TESTATE CHIMICHE MA ANCHE DRONI E MILIZIE: IL PERICOLO DEL CONTAGIO
IL CONFLITTO IRAN-ISRAELE SI PUO’ AMPLIARE
La guerra scatenata da Israele contro l’Iran potrebbe entrare in una fase ancora più critica, con un significativo rischio di allargamento del conflitto. Lo Stato ebraico ha lanciato una campagna militare che conta esclusivamente sull’aviazione per piegare Teheran.
L’unico precedente è quello dell’offensiva condotta dalla Nato per obbligare la Serbia a ritirarsi dal Kosovo nel 1999: all’Alleanza atlantica furono necessari 78 giorni di raid, nonostante avesse il triplo di jet e aeroporti molto vicini. Israele invece dista oltre 1500 chilometri dalla Repubblica islamica, molto più estesa e armata dei serbi.
Il logoramento di aerei ed equipaggi in attività del genere è enorme – ogni missione dura in media cinque ore con diversi rifornimenti in volo – e condiziona l’operazione “Lion Rising”, che non potrà proseguire a lungo con lo stesso ritmo.
Un limite che può essere risolto soltanto con l’intervento americano, sia nel supporto con le cisterne e i radar volanti, sia in un’eventuale partecipazione agli assalti che fonti giornalistiche come Axios ieri hanno reputato possibile.
Queste indiscrezioni possono essere un modo di esercitare una pressione sui vertici della teocrazia sciita, come hanno fatto ieri in maniera più violenta gli F35 israeliani incenerendo le tre raffinerie di petrolio più importanti e concretizzando così la minaccia di azzerare l’unica risorsa economica iraniana.
Lo stesso messaggio di fuoco trasmesso con la distruzione delle case di stretti collaboratori della Guida Suprema Ali Khamenei e con i tentativi di portare avanti la decapitazione del regime, iniziata all’alba di due giorni fa uccidendo tredici figure chiave: una caccia all’uomo sempre più difficile.
Basteranno queste iniziative a mettere al tappeto gli ayatollah?
Attualmente pare di no. Nelle prime 36 ore le Idf hanno bombardato 400 obiettivi in 150 diverse località del Paese e altre dozzine sono stati bersagliati ieri dopo il tramonto: arsenali, basi e infrastrutture delle forze armate, dei Guardiani
della Rivoluzione e del programma nucleare sono state ridotte in cenere.
E’ una ferita enorme al sistema di potere degli ayatollah ma finora non ha impedito la rappresaglia contro Tel Aviv, affidata a circa 250 missili balistici. L’Iran ne ha sicuramente di più, ma fatica a coordinare i loro lanci: gli ufficiali dei pasdaran incaricati di gestire la ritorsione sono morti nella distruzione della centrale sotterranea e i droni israeliani scrutano senza sosta le strade per localizzare i tir che trasportano i missili.
Per questo gli iraniani sono riusciti a concentrare al massimo cento ordigni per ondata: pochi, perché più alto è il numero degli aggressori, maggiore la probabilità di penetrare la cupola difensiva dello Stato ebraico.
La prossima fase del conflitto sarà segnata dalla sfida per neutralizzare questi missili prima che le poche batterie Arrow 3, le sole in grado di abbatterli lontano dalle città israeliane, esauriscano le munizioni.
Gli americani stanno muovendo altre navi dotate di armi in grado di intercettarli, in modo da rinforzare lo scudo su Tel Aviv.
Nessuno sa quanti altri ordigni gli iraniani riusciranno a far partire; c’è però la certezza che dispongano anche di testate chimiche: il loro impiego in passato è sempre stato escluso, ma ora gli ayatollah lottano per la sopravvivenza di un regime che deve reagire in maniera devastante o perderà qualsiasi credibilità interna, aprendo la strada alle rivolte popolari.
I Guardiani della Rivoluzione hanno altre carte da giocare. Finora hanno usato pochi droni e nessun missile cruise: strumenti meno efficaci ma letali e distribuiti pure alle milizie
sciite irachene. Le autorità di Bagdad stanno cercando di frenare in tutti i modi l’ingresso di questi gruppi nel conflitto, ma per Teheran è importante aprire un nuovo fronte, che obblighi Israele a distrarre aerei dal suo territorio.
Gli ayatollah potrebbero anche muovere la flotta di barchini d’assalto e droni marittimi per paralizzare la navigazione nello Stretto di Hormuz: una mossa che farebbe decollare il prezzo del petrolio, ma potrebbe provocare un’azione statunitense ed europea a tutela del traffico mercantile.
(da La Repubblica)
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