANIA NAZISTA SAREBBE STATA DEFINITA “PAESE SICURO””

SI CHIEDE ALL’ALTA CORTE QUALI NORME VADANO RISPETTATE E SI CRITICA LA DEFINIZIONE DI “PAESE SICURO” CHE INCIDE SUI CPR IN ALBANIA

Il Tribunale di Bologna ha chiesto alla Corte di giustizia dell’Unione europea di stabilire se deve essere disapplicato il decreto legge del 21 ottobre con cui il governo Meloni ha definito la lista dei Paesi che ritiene «sicuri» per rimpatriarvi i migranti espulsi dall’Italia.
Secondo i giudici bolognesi infatti i criteri usati dal governo nella designazione di Paese «sicuro» contrastano con il diritto europeo.
Il decreto serviva a rendere operativo l’accordo con l’Albania sulle procedure accelerate per il rimpatrio dei migranti irregolari, su cui si incentrano le politiche per l’immigrazione volute dalla premier Giorgia Meloni, risolvendo alcuni problemi giuridici posti dalla precedente lista dei Paesi sicuri fatta dal governo italiano.
Cosa dice il decreto del governo Meloni
Il Consiglio dei ministri infatti ha approvato il decreto in tutta fretta dopo che il 18 ottobre il Tribunale di Roma non ha convalidato il fermo per i primi 12 migranti sbarcati in Albania, che quindi erano stati riportati in Italia. Definendo sicuri 19 Paesi, il decreto mira a rendere possibile il trasferimento in Albania dei migranti che provengono da quei Paesi (se le loro richieste di asilo vengono respinte) in attesa che siano completate le procedure accelerate di espulsione previste dall’accordo con Tirana.
Da dove nascono i dubbi del tribunale
Il modo in cui il governo ha scelto di definire sicuri i 19 Paesi in questione però contrasta con le normative europee attualmente in vigore (anche se lo rimarranno solo fino al 2026) e il Tribunale di Bologna si è rivolto ai giudici della Ue chiedendogli di esplicitare quali regole debbano prevalere: se quelle italiane o quelle europee.
Secondo il diritto dell’Unione europea le norme nazionali sull’immigrazione devono sempre rispondere al diritto della Ue e quindi il conflitto con il decreto del governo Meloni (che era stato oggetto di una intensa interlocuzione tra gli uffici giuridici di Palazzo Chigi e quelli della presidenza della Repubblica) era inevitabile. Il rinvio del Tribunale di Bologna alla Corte di Giustizia Ue lo rende solo palese.
Il concetto di sicurezza «parziale»
Il rinvio riguarda il caso di un cittadino del Bangladesh, uno dei 19 Paesi sicuri secondo il decreto del governo Meloni. Il Tribunale di Roma il 18 ottobre aveva spiegato che il Bangladesh e altri Paesi non potevano essere ritenuti sicuri sulla base «dei principi, vincolanti per i giudici nazionali e per l’amministrazione, enunciati dalla recente pronuncia della Corte europea» del 4 ottobre. Sentenza che aveva bocciato la definizione di «Paesi d’origine sicuri» utilizzata dall’Italia perché basata su un concetto di sicurezza «parziale». Ovvero sull’idea che Paesi come Bangladesh, Egitto o Tunisia sono sicuri per la maggioranza della popolazione, mentre sono pericolosi solo per minoranze vulnerabili come gli oppositori politici o la comunità Lgbtqi+. Per la Corte Ue del Lussemburgo, però, non è ammissibile escludere categorie di persone da questa definizione: un Paese o è sicuro per tutti o non lo è per nessuno.
Al contrario il governo, come ha spiegato Gianluca Mercuri, sostiene che la sentenza della Corte di giustizia Ue non può essere considerata vincolante, perché sarebbe (secondo le parole del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano) «estremamente complessa, difficilmente trasferibile a ciò che accade in via ordinaria nei flussi migratori» e perché il Parlamento europeo ha già approvato un nuovo Regolamento che entrerà in vigore nel 2026 e modifica il concetto di Paese sicuro introducendo il concetto di «sicurezza parziale».
Poco importa al governo se — come ha scritto la nostra corrispondente da Bruxelles Francesca Basso — «finché il nuovo Patto non entra in vigore resta valida la direttiva del 2013» a cui si rifà la sentenza del 4 ottobre della Corte europea.
Il tribunale di Bologna fa riferimento a questo conflitto e nel chiedere alla Corte di giustizia Ue di pronunciarsi non solo condivide la valutazione del Tribunale di Roma ma sostiene che il decreto debba essere disapplicato perché non può esistere una sicurezza solo parziale.
Il paradosso: «La Germania nazista era un Paese sicuro?»
«Il sistema della protezione internazionale è, per sua natura, sistema giuridico di garanzia per le minoranze esposte a rischi provenienti da agenti persecutori» scrivono i giudici di Bologna. «Salvo casi eccezionali (lo sono stati, forse, i casi limite della Romania durante il regime di Ceausescu o della Cambogia di Pol Pot), la persecuzione è sempre esercitata da una maggioranza contro alcune minoranze, a volte molto ridotte. Si potrebbe dire, paradossalmente, che la Germania sotto il regime nazista era un paese estremamente sicuro per la stragrande maggioranza della popolazione tedesca: fatti salvi gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori politici, le persone di etnia rom ed altri gruppi minoritari, oltre 60 milioni di tedeschi vantavano una condizione di sicurezza invidiabile.
Lo stesso può dirsi dell’Italia sotto il regime fascista. Se si dovesse ritenere sicuro un Paese quando la sicurezza è garantita alla generalità della popolazione, la nozione giuridica di Paese di origine sicuro si potrebbe applicare a pressoché tutti i Paesi del mondo, e sarebbe, dunque, una nozione priva di qualsiasi consistenza giuridica» concludono i giudici.
I magistrati ricordano inoltre che già «il Conseil d’État francese ha ritenuto illegittime le designazioni del Senegal e del Ghana, perché vi è persecuzione delle persone lgbtqia+» e che anche «la Corte Suprema inglese ha dichiarato illegittima la designazione della Giamaica in ragione della persecuzione delle persone lgbtqia+».
Per questo chiedono alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di chiarire «se la presenza di forme persecutorie o di esposizione a danno grave concernenti un unico gruppo sociale di difficile identificazione — quali ad esempio le persone lgbtiqa+, le minoranze etniche o religiose, le donne esposte a violenza di genere o a tratta ecc… – escluda detta designazione» (come Paese sicuro) e se «il dovere per il giudice di disapplicare l’atto di designazione permanga anche nel caso in cui detta designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria».
(da Il Corriere della Sera)

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