Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
MA NEL PDL STUDIANO UNA LEGGE ELETTORALE PER IL DOPO-SILVIO…. I DUBBI SULLA LEGA E IL TIMORE SUL VOTO PER L’ARRESTO DI MILANESE… CASINI BOCCIA OGNI APERTURA FINCHE’ C’E’ BERLUSCONI
Nemmeno le mura di villa Campari riescono a tener lontano il clangore dell`assedio che lo circonda.
«Ci sono molti sciacalli in giro, anche tra i nostri, ma se vogliono cacciarmi devono venire allo scoperto. E trovare i voti per sfiduciarmi in aula».
Persino la lettura del Giornale, ieri mattina, gli ha procurato un dispiacere, visto che in prima pagina un Giuliano Ferrara senza peli sulla lingua gli suggeriva addirittura di presentare agli italiani` «scuse formali».
Un rimprovero presentato in maniera affettuosa, ma che tuttavia lo ha molto colpito, se è vero che il Cavaliere ha avvertito il bisogno di telefonare all`amico giornalista per chiarirgli che no, lui non sentiva davvero di aver commesso alcunchè di cui dover chiedere scusa.
Eppure, nonostante il segretario del Pdl si sia immolato sull`altare dell`ortodossia, blindando la leadership del premier a costo di gettare a mare le aperture di Pier Ferdinando Casini, la casa è in fiamme.
«Berlusconi non si dimette e noi lo difenderemo», ha annunciato il delfino designato, affossando ogni ipotesi di «larghe intese» aperte all`Udc.
E infatti il leader centrista ha fatto sapere: «Ma quali aperture, finchè c`è Berlusconi io nemmeno discuto».
Una presa di posizione dura, personalmente anche rischiosa (visto che proprio Alfano è stato il protagonista in queste settimane delle trattative sotterranee con Casini) e tuttavia necessaria per provare a stroncare le tentazioni di alcuni settori non marginali del partito.
Non è un mistero infatti che Gianni Alemanno stia ormai apertamente lavorando in una logica post-Berlusconi, fianco a fianco con un altro big del calibro di Roberto Formigoni.
Anche quelli che una volta si chiamavano “teocon” sono in fibrillazione, soprattutto per l`imbarazzo che la vicenda escort provoca in Vaticano.
«Soffro in silenzio», si è lasciato sfuggire Marcello Pera, uno che ha scritto un libro a quattro mani insieme a un certo Ratzinger.
Ma ormai anche la base è difficilmente controllabile.
Tanto che ieri, mentre Alfano difendeva a spada tratta il premier alla festa del Pdl di Cortina, nella sala attigua alcune amministratrici del partito si ammutinavano indossando delle T-shirt contro Nicole Minetti.
La marea è montante e se ne è accorto anche Bobo Maroni, che nelle conversazioni private di questi ultimi giorni ha indicato il voto sull`arresto di Marco Milanese come il passaggio più complicato della legislatura.
Ieri il titolare del Viminale ha cominciato ad uscire dal cespuglio, assestando un colpo micidiale all`alleanza del Nord.
«Noi – ha tuonato a Venezia riferendosi al sottobosco dei Tarantini- siamo diversi da questa gentaglia».
Un attacco che è stato immediatamente riportato a Berlusconi, amplificando i sospetti sul comportamenti dei deputati fedeli a Maroni (la maggioranza del gruppo) in caso di voto segreto giovedì sull`arresto dell`ex braccio destro di Tremonti.
Questa sera, per provare a blindare la Camera, il premier vedrà Bossi ad Arcore.
Ma non è prevista la partecipazione di Maroni.
Intanto, mentre Berlusconi si arrocca e si prepara a resistere all`assedio, i più avvertiti nel Pdl cercano una via d`uscita politica per salvare il salvabile.
Il pericolo numero uno per la maggioranza, dopo l`assalto dei pm, è l`appuntamento con il referendum elettorale.
Se la Corte costituzionale dovesse ammettere il referendum, per la (discussa) teoria della “reviviscenza” tornerebbe in vita la legge precedente, ovvero il maggioritario con i collegi uninominali.
E nel Pdl temono che gli elettori leghisti, quando si troveranno nel collegio un candidato berlusconiano, non daranno più il loro voto, garantendo così la vittoria alla sinistra.
Calcoli alla mano, gli esperti elettorali del Pdl hanno iniziato quindi a ragionare su sistemi proporzionali senza premio di maggioranza, come quelli in vigore in Germania e Spagna, per evitare il referendum e riagganciare Casini.
Sistemi più adatti a un partito che si sente ormai orfano di un leader carismatico.
Nei prossimi giorni, se il governo riuscirà a superare la prova Milanese, se ne parlerà a via dell`Umiltà in maniera approfondita.
Contando sul fatto che il Terzo Polo sarà un interlocutore attento.
Francesco Bei
(da “La Repubblica“)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
DALLE CARTE DELL’INCHIESTA “METALLICA” EMERGONO I RAPPORTI SOCIETARI DI IGNAZIO LA RUSSA CON SERGIO CONTI, CONDANNATO PER USURA CON L’AGGRAVANTE DEL METODO MAFIOSO… LA NOTIZIA E’ CONTENUTA NEL LIBRO “LE MANI SULLA CITTA'” CHE PARLA DELLE INFILTRAZIONI DELLA ‘NDRANGHETA IN LOMBARDIA
Qui di seguito un estratto del libro “Le mani sulla città ” edizione Chiarelletere
Una brutta storia di usura ed estorsioni che ha per protagonista Pepè Onorato, boss della ‘ndrangheta con un lungo curriculum criminale, e che sfiora Ignazio La Russa, allora deputato di Alleanza nazionale, e un suo fedelissimo, Massimo Corsaro, assessore alla Regione Lombardia e poi deputato Pdl.
La Russa e Corsaro sono soci, almeno fino al 2010, di un imprenditore imputato per estorsione e condannato in primo grado: insieme dividono le quote delle società che controllano due locali di Milano, il Gibson Bar e l’Enoteca Gibson, che si affacciano ai due angoli di via Ristori con via Castel Morrone.
L’imprenditore è Sergio Conti, ex titolare di garage, che nel 2010 è stato condannato in primo grado nel processo «Metallica» a 6 anni di carcere per estorsione, aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso.
Questa storia inizia nei primi anni 2000, quando «il Gibson Bar − come dice in aula il pm Celestina Gravina − diventa il bar di elezione dell’avvocato, ma già onorevole, Ignazio La Russa, che lo frequentava con il suo entourage».
Il Gibson «diventa un po’ il luogo di ritrovo di An e quindi ci sono feste e bella gente».
Il titolare del Gibson, Daniele Salton, è pieno di debiti ed è in mano agli usurai.
Dopo qualche tentativo di tornare ad avere il controllo della situazione, è costretto ad abbandonare.
Gli subentrano nuovi soci, tra cui Sergio Conti, che entra in confidenza con gli uomini di An che frequentano il locale, tra cui Massimo Corsaro.
Conti chiede a Corsaro di entrare addirittura in società . L’assessore ci sta e coinvolge nell’affare anche l’amico Ignazio La Russa.
Conti vanta un credito di circa 300.000 euro nei confronti del precedente proprietario e dei suoi due soci, Luigi Ciriello e Claudio Motterlini.
Tenta in tutti i modi di recuperare i soldi, ma non ci riesce.
Salton, Ciriello e Motterlini non pagano: sono «i tre che hanno truffato un bar», come li definisce il collaboratore di giustizia che racconta questa brutta storia, Luigi Cicalese.
Allora Conti si rivolge agli specialisti: il boss Pepè Onorato e i suoi uomini.
Per il recupero crediti entra in azione Emilio Capone, un salernitano che tiene molto all’eleganza, insieme ai luogotenenti di Onorato, Antonio Ausilio e Vincenzo Pangallo detto Jimmy.
L’accordo è che la cifra recuperata, come si fa in questi casi, venga divisa a metà : 50 per cento al creditore, Conti, 50 al gruppo di Onorato.
Daniele Salton, terrorizzato, si nasconde e spedisce la famiglia in una località segreta. Luigi Ciriello, avvicinato dalla banda di Pepè, decide che è meglio pagare e comincia a versare agli «esattori» di Onorato la sua quota (un terzo del debito totale): a rate, il 10 di ogni mese.
In verità , in questa storia, estorti ed estorsori fanno a gara a chi è più «zanza»: Ciriello infila in una rata anche una banconota da 500 euro falsa.
Ma non gli va dritta: gli uomini di Pepè se ne accorgono e lo obbligano a cambiarla con una vera.
Il terzo debitore, Claudio Motterlini, se la cava facendo un bel patto con gli «esattori»: si vende Salton, rivelando dov’è nascosto, in cambio dell’azzeramento della sua parte di debito.
Così, grazie alla spiata di Motterlini, nel 2008 Salton viene scovato.
Dopo qualche trattativa, Conti gli chiede un incontro, che avviene in piazza Napoli, a Milano, davanti al cinema Ducale.
Non proprio un appuntamento tra galantuomini: entrambi arrivano spalleggiati da «amici», Conti si presenta accompagnato dagli uomini dell’Ebony, il quartier generale di Pepè Onorato, che lo rendono molto più convincente.
La storia s’interrompe poco dopo, l’8 luglio 2008, quando gli uomini della Direzione investigativa antimafia guidati dal maggiore Armando Tadini arrestano Pepè Onorato e tutta la sua banda.
Segue il processo «Metallica», in cui anche Conti viene condannato.
La Russa e Corsaro però non si scompongono: restano in società con Conti, nella Gibson Vini e nella Gibson Immobiliare.
Gianni Barbacetto e Davide Milosa
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
BOSSI AGITA LO SPETTRO DELLA SEPARAZIONE DEL NORD ATTRAVERSO UN REFERENDUM… L’ENNESIMA PALLA LEGHISTA: IL CARROCCIO SAREBBE SONORAMENTO SCONFITTO ANCHE IN VENETO E IN LOMBARDIA, LO DICONO I DATI
Umberto Bossi, ieri, a Venezia ha concluso la manifestazione che, da 15 anni, celebra la secessione padana.
Il mito che mobilita e fornisce identità alla Lega e ai suoi militanti. L’ha fatto invocandola, puntualmente. La secessione. Unica via di uscita per una democrazia in pericolo.
Dove, anzi, “il fascismo è tornato con altri nomi e altre facce”.
Parole sorprendenti, in bocca al ministro delle Riforme istituzionali per il Federalismo.
Al leader di un partito che governa da 10 anni, salvo una breve pausa – meno di due anni.
La “Lega di governo”, ben insediata a Roma. Soggetto forte della maggioranza e alleato affidabile di Berlusconi, anche in tempi cupi come questi.
Bossi torna ad agitare lo spettro della secessione, per via democratica. Attraverso un referendum. Ma abbiamo motivo di dubitare che alle parole seguiranno fatti concreti. Che davvero la Lega possa e voglia perseguire la secessione – seppure per via democratica.
In primo luogo, perchè rischierebbe di trovarsi da sola, con poche persone al seguito. Come avvenne nel settembre del 1996, quando la marcia per l’indipendenza padana, promossa dalla Lega, andò largamente deserta.
Poche decine di migliaia di militanti. Un po’ pochi per marcare il “confine naturale” del Nord padano.
D’altronde, basta ragionare sui dati elettorali (come ha fatto ieri Francesco Jori su Il Piccolo e su altri quotidiani del Nord).
Nel 1996, quando la Lega raggiunse il risultato più ampio fino ad oggi, nelle regioni del Nord padano si fermò, comunque, al 23%.
Nel 2008 al 19%.
Alle Regionali del 2010 nel Lombardo-Veneto, dove è più forte e radicata, si è attestata al 30% (dei voti validi. Cioè, molto meno se si considera la popolazione intera).
In ogni caso: una “larga minoranza” dei cittadini del Nord – e pure del Lombardo-Veneto.
Tuttavia, ricondurre “tutti” gli elettori leghisti al verbo secessionista è improprio e, anzi, largamente sbagliato.
Basti pensare a quel che avvenne dopo il 1996, quando la Lega, da sola, proseguì nel progetto indipendentista.
Riducendosi a poco più del 3% alle Europee del 1999. Ciò che la indusse a rientrare a casa. Meglio: nella Casa delle Libertà . Accanto a Berlusconi.
D’altronde, ancora nel 2006, la Lega raggiungeva appena il 4% in Italia, ma restava di poco sotto al 10% nel Nord.
Il fatto è che il successo della Lega dipende da ragioni che poco hanno a che fare con la secessione.
Come dimostrano numerosi sondaggi condotti sull’argomento.
In un’indagine recente 3 (Atlante Politico di Demos, giugno 2011), la quota di elettori che si dice d’accordo con l’affermazione: “Il Nord e il Sud dovrebbero dividersi e andare ciascuno per conto suo” è del 12% in Italia, sale al 14% nel Nord Ovest e al 26% nelle regioni del Nord Est (esclusa l’Emilia Romagna, altrimenti il dato medio si abbasserebbe).
Fra gli elettori leghisti risulta elevata: intorno al 40%.
Cioè, di nuovo, una “larga minoranza”. Che resta, però, minoranza.
Per contro, l’85% degli elettori del Nord padano e oltre il 70% di quelli leghisti considerano l’Unità d’Italia una conquista “molto o abbastanza positiva” (Demos per Limes, marzo 2011).
Mentre oltre l’80% degli elettori del Nord (padano) e della Lega si sentono “orgogliosi di essere italiani”.
Infine, più di otto persone su dieci, tra gli italiani ma anche fra gli elettori del Nord, ritengono che fra 10 anni l’Italia sarà ancora unita.
E fra i leghisti questa convinzione appare solo un po’ meno diffusa: 77%.
Insomma, la “via democratica alla secessione” non porterebbe lontano la Lega.
Perchè non piace al Nord ma neppure alla maggioranza degli elettori leghisti, che si sentono molto più italiani che padani.
Allora perchè Bossi continua a richiamarla, come un mantra?
Anzitutto, per contrastare il malessere dei suoi elettori.
I più fedeli e, a maggior ragione, quelli “tattici”, molto numerosi nelle aree economicamente più dinamiche. I quali la votano per manifestare contro Roma e il Sud. Contro l’inefficienza dello Stato e la pressione fiscale, troppo alta.
Contro i privilegi della casta e del sistema politico. “Romano”.
La usano, cioè, come una sorta di sindacalista del Nord. Che oggi, però, rischia di risultare inefficace.
Altri dati di sondaggi recenti (Demos, settembre 2011 4) dicono, esplicitamente, che la manovra finanziaria del governo non piace nè al Nord (circa 70% di giudizi negativi e 23% positivi) nè ai leghisti (49% di giudizi negativi e 42% positivi).
Agli elettori leghisti, in particolare, non piace Berlusconi, grande alleato della Lega e di Bossi.
Solo un terzo di essi ne valuta l’operato con un voto “sufficiente”.
Insomma, la “Lega di governo” è in difficoltà di fronte al suo elettorato, fedele e “tattico”.
Cerca, per questo, di riproporre le parole d’ordine della “Lega di protesta”. E secessionista.
Anche se fa specie che sia il Ministro delle Riforme istituzionali a presentarsi come portabandiera dell’opposizione.
Ma il leader della Lega agita la minaccia secessionista anche per sopire le divisioni che attraversano i dirigenti del suo partito. Coinvolti, com’è stato osservato, assai più che dalla “secessione”, dal tema della “successione”.
Che vede in Roberto Maroni il candidato più accreditato. Ma anche il più osteggiato. Esempio più evidente e recente di queste tensioni: il servizio appena pubblicato da Panorama, dove si accusa la moglie di Bossi di “guidare” il partito insieme a un “cerchio” ristretto di uomini fedeli al Senatur.
Raccoglie voci note da tempo. Con la differenza – e la novità – che a rilanciarle è un periodico della galassia editoriale di Berlusconi.
Il che suggerisce quanto le tensioni siano, ormai, ineludibili. Indifferibili. Nella Lega e nel Centrodestra.
Da ciò, l’ultima spiegazione.
La Secessione, come la Padania, è un mito fondativo, una sorta di orizzonte proiettato lontano nel tempo.
Mentre la manovra finanziaria, che appare a 8 italiani su 10 inaccettabile, è reale. Attuale. Come il crollo di consensi che ha travolto il governo e, anzitutto, il Presidente del Consiglio.
La Lega e Bossi, in primo luogo, potrebbero staccare la spina. Se volessero fare Lega d’opposizione. Proporre altri candidati premier. Oppure nuove elezioni (com’è avvenuto in Spagna).
In questo caso, però, dovrebbero rinunciare alla posizione dominante che il Carroccio occupa nel governo e in molte amministrazioni.
Rischiare l’emarginazione, come dopo il 1996. Ma, soprattutto, se Berlusconi uscisse di scena, Bossi potrebbe seguirne la sorte. E senza Bossi nella Lega si aprirebbe una guerra di successione. Dall’esito incerto.
Anche per la Lega, di cui Bossi costituisce tuttora l’Icona Unificante.
Per cui sempre meglio minacciare e poi rinviare. La crisi di governo, le elezioni. Meglio, tanto meglio, invocare la Secessione. La Padania.
Ma più in là . Domani è un altro giorno. Si vedrà .
Ilvo Diamante
(da “La Repubblica“)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
AL RADUNO DI VENEZIA META’ DEI LEGHISTI ATTESI NON SI VEDONO… MARONI PER ORA NON DARA’ BATTAGLIA PER LA SUCCESSIONE, ASPETTA CHE CADA BERLUSCONI E SI TRASCINI DIETRO IL SENATUR… BOSSI E’ ORMAI UN LEADER STANCO, RIPETITIVO E SENZA ARGOMENTI
Roberto Maroni rinuncia alla battaglia per la successione. Almeno adesso. Cada il governo
Berlusconi, che si trascinerà dietro Umberto Bossi, poi avanzerà con naturalezza lui, il ministro dell’Interno che oggi a Venezia, come mesi fa a Pontida, è invocato dai militanti come presidente del Consiglio.
Il suo discorso dal palco è istituzionale, rivendica i risultati ottenuti dal suo ministero, e pacifico, negando qualsiasi contrasto con Calderoli.
La guerra interna è dunque vinta.
Ora c’è da aspettare un incidente parlamentare, un pretesto che possa far scivolare Berlusconi e il suo governo.
Sarà poi Bossi a lasciare la guida del partito.
Del resto il leader è stanco, ripetitivo, senza più argomenti.
Quando sale sul palco, davanti a una piazza molto più vuota degli ultimi anni, cerca un’idea nuova.
Si trova acclamato suo malgrado dallo slogan “secessione”, ripetuti dai militanti.
E lui butta li: “Serve una via democratica, magari quella del referendum“.
E poi ritrova vecchi slogan: “Alla fine ci sarà la lotta di liberazione per la libertà ‘”.
In tutto questo, Maroni si è letteralmente nascosto, per timore di essere acclamato. Ed è sparito quando dalla piazza, mentre Bossi parlava, si sentiva il grido “Maroni insieme, Maroni insieme”.
Lui s’è sfilato. E non s’è neanche fatto vedere alla cerimonia delle ampolle.
Prima degli interventi dei leader del Carroccio, però, la giornata leghista era iniziata all’insegna di un grande spiegamento di forze dell’ordine, specie alla luce degli incidenti di ieri.
Da piazza San Marco a Riva degli Schiavoni ci sono cinque ponti da attraversare.
Settecento metri attraversati da un fiume verde e presieduti da centinaia tra poliziotti, carabinieri, uomini delle Fiamme gialle. Venezia stamani si è svegliata assediata. Non c’è angolo, ponte, via d’acqua che non abbia almeno sei agenti e un gommone pronti a intervenire
C’è Marco Reguzzoni, che si protegge dal sole sotto un gazebo, e Roberto Cota. Il presidente della Regione Piemonte apre gli interventi dal palco. Pochi minuti: “Siamo stufi di andare a Roma con il cappello in mano” e “viva Bossi“. Poi il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha salutato “i dodici agenti feriti negli scontri di ieri, che erano qui a fare il loro dovere” ha detto, conquistando un applauso tiepido.
Sotto il palco, tra i militanti, Mario Borghezio in camicia verde d’ordinanza, stringe mani e saluta, accolto come un amico.
Ma il partito lo ha sostanzialmente epurato: è senza tessera e la Padania, il quotidiano sempre pronto ad ospitare il Borghezio pensiero e farne bandiera, gli ha messo il silenziatore.
E non è più l’oratore che apre i comizi per scaldare la piazza.
E qui a Venezia si vede.
Ci prova Rosy Mauro. “Se non fosse stato per la Lega saremo già Africa”, dice. “Senza di noi la finanziaria avrebbe colpito tutti”.
Ci riesce Calderoli a svegliare gli animi. Ma per una lotta interna al partito. Quando il ministro per la semplificazione si scaglia contro i “tanti criticoni” della Lega, i sindaci (da Fontana a Tosi), a cui ricorda: “senza Bossi noi non esisteremmo”. “Polvere siete e polvere tornerete”, dice.
“Quando la gente va a votare mette la croce sullo spadone di don Giussano, mica sullo spadino di quattro pirla”.
Ma quando sul palco è stato annunciato Roberto Maroni è partita un’ovazione. Con coro “presidente, presidente” rivolto al ministro degli Interni. Adotta un profilo basso, governativo.
Niente camicia verde, giacca blu e cravatta. “Vorrei ricordare i risultati alla lotta alla mafia e all’immigrazione”, dice (le solite palle n.d.r)
Nulla rispetto agli slogan gridati di Mauro e Calderoli, eppure incassa applausi e cori.
Gli basta un “sinistra cialtrona” per far scatenare la piazza.
Ed ecco il politico padano. Azzera i contrasti con Calderoli: “Voglio ringraziare Calderoli, quelle dei giornali sono tutte balle, noi lavoriamo”.
Calderoli lo abbraccia, anche se due minuti prima si era scagliato proprio contro i “coltelli padani”.
La guerra alla successione da qui, come da Pontida tre mesi fa, ha evidentemente un vincitore ormai condiviso da tutti: Roberto Maroni.
“Non ne possiamo più di case fantasma comprate da chissà chi a sua insaputa, non ne possiamo più di leggere le intercettazioni: non siamo andati a Roma per questo” ha detto il ministro degli Interni, con i militanti che rispondono con slogan: “secessione, secessione” e, di nuovo, “presidente, presidente”.
Per quanto riguarda la durata del governo, Maroni non ha dubbi: “Andrà avanti, anche se è difficile, e comunque finchè lo dirà Bossi“.
Il senatùr sale sul palco alle 12.40 e, come sempre, scatena la “pancia” dei militanti. E rilancia la secessione, “anche con il referendum magari”, perchè, dice, bisogna trovare la via.
“Come si fa a stare in un paese che sta perdendo la democrazia, il fascismo è ritornato, con altri nomi e altre facce — ha detto il leader del Carroccio — se l’Italia va giu la Padania viene su. Bisogna solo trovare la via, io sono per la via democratica. E’ evidente che la gente ne ha piene le scatole, non puo più mandare a Roma un sacco di soldi. Non ne abbiamo più neanche per noi. Bisogna trovare la via d’uscita”.
E se la prende con i giornalisti, in particolare con l’articolo che Panorama ha dedicato alla moglie Manuela Marrone. “Iago della carta stampata, attaccano la mia famiglia”.
I giornali, la carta stampata: “fanno tutti gli amici, ma sono tutti contro la lega. La gente perde la pazienza“.
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
IL RUOLO DI ELVIRA SAVINO E LICIA RONZULLI NEL GIRO DI ESCORT DEL PREMIER.. LA PRIMA PRESENTA CAROLINA MARCONI LA SECONDA SMISTAVA LE GIOVANI A VILLA CERTOSA
I “cacciatori” di ragazze giovani, belle, magre e non molto alte non erano soltanto Gianpi Tarantini o Gianpi Traversi, l’uomo che Berlusconi scambia per Tarantini al telefono e che secondo Lele Mora portò per la prima volta Ruby ad una festa ad Arcore.
Ma anche due insospettabili deputate del Pdl, Elvira Savino e Licia Ronzulli, la prima che siede nel Parlamento italiano l’altra in quello europeo.
Non sono indagate, ma una decina di conversazioni intercettate dalla Guardia di finanza e depositate agli atti dell’inchiesta barese, non lasciano dubbi sul ruolo delle due belle politiche nel reclutamento, o comunque nell’organizzazione, delle ragazze nelle feste organizzate dal Cavaliere.
La Savino, per esempio, è la “responsabile” dell’incontro tra Tarantini e Berlusconi che avviene proprio al suo matrimonio.
Il Cavaliere era il testimone delle nozze.
E’ in quell’occasione che il premier perde la testa per Carolina Marconi (protagonista di un’edizione del Grande fratello), una sorta di battesimo per Tarantini che per la prima volta si dà da fare per portare una ragazza nel grande harem di Silvio Berlusconi.
«Si trattava – ricostruisce la Finanza – del primo “test” con il Presidente Berluscon per dimostrare la propria affidabilità , atteso che in occasione del ricevimento di nozze della Elvira Savino con un imprenditore napoletano che si celebrarono a San Lorenzo in Lucina a Roma, si era impegnato a organizzare un’occasione di incontro tra la soubrette e il presidente».
Cosa è accaduto al matrimonio della Savino lo racconta lo stesso Tarantini a telefono con Elvira.
«Quello (ndr, Berlusconi) a un certo punto è impazzito per Carolina Marconi e ha detto “Fammi avere il numero”».
Tarantini esegue: «Sono andato da lei e quella subito ha preso il telefono, se ne è andata in bagno, me lo ha memorizzato, è ritornata e mi ha dato il telefono».
La Marconi usa però una precauzione: «Non dire niente a nessuno assolutamente, fammi chiamare dal lunedì al venerdì il pomeriggio».
E l’imprenditore barese torna dal Cavaliere: «Presidente, ha detto volentieri, quando vuole organizziamo una cena. Ma non le posso dare il numero perchè sta sempre con il fidanzato. Le do il mio numero e chiami me quando vuole».
Nel racconto di Tarantini, Berlusconi ha risposto: «Va bene, scrivilo su un pezzettino di carta e dallo alla guardia, quello dietro di me».
E’ il 13 settembre. Il 18 sul telefonino di Gianpi arriva un sms del Cavaliere con il nuovo numero di telefono del premier.
Il 19 organizzano la prima cena. E il trofeo da esporre è proprio la Marconi che viene contattata proprio grazie alla Savino.
E’ a lei che Gianpi chiede il numero di telefono.
Ed è lei a fare pressioni su Carolina perchè accetti.
Dice Gianpi all’ex Grande fratello: «Senti, tu martedì sera riusciresti a venire a Roma? Martedì ci vediamo alle sette, sette e mezzo al De Russie, così parliamo e poi andiamo lì».
Concluso l’accordo con Carolina, Tarantini avverte subito la Savino che gli domanda via sms: «Tutto ok. Ci hai parlato vero?» e l’imprenditore barese risponde: «Sì, ho parlato con lei e mi ha detto di sì…e mi vedo domani pomeriggio al De Russie alle sette parlo di persona con le e poi andiamo là ». A questo punto la Savino, curiosa (sottolineano gli investigatori), chiedeva “ma con lui (Silvio Berlusconi ndr) è già fissato?…. dico con lui hai già fissato?””, ricevendo questa risposta: «Sì, con lui ho già fissato!…”».
Ora, la Savino non ha un ruolo qualsiasi nella vicenda.
Annotano i magistrati, che il deputato è molto amica dell’ “Ape Regina”, Sabina Began con la quale per qualche tempo ha condiviso un appartamento a Roma per poi litigare, dicono i maligni, proprio su questioni di gelosia per il Cavaliere.
La Savino, inoltre, non è nuova a guai giudiziari a Bari: è imputata con l’accusa di aver aiutato un imprenditore che riciclava denaro per conto di un clan mafioso.
Non è l’unica a prodigarsi per le serate del Cavaliere.
A lavorare perchè i festini del presidente Berlusconi andassero al meglio c’era anche la collega Licia Ronzulli, oggi eurodeputata del Pdl.
Come racconta in un interrogatorio Barbara Montereale, la Ronzulli si dava da fare ed a Villa Certosa aveva il compito di “smistare” le giovani ospiti del presidente nei bungalow di Villa Certosa in Sardegna.
Era lei a organizzare gli spostamenti aerei. Il cinque gennaio del 2009, per esempio, Tarantini sta organizzando una spedizione in Sardegna nella villa del Cavaliere.
«Siamo io, Linda (Santaguida), Belen, la sorella, l’amica di Belen, Chiara quella ragazza di Modena che dice che lei conosce e una mia amica di Milano (…) vuole che mi metto d’accordo con Marinella?».
Berlusconi risponde: «No, dovresti accordarti con la dottoressa Ronzulli». Tarantini sa di chi si parla: «Chi, Licia?». «Si, Lucia – risponde il Cavaliere – è qui a farmi da segretaria».
La Ronzulli era anche “deputata” a procurare, su incarico di Berlusconi, i biglietti dello stadio per i derby Milan-Inter dove nell’intervallo Berlusconi e Tarantini s’incontravano per “programmare” le serate ad Arcore.
Oppure sempre la Ronzulli si occupava di organizzare i tavoli per la festa del Milan. «Te ne ho preparato uno per 10 persone – diceva orgogliosa a Tarantini – proprio vicino a quello del presidente Berlusconi».
Qualche mese dopo è volata a Bruxelles.
Giuliano Foschini e Francesco Viviano
(da “La Repubblica”)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
CHI SONO LE RAGAZZE ITALIANE? LE GIOVANI CHE STUDIANO, LAVORANO, PROGETTANO E COSTRUISCONO COSI’ IL FUTURO DEL NOSTRO PAESE?…. ESISTONO ANCORA RIFERIMENTI VALORIALI NELLA SOCIETA’ ITALIANA
Le tv, i giornali, i dibattiti di questi giorni sembrano proporci un’immagine unica. 
Ragazze carine, anzi spesso molto belle, che si somigliano tra loro e che usano il corpo con consapevolezza estrema: scambiano quello che hanno – e che possono offrire sul mercato libero delle risorse – per raggiungere un avanzamento economico e sociale.
Ha fatto molto discutere l’ultimo saggio di Catherine Hakim, sociologa della London School of Economics, intitolato Il potere del capitale erotico .
L’autrice sostiene che sarebbe assurdo negare alle giovani donne il diritto, quasi il dovere strategico, di sfruttare al massimo il proprio capitale estetico.
Soprattutto se le giovani donne in questione sono sprovviste di altri mezzi: finanziari, intellettuali, di status sociale.
Recensendo il libro, lo scrittore Will Self ha citato una battuta tratta dalla serie tv ormai globale «The Simpsons».
Lisa dice alla sua insegnante: «Essere belle non è importante»; la signorina Hoover risponde: «Stupidaggini, questo è quello che i genitori brutti dicono alle proprie figlie».
Le ragazze delle intercettazioni sembrano aver imparato bene la lezione: il «capitale erotico» deve fruttare il massimo in quei pochi anni di pienezza che la natura – ora esasperata dalla chirurgia – concede loro.
Sinora si è (quasi) sempre discusso solo di questo: se cioè le ragazze di Berlusconi, dall’Olgettina a Bari, siano figlie del femminismo o piuttosto una distorsione inquietante dell’emancipazione.
Ma a questo punto la domanda più importante è davvero un’altra e chiede di superare quell’immagine unica, e ancora più quel pensiero unico, in cui continuamente ci imbattiamo.
Queste giovani donne, che ossessivamente scrutiamo e commentiamo, rappresentano la maggioranza delle ragazze italiane?
O comunque, pur in minoranza, costituiscono un’avanguardia dietro la quale «le altre» vorrebbero mettersi in coda?
La «sexeconomics» all’italiana è davvero un’espressione di modernità ?
La risposta è no.
La modernità di tante giovani italiane sta altrove.
Sta nelle università dove le studentesse ottengono risultati sempre migliori; sta nei curricula che vengono presentati per un’assunzione dove si sommano esperienze all’estero, volontariato, aggiornamento costante delle proprie abilità ; sta nella creatività delle mamme blogger che sanno costruire dal basso nuove comunità , solidali, capaci di compensare in parte i vuoti del welfare; sta nell’ottimismo delle mamme single, che siano di ritorno o di andata; sta nell’energia delle ventenni pronte a partire per una città straniera forti solo di sè; sta in chi si impegna per i diritti delle persone, nelle associazioni, che sono un modo nuovo di fare politica; sta nelle giovani immigrate, le più aperte all’integrazione.
Sta nelle storie «normali» di tantissime donne che ogni giorno provano a «tenere insieme» professione, famiglia, se stesse.
L’avanzamento personale e la mobilità sociale vengono cercate, certo, ma in un altro modo. In un Paese che ha una delle medie più basse di lavoro femminile retribuito (un risicato 48% rispetto a una media Ocse del 59) e dove nello stesso tempo il numero di bambini per donna è uno dei più bassi d’Europa (il 24% delle donne italiane nate a metà degli anni Sessanta non ha fatto figli rispetto al 10% delle francesi).
È di questo che vogliamo parlare e scrivere.
Di questo gap di modernità che l’Italia non ha risolto e non risolve ancora, nonostante gli appelli della Banca d’Italia a non sprecare il 50% dei propri talenti – perchè le donne rappresentano più della metà della nostra popolazione.
Questo non perchè le donne siano migliori, ma perchè le società dove le donne e gli uomini lavorano accanto – in uno scambio davvero liberato da «un pensiero unico» sulla femminilità – funzionano meglio e garantiscono un futuro a chi verrà .
E c’è un’ultima cosa: nelle centomila intercettazioni le ragazze parlano e parlano e non è difficile cogliere un filo di malinconia, di abbruttimento, di disagio nell’inseguire il premio contrattato.
Le vite delle nostre ragazze «normali» sono assai più avventurose.
Barbara Stefanelli
(da “Il Corriere della Sera”)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
L’EX PM BOCCIA IL NOME ESPRESSO DAL CIRCOLO DI TERMOLI E PIAZZA “UNO DI FAMIGLIA”… DIETRO L’ACCUSA DI NEPOTISMO EMERGE UN REGOLAMENTO DI CONTO SULLA SCELTA DEI CANDIDATI
Antonio Di Pietro impone la candidatura del figlio Cristiano nella lista Idv alle elezioni regionali del Molise (16 e 17 ottobre) e scoppia la polemica.
A mettersi di traverso il circolo dipietrista di Termoli, che appena appreso dell’investitura del rampollo dell’ex pm (avvenuta durante la presentazione alla festa di Vasto) grida allo scandalo ed esce dal partito.
Il motivo? Non solo l’insofferenza per la scelta “caduta dall’alto” a scapito del territorio, ma anche le modalità con cui essa è arrivata.
Secondo i dissenzienti, infatti, per favorire l’elezione di Cristiano Di Pietro sarebbe stata studiata una lista con candidati definiti “deboli”.
Una mossa che, per il circolo Idv di Termoli, ricalca quanto fatto in passato da Bossi con il figlio Renzo.
Parole dure come pietre: “La scelta del leader Idv — è scritto nella nota – appare figlia della stessa concezione familistica e privatistica che presumibilmente ha mosso il capo della Lega Nord, Umberto Bossi a candidare e a far eleggere il figlio al Consiglio Regionale della Lombardia o il presidente del Pdl Silvio Berlusconi a candidare e a far eleggere Nicole Minetti allo stesso Consiglio Regionale Lombardo”.
In virtù di questa concezione, il circolo ha deciso di ”interrompere la propria esperienza politica con l’Italia dei valori”, pur confermando la loro appartenenza al centrosinistra e auspicando “che le prossime elezioni regionali possano essere occasione di un reale cambiamento della politica nel Molise”.
Antonio Di Pietro, da par sua, risponde alle accuse da La Voce del Molise: “Cristiano ha fatto e deve fare tutte le trafile, al pari degli altri — aveva detto l’ex magistrato di Mani pulite -. Non potrà mai ottenere, almeno fino a quando sarò vivo io, un posto in nome o per conto del partito, con listini e quant’altro”. La possibilità che suo figlio fosse inserito in lista, tra l’altro, negli ambienti dell’Idv molisano girava già da tempo, tanto che Antonio Di Pietro, nella stessa intervista, ribadisce la propria concezione sulla candidabilità del rampollo.
“Quando Cristiano ha chiesto di fare politica — ha spiegato il leader Idv — gli ho detto che doveva cominciare dal basso: consigliere comunale, e lo ha fatto per cinque anni chiedendo il voto sulla sua persona, poi consigliere provinciale, e lo ha fatto per cinque anni chiedendo il voto sulla sua persona, oggi per fare il consigliere regionale dovrà chiedere la fiducia sulla sua persona e sulle sue capacità . Se i cittadini gli danno il consenso vuol dire che se lo è meritato, perchè il figlio del politico non deve essere avvantaggiato, ma certamente ha diritto anch’esso a misurare il proprio consenso direttamente chiedendolo ai cittadini”.
A Termoli, però, non la pensano allo stesso modo: per loro si tratta di nepotismo.
Punto e basta.
Non si è fatta attendere, ovviamente, la reazione di Pierpaolo Nagni, segretario regionale dell’Idv molisano, che spiega come la clamorosa decisione del circolo di Termoli sia dovuta al fatto che i vertici del partito “non hanno accettato il ricatto” dei neo fuoriusciti.
“Volevano imporre il nome di un candidato che, pur sollecitato in altre circostanze elettorali a correre con Idv — ha detto Nagni — ha sempre scelto di non voler fare nessun percorso con l’Italia dei Valori per poter conservare la sua autonomia”.
Per quanto riguarda la polemica sulla composizione di una lista debole per favorire l’elezione di Cristiano Di Pietro, invece, Nagni rispedisce le accuse al mittente.
“Ci spiace — ha detto il segretario molisano — che i componenti del circolo di Termoli non abbiano letto bene i nomi che compongono la lista elettorale e si siano fermati solo a quello di Cristiano Di Pietro: infatti, a rappresentare il loro territorio per il partito c’è Antonio D’Ambrosio e non Cristiano Di Pietro. Ci rammarica, quindi, questa presa di posizione: loro sanno bene che il vero motivo dell’attacco è un altro. Attaccarsi al nome di Cristiano Di Pietro, che, tra l’altro fa politica da tanto tempo, è solo un triste tentativo di spostare l’attenzione”.
Il punto di rottura, a quanto si legge sui giornali locali, sarebbe il mancato accordo sulla candidatura dell’ex sindaco di Termoli Vincenzo Greco, di professione notaio.
Per il circolo termolese dell’Idv, sarebbe stato il personaggio giusto per raccogliere consensi anche nei centri limitrofi; Greco era disponibile e in alcune occasioni anche Antonio Di Pietro lo aveva sponsorizzato, indicandolo come “l’uomo giusto per rompere e rinnovare il sistema”.
Sul più bello, però, il colpo di scena, con l’ex Guardasigilli che, ignorando la volontà dei rappresentati del territorio (espressa anche con delibere ufficiali del circolo), ha preferito puntare sul figlio.
“Siamo stati ignorati, completamente — fanno sapere i dissenzienti — . E Termoli ha subito un danno duplice, relegata all’emarginazione per fare spazio al figlio”. Non solo.
Al posto dell’ex sindaco, Di Pietro senior ha inserito in lista Antonio D’Ambrosio, ex esponente di spicco del Pd, che in passato — a sentire il circolo Idv di Termoli — si era adoperato non poco per far finire anzitempo l’esperienza amministrativa di Vincenzo Greco.
Insomma, uno smacco politico a 360 gradi.
Per regolare i conti interni, si agita lo spettro del nepotismo in salsa pidiellina, ma tra i due litiganti chi gode è il centrodestra.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
LA SENTENZA DEL TAR DELL’EMILIA ROMAGNA: 250 AGENTI DEL CARCERE DI PARMA CREDITORI DI SOMME TRA I 2.000 E I 5.000 EURO MAI CORRISPOSTE DALLO STATO…UNA DECISIONE DESTINATA AD APRIRE ALTRE CAUSE IN TUTTA ITALIA
Il ministero della giustizia dovrà tirare fuori un bel po’ di soldi, nonostante i tempi di crisi, per
risarcire 250 agenti di polizia penitenziaria che operano a Parma.
Ai lavoratori, infatti, dovranno essere pagati tutti gli straordinari svolti e non retribuiti dal 2004 al 2009, anno in cui l’avvocato Giovanni Carnevali depositò il primo ricorso al Tar: si calcola una somma che va dai 2mila ai 5mila euro ciascuno.
La decisione è stata presa dal Tar, che proprio due giorni fa ha pubblicato la sentenza, accertando il diritto dei poliziotti a vedersi retribuiti gli straordinari e condannando il ministero a corrispondere loro quanto dovuto entro 60 giorni.
Una sentenza destinata a diventare la prima di una lunga serie: la situazione delle carceri italiane è grave, in continua carenza di organico e agli agenti di polizia penitenziaria vengono richiesti straordinari facendo saltare spesso i turni di riposo.
Non c’è da stupirsi, dunque, se richieste di risarcimento ora stiano arrivando da tutta Italia.
Una tegola che cade in testa al Ministero proprio mentre si discute di tagli e manovra per contenere la spesa pubblica: gli agenti di polizia penitenziaria in Italia sono circa 60mila.
Se davvero ognuno di loro chiedesse circa 2mila euro di straordinari non pagati, il ministero della giustizia dovrebbe ingegnarsi per trovare le risorse.
Il tutto è iniziato nel 2009, quando alcune sigle sindacali (Sappe, Sinappe, Uil, Fns Cisl, Cnpp) si rivolsero all’avvocato Carnevali di Parma denunciando la situazione che da anni si continuava a verificare all’interno del carcere di via Burla: agli agenti veniva chiesto di lavorare anche per due settimane di fila senza riposo, saltavano i turni, gli straordinari erano diventati ormai ordinari.
Senza che a questi servizi però corrispondesse un maggior stipendio: al massimo si concedevano dei riposi compensativi.
“Inizialmente abbiamo cercato di aprire un dialogo con il dipartimento di polizia penitenziaria — spiega Carnevali -, ma non abbiamo mai ottenuto risposte. Così abbiamo depositato il primo ricorso al Tar nell’ottobre 2009, riguardante 120 agenti di Parma. A questo ne sono seguiti altri 3, ancora pendenti, ma dello stesso tipo, per un totale di 250 poliziotti. Al Tar abbiamo chiesto di accertare il diritto dei lavoratori di vedersi retribuiti gli straordinari e di condannare il Ministero al pagamento e al conteggio del compenso dovuto”.
Il Tar ha accolto il ricorso e il 14 settembre ha pubblicato la sentenza.
Probabilmente il Ministero ricorrerà al Consiglio di Stato, non tanto per mettere in discussione la sentenza, che non lascia spazio a incertezze, ma per guadagnare tempo: solo a Parma si parlerebbe di risarcire circa 500mila euro.
E non è certo uno dei periodi più floridi per lo Stato italiano.
Quello che è certo però che da oggi anche la polizia penitenziaria potrà vedersi pagata gli straordinari (ai quali, per legge, non possono sottrarsi), per un lavoro che spesso rimane nell’ombra, rinchiuso dietro le sbarre delle carceri, ma ugualmente importante e pericoloso a quello delle altre forze dell’ordine italiane.
“E’ un risultato importante — commenta Carnevali -, per cui ringrazio i miei collaboratori Michele De Nittis e Simone Dall’Aglio. Ora continueremo a portare avanti le cause degli altri agenti parmigiani, sicuri del risultato. Ma ci stanno già arrivando telefonate da tutta l’Emilia Romagna”.
Domanda: è possibile che uno Stato si debba ridurre a questo, ovvero a non pagare il dovuto a un proprio lavoratore, causa che in qualsiasi tribunale del lavoro avrebbe portato a severe conseguenze nei confronti del datore di lavoro?
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Settembre 19th, 2011 Riccardo Fucile
LA CONFESSIONE DEL “LATO NERO” E LA DOPPIA PERSONALITà€ DI BERLUSCONI… COME IN “INDAGINE SU UN CITTADINO AL DI SOPRA DI OGNI SOSPETTO”; LASCIA APPOSTA TRACCE DI COLPEVOLEZZA … AL TELEFONO RIVELA CIO’ CHE NON RIESCE A REPRIMERE DI SE’
A tempo perso faccio anche il premier”.
È come se Dottor Jeckyll e Mr Hyde, balzati fuori sotto una luce teatrale, dalle folgoranti pagine del romanzo breve di Louis Stevenson, si fossero infilati il doppiopetto Caraceni per darsi appuntamento davanti ad Arcore, con Gianpi Tarantini.
Ed è come per certi serial killer che fanno di tutto per proseguire il proprio percorso nell’impunità , ma anche — schizofrenicamente — per farsi arrestare dagli investigatori che li inseguono.
Immaginate che Il collezionista di ossa, con la sua voce da maniaco quando minaccia Denzel Washington, si sia trasformato — per effetto di una di quelle inconfondibili parodie di Franco e Ciccio — ne Il collezionista di tope.
È esattamente così che, per un paradosso grottesco e surreale, sembra che Silvio Berlusconi si diverta a disseminare la sua vita presunta (Dottor Jeckyll) e quella reale (Mr Hyde) di indizi che dovrebbero provare la sua stessa inadeguatezza al ruolo che ricopre.
È come se il satiro vedesse di cattivo occhio il leader della nazione e ci tenesse a farlo sapere, esattamente come il turpe Hyde voleva sfigurare la bontà di Jeckyll.
Mentre sapeva di essere intercettato (e lo sapeva così bene da confidarsi al telefono con il prode Lavitola) il Cavaliere quasi gridava nella cornetta: “Me ne vado da questo paese di merda!”.
E adesso scopriamo che mentre si confidava compiaciuto con le sue papi girl, non ometteva di sottolineare che la sua vita preferita era quella delle “cene eleganti” e non certo quella di Palazzo Chigi.
E allora, anche spiando nell’occhio della serratura dell’immaginario squadernato dalle intercettazioni, dalle testimonianze e dalle inchieste, vale la pena di provare a indagarla questa vita parallela vissuta come quella di un Mr Hyde arcoriano, provando a prendere per buona l’affermazione del Cavaliere.
E cioè immaginando che sia quella del Berlusconi ridanciano, l’unica vita possibile, o anche l’unica vera.
E che invece l’altra, quella dello statista, fosse la finzione a cui tutti hanno creduto tranne l’interprete.
Pensate a mamma Rosa, nella celebre (unica) intervista a Tg7: “Il Silvio è così serio che non te lo puoi immaginare in una festa, o con delle ragazze”.
Forse Berlusconi ha recitato la parte del figlio modello per lei, finchè è stata in vita?
Certo, nell’apologo fantastico di Stevenson era la fine dell’effetto della pozione a innescare la crisi. Nella drammatica realtà che viviamo è la crisi che ha vaporizzato l’effetto del filtro magico con cui Berlusconi ha preso per incantamento il paese per diciassette lunghi anni.
Risentire oggi “Avete sentito bene, aboliremo l’Ici” in un paese sull’orlo della bancarotta provoca il sorriso, e subito dopo un moto di rabbia.
Risentire e rivedere oggi, calzate sesquipedali come “In due anni aboliremo il cancro” rende bene la misura della farsa, la dimensione del commediante che “a tempo perso” si fingeva statista.
È lo stesso Berlusconi, come suggerisce uno che lo conosce bene, Carlo Taormina, a spargere altri indizi sulla via di una incerta strategia difensiva. Quella che consiste nel sostenere l’indifendibile, esattamente con Gian Maria Volontè, nel memorabile Indagine su di un cittadino al di sopra di ogni sospetto lasciava volontariamente, da omicida, un filo della propria cravatta come indizio sulla scena del delitto su cui lui stesso si sarebbe trovato a indagare.
Quel filo di cravatta era una geniale metafora: l’anti-Stato che sfida lo Stato sul suo terreno, l’impunità che vuole farsi legge nello spazio metafisico dell’indifendibile.
Il filo di cravatta che Berlusconi-Hyde ha lasciato sul cadavere del dottor Jeckyll di Palazzo Chigi, apposta per alzare il livello della sfida o farsi scoprire è la telefonata in questura per Ruby Rubacuori.
Il punto di non ritorno del delirio è l’atto di fede imposto alla sua stessa maggioranza, l’obnubilazione dei suoi stessi deputati, costretti, per la conseguenza dello stesso capriccio, a votare un documento solenne in Parlamento, per dirsi convinti che Ruby fosse la nipote di Mubarak.
Sì, è vero: in tutte queste afflizioni, opere di bene, e sforzi per tenere in piedi l’unico welfare che gli sia stato a cuore, quello delle escort dell’Olgettina, in questo fulgore di opere pie in cui la finalità benefica era mantenere il grande corruttore, Gianpi Tarantini, Berlusconi è stato premier “a tempo perso”.
Solo che il tempo perso non era il suo, ma il nostro.
Luca Telese blog
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