Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
CRITICHE ALLA GESTIONE DELL’ORDINE PUBBLICO, PROTESTE CONTRO I TAGLI ALLA SICUREZZA….SUL FORUM POLIZIOTTI.IT SI SCATENA LA RABBIA: “NON INTERVENIAMO PERCHE’ NON ABBIAMO PIU’ VOGLIA DI ESSERE INDAGATI, CONDANNATI E COSTRETTI MAGARI A RISARCIRE”…”NOI CAPRI ESPIATORI DI UNA POLITICA VIGLIACCA”
Ce l’hanno con chi, ieri, ha avuto la responsabilità di gestire l’ordine pubblico e i movimenti delle forze dell’ordine.
Ma anche con il governo che, con i suoi tagli alla sicurezza, da tempo, non li mette più in condizioni di operare in sicurezza.
Il giorno dopo la guerriglia che ha sconvolto Roma, i più indignati sembrano essere gli agenti di pubblica sicurezza che si sfogano sul forum di Poliziotti. it.
La rabbia è palpabile.
Non si sentono più tutelati dallo Stato e, soprattutto, non capiscono perchè ieri sia stata concessa la possibilità alle frange più violente di manifestanti di scagliarsi contro gli uomini in divisa.
L’interrogativo viene sollevato da Mauro C.: “Una domanda mi sorge spontanea: perchè polizia e carabinieri non hanno caricato i black bloc e se ne sono stati lì fermi? I manifestanti pacifici hanno chiesto a gran voce il loro intervento per disperdere le componenti violente che erano nel corteo”.
Gli risponde polemico un agente, che si firma Woobinda69: “La domanda la dovresti porre ai nostri superiori che coordinano e dirigono il servizio. Ai validi servizi informativi. Qui mi fermo”.
“Grazie a chi ha permesso a 400/500 teppisti di mettere a ferro e fuoco una città “, commenta Gpg3.
Ma per alcuni, la spiegazione di un atteggiamento piuttosto “morbido” da parte degli agenti va ricercata nei drammatici fatti del G8 di Genova, nel 2001: “Dopo Genova – scriva l’utente dago113 – nessuno ha voglia di passare per lo sbirro cattivo, meglio fare la parte del fancacazzista. Si campa più a lungo”.
Una linea condivisa da uno dei moderatori, leone17: “Nessuno vuole più intervenire senza garanzie, e non parlo di garanzie di impunità , semplici garanzie per operare al meglio. Poi, per quanto mi riguarda, questi esseri sarebbero dovuti finire ad ingrassare le ruote dei blindati, perchè quando si vuole la guerra quello si merita, e non mi si vengano a fare i soliti discorsi del piffero. Perchè non interveniamo? Perchè non abbiamo più voglia di essere indagati, condannati, messi alla gogna e fare un mutuo pure per ripagare questi rifiuti della società “.
Per “soldato. blu” la priorità per gli agenti deve essere quella di non commettere errori: “Dopo Genova c’è gente che si è ipotecata casa per pagare i danni ed io, il mio esiguo stipendio, me lo voglio mangiare e non certo regalare a qualche avvocato o a qualche babbione con la cresta da gallo in testa. Sindrome di Genova si chiama? Sì, e sindrome sia. Fin quando questi politici continueranno ad ingozzarsi senza pensare ad altri modalità di gestione dell’ordine pubblico, io continuerò a guardarmi le chiappe: sfasciano? Si riaggiusterà . Bruciano? idem. Distruggono statue sacre in puro stile talebano? Ci penserà la chiesa a scomunicarli”.
Sul banco degli imputati finiscono anche i rappresentanti di un governo che taglia alle forze di polizia e che, in queste ore, hanno pure espresso la loro solidarietà agli agenti.
“Tutti i politici ad esprimere solidarietà alle forze dell’ordine, a parole – attacca Hutchinson – perchè i fatti dicono che questo governicchio taglia altri 80 milioni dalle tasche di poliziotti e carabinieri. Credo che sia giunto il momento che queste facce di bronzo (l’eufemismo è palese), si difendano da soli dai black bloc oggi, e dai comuni cittadini un domani”.
“Seppure perfettamente consapevoli di essere abbandonati a noi stessi senza risorse, ed ad essere presi a calci in bocca ingiustamente per delle loro macchinazioni politico giornalistiche, ancora una volta abbiamo dimostrato di avere un senso dell’onore incommensurabile”, commenta Kronos.
Harryb è tra quanti non si sentono più tutelati nello svolgere il proprio lavoro quotidiano: “Basta, siamo stufi di fare da capri espiatori per una politica vigliacca, basta rischiare in prima persona quando il sistema giustizia fa acqua da tutte le parti, quando il Paese vuole questo. Con la solidarietà (falsa come una banconota da tremila lire) dei politici non si paga l’avvocato. L’Italia di oggi non merita il nostro impegno, il nostro sacrificio”.
Sfogo che viene subito raccolto da un altro agente: “E’ ora di starsene a casa e far vedere a tutti quanto siamo indignati”.
Un amministratore del forum respinge al mittente la solidarietà dei politici, visto che”sono i primi responsabili di questo stato di cose e che anche nelle nostre tasche hanno messo le mani e quando dico nostre intendo anche i tagli che, di Governo in Governo, hanno quasi messo in ginocchio la Polizia”.
Ma la responsabilità dei fatti di ieri va cercata, più che nei funzionari della Questura, nei vertici del ministero dell’Interno: “Il Questore Tagliente in fatto di ordine pubblico è tutto tranne che uno sprovveduto. E’ evidente che la strategia viene imposta secondo le direttive impartite dal Ministro dell’Interno. Allora, se il Questore è da dimettere, il primo ad andarsene dovrebbe essere il Ministro, quindi il Capo, poi il Prefetto. Ma non è così che funziona. Oggi si protesta per un atteggiamento morbido, ma cosa sarebbe successo se si fosse usata una linea più dura e repressiva?”, scrive Webcop.
La voglia di adottare un approccio decisamente più duro, nei confronti dei violenti, è forte.
Lo scrive a chiare lettere Folgore.45: “Io resto di un’opinione. Rompergli le rotule, così la prossima volta, con la sedia rotelle, non potranno fare questi macelli”.
“Che schifo ragazzi, questo Stato garantista perde su tutti i fronti, ci stanno schiacciando, solo perchè i politici lo vogliono, solo perchè questa Italia ha il ventre molle, perchè non ci lasciano fare?”, si chiede Skymap.
Marco Pasqua
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
IL CARABINIERE DEL BLINDATO IN FIAMME : “SENZA CASCO SAREI MORTO”… UN FUNZIONARIO DI POLIZIA DENUNCIA “TROPPO VECCHI PER CORRERE DIETRO A VENTENNI, L’ETA’ MEDIA E’ DI 48 ANNI”: LO STATO NON ASSUME NESSUNO…LA DENUNCIA: “E’ MANCATO IL SUPPORTO DELLA DIGOS DELLE ALTRE PROVINCE: IL GOVERNO NON SPENDE SOLDI PER PAGARE LE MISSIONI”
«Di manifestazioni ne ho fatte, ma non ho visto mai una cosa così». 
A parlare è Fabio. T. , 31 anni, il carabiniere sfuggito dal suo blindato in piazza San Giovanni appena poco prima che i Black bloc lo dessero alle fiamme nell’assalto alle forze dell’ordine durante il corteo degli Indignati sabato a Roma.
Quelle immagini hanno fatto il giro del mondo e per molti minuti hanno lasciato con il fiato sospeso migliaia di persone che assistevano agli scontri, nella piazza o collegate via web o tv, e che temevano per la vita dell’uomo.
«Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto», ha aggiunto il carabiniere parlando con l’agenzia Ansa.
Il giorno dopo, Fabio si trova in un letto d’ospedale al Policlinico di Roma Umberto I. Ha uno zigomo tumefatto. Ed è ancora sotto choc, pur non essendo alle prime armi.
Non ha perso la testa nonostante fosse sotto attacco da ogni parte, sotto una pioggia di sampietrini, bastonate, spranghe. «A un certo punto sono riusciti a spaccarmi lo specchietto – racconta – Non riuscivo più ad andare nè avanti nè indietro».
I colpi gli hanno fratturato il naso e un osso del volto gli arrivano quando è ancora al volante della camionetta.
La portiera è ormai forzata, forse grazie ad una spranga. Nel blindato non ci sono armi: solo scudi e qualche sfollagente.
E allora il carabiniere Fabio decide di scendere, lascia il mezzo lì e scappa cercando di raggiungere gli altri suoi colleghi.
Non riesce a ricordare nitidamente quei momenti, di come sia sgusciato via in mezzo a Balck bloc che inneggiavano alla morte dei poliziotti e di come sia riuscito ad uscirne vivo: «Non lo so, non ricordo molto. Mi sono allontanato, sono scappato via».
Fabio se l’è cavata, oltre che con le fratture al naso e alla faccia (subirà un intervento otorinolaringoiatrico) solo con un ematoma alla coscia.
Ma nella giornata nera degli Indignati c’è anche un altro elemento da considerare.
Tra le forze dell’ordine in piazza a Roma sabato, c’erano anche agenti ultracinquantenni «a correre dietro a ventenni che attaccavano con raffinate tecniche di guerriglia».
A parlare con l’Ansa è un funzionario del Reparto Mobile, anche lui impegnato sabato per le strade della Capitale (e domenica sera a presidiare l’Olimpico per il derby romano).
«Sabato – racconta – un carabiniere è stato colto da infarto mentre correva. Arrivati ad una certa età è difficile passare ore a correre con addosso casco e maschera antigas».
Ho visto anche – racconta – carabinieri reduci dall’Afghanistan indietreggiare: abbiamo passato momenti difficili».
La giornata, continua, «si è conclusa purtroppo con pochi fermi ed arresti dopo ore di battaglia. Si poteva fare di più, ma un problema che pochi considerano è quello dell’invecchiamento degli agenti. Nel mio reparto ieri il più giovane aveva 47 anni ed è durissima fare lunghe corse per cinque ore con addosso casco, scudo e maschera antigas, mentre si fronteggiano diciottenni che hanno ben altra prestanza fisica. Non dimentichiamo che sabato un carabiniere è stato colto da infarto mentre correva».
Sulla strada, nei servizi di ordine pubblico, sottolinea, «devono starci i giovani, che hanno il fisico ed anche l’entusiasmo. Io capisco che un padre di famiglia, con figli a casa, ci pensi non due, ma dieci volte, prima di lanciarsi con impeto contro chi ti scaglia addosso mazzette di cinque chili. E non dimentichiamo che percepiamo sette euro lorde per rischiare la vita in questo servizio».
Servirebbe, ha aggiunto, «un ricambio generazionale, ma l’età media dei poliziotti continua ad alzarsi (ora è di 48 anni), visto che non si assume e si va in pensione sempre più tardi».
L’agente passa poi a descrivere la giornata.
Le avvisaglie degli scontri, spiega, «c’erano: fin dall’inizio abbiamo visto nel corteo frange di malintenzionati col volto travisato, scudi e corpi contundenti. Li tenevamo sotto controllo fin da quando sono arrivati dalla metropolitana, ma si sono nascosti tra la folla pacifica. Uscivano continuamente per attacchi a negozi, banche ed auto per poi tornare nel corteo».
Ciò, osserva, «ha reso difficile il nostro intervento perchè catturare queste persone avrebbe comportato il rischio di colpire la folla».
Rispetto ad un’altra giornata nera, quella dello scorso 14 dicembre, prosegue il funzionario, «i violenti hanno ulteriormente affinato le loro tecniche di guerriglia, avvicinandosi alle forze dell’ordine, filmandole e chiamando poi sul cellulare i loro compagni per segnalare i punti deboli. E lì hanno colpito, dopo il Colosseo ed in via Labicana, dove i nuclei erano meno numerosi perchè il grosso stava presidiando le zone istituzionali».
L’intento preciso dei ‘nerì, secondo l’uomo, «era quello di dividerci per aggredirci. Noi dovevamo quindi non rispondere alle provocazioni e rimanere compatti».
Il problema, considera l’agente, «è che occorrerebbe fermare i violenti prima che entrino nel corteo. Per farlo bisognerebbe capire chi sono e da dove vengono e ieri, contrariamente a quanto avvenuto in altre occasioni, non avevamo il supporto delle Digos delle altre province di provenienza dei manifestanti perchè non ci sono soldi per pagare le missioni».
(da “Il Corriere della Sera”)
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
LA FOTO DELLA FRANGIA VIOLENTA CHE SI POTEVA SUBITO ISOLARE: PERCHE’ NON SI E’ INTERVENUTI?… PER UNA QUALSIASI MANIFESTAZIONE A RISCHIO VENGONO SPOSTATI I CASSONETTI LA SERA PRIMA E UN CORDONE DI POLIZIA ACCOMPAGNA IL CORTEO… INTERE ZONE SONO STATE ABBANDONATE DAL CONTROLLO DELLE FORZE DELL’ORDINE PER PRESIDIARE CON CENTINAIA DI UOMINI PALAZZO GRAZIOLI E I PALAZZI DEL POTERE… SE GOVERNASSE LA SINISTRA OGGI I BECERODESTRI AVREBBERO RECLAMATO GIUSTAMENTE LE DIMISSIONI DEL MINISTRO DEGLI INTERNI
Qui a fianco pubblichiamo la foto dei cosiddetti black boc all’inizio del corteo, quando ancora nulla era successo e si sarebbe potuto intervenire per isolarli dal resto della manifestazione.
Sono circa 150 persone, un gruppo esiguo peraltro subito segnalatosi per il tipo di abbigliamento: visi coperti, caschi e attrezzatura al seguito.
Sarebbe peraltro stato sufficiente, come fa qualsiasi “intelligence” di un Paese del Terzo mondo, seguire nei giorni precedenti gli scambi di messaggi in rete e gli appelli di alcuni siti anarco-insurrezionalisti per comprenderne intenzioni, strategia di infiltrazione e appuntamenti.
Chi ha dimestichezza con certi “disordini annunciati” e manifestazioni ben più imponenti e devastanti degli anni di piombo sa perfettamente quali possono essere le contromisure.
In primo luogo fare prevenzione e filtro nella città di origine dei black bloc, perquisendo i pulmann noleggiati prima che raggiungano la meta di destinazione, bloccandoli a gruppi nelle stazioni per le opportune verifiche, facendo rispettare la legge, ovvero niente caschi e altri oggetti al seguito.
Per chi avesse dubbi, sono stati decine i pulmann noleggiati dai centri sociali provenienti dal nord e perfettamente intercettabili.
In secondo luogo i gruppi più estremi sono sempre stati relegati in fondo ai cortei, in modo da facilitarne il controllo. Sia ad opera del servizi d’ordine dei manifestanti che su intervento delle forze di polizia.
In terzo luogo qualsiasi Questura di provincia, in caso di corteo a rischio, fa togliere dal percorso della manifestazione tutti i cassonetti dei rifiuti e persino le auto, eliminando quindi la possibilità di dar loro fuoco.
In quarto luogo il corteo non lo si può abbandonare a se stesso, ma va “scortato” con un cordone di agenti lungo il percorso appoggiati da nuclei fissi di pronto intervento in caso di disordini.
Se ci fosse stato, i black bloc non avrebbero devastato interi quartieri anche per 20 minuti senza che intervenisse nessuno.
Bastava accerchiarli e isolarli quando erano 200, invece che aspettare che diventassero mille
Ma se i duemila uomini a disposizione del ministro Maroni vengono per metà impiegati a tutelare Palazzo Grazioli e altri obiettivi istituzionali, senza alcuna flessibilità di intervento, è ovvio che si espongno gli agenti rimasti al tiro al bersaglio e i manifestanti pacifici alle minacce e alla violenza dei facinorosi.
Oggi certi esponenti della becerodestra che sgoverna il Paese, invece che denunciare queste carenze, attaccano anche il popolo degli indignati in un singolare gioco delle parti, uno funzionale all’altro.
Ieri i black bloc hanno fatto fallire una manifestazione ricca di “contenuti”, oggi qualcun altro accusa gli stessi indignados di teppismo: tempistica perfetta per chi ha solo interesse a mantenere lo status quo.
Persino Draghi, reo di aver espresso solidarietà ai manifestanti non violenti, viene tacciato di collusione coi terroristi, coi comunisti, con gli eversori dell’ordine del lettone di Putin, coi nemici del puttanesimo politico e della corruzione parlamentare.
Altra forma di violenza, non inferiore a quella condannabile dei black bloc.
Il teatrino della politica berlusconiana non prevede le dimissioni del ministro degli Interni: se si fosse trattato di un governo di sinistra qualcuno oggi avrebbe chiesto l’impiccagione sulla pubblica piazza del ministro per manifesta incapacità , in questo caso invece soli encomi per aver permesso che la capitale subisse milioni di euro di danni.
Gli “opposti estremismi” scoprono interessi comuni: far dimenticare agli italiani che sono diventati la barzelletta del mondo.
Sui media internazionali dopo le olgettine, i bunga bunga, i Cosentino, la corruzione, la compravendita di deputati, gli inquisiti collusi con la mafia, lo sfascio economico e morale del nostro Paese, le Tv monopolizzate, ecco un “dissuasore” che deve unire i “borghesi benpensanti”: il ritorno dello yeti comunista per evitare che un nuovo inquilino varchi il portone di San Vittore.
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
LE RESPONSABILITA’ DEL MINISTRO DEGLI INTERNI: IDRANTI SULLA FOLLA E PRIORITA’ ALLA TUTELA DEI PALAZZI DEL POTERE, ECCO I GRAVI ERRORI NELLA GESTIONE DELLA MANIFESTAZIONE… I PRIMI SCONTRI CONSIDERATI UN DIVERSIVO PER ARRIVARE A PALAZZO GRAZIOLI
In un giorno che sembra non debba finire mai, il questore di Roma Francesco Tagliente e il suo
dispositivo di ordine pubblico conoscono la loro Caporetto.
Il Viminale si era preparato a difendere la quiete della “città proibita”, il quadrilatero dei Palazzi della politica, confinando il corteo in un gomito obbligato (piazza della Repubblica-Largo Corrado Ricci-San Giovanni) che, nelle intenzioni, doveva imbrigliarlo nel reticolo del quartiere Esquilino.
Dove un’eventuale devastazione – questo il ragionamento – avrebbe avuto obiettivi meno sensibili.
Qualche bancomat, qualche semaforo, qualche bottega, qualche cassonetto. Il questore, e con lui il prefetto, Giuseppe Pecoraro, avevano riproposto – senza per altro farne mistero alla vigilia – quel format di “dissuasione statica”, che già aveva dato pessima prova di sè il 14 dicembre dello scorso anno. Reparti (2000 uomini) e mezzi schierati a chiudere i varchi della “zona rossa”. Con tempi di reazione lunghi e farraginosi.
Nessun “filtraggio” significativo e nessun intervento sul corteo e nel corteo. Da accompagnare come un fiume, dalla sorgente alla foce, sorvegliando che non tracimasse.
Ebbene, non ha funzionato.
Tanto che a sera, con i fumi e le rovine urbane della battaglia, restano solo le parole di solidarietà del Capo dello Stato e del capo della Polizia, Antonio Manganelli, per chi, in divisa, ha combattuto per ore in strada e per quanti hanno avuto la peggio (15 gli agenti feriti).
I “neri” – se li vogliamo chiamare così – hanno avuto gioco facile. Conoscevano il “format”.
E hanno pianificato prima, e fatto poi, esattamente ciò che era in grado di mandarlo in corto-circuito.
Hanno usato il corteo per proteggersi. Non ne hanno mai lasciato l’alveo, trasformandone il percorso in un sentiero di devastazione.
Un sentiero che conoscevano e che avevano “armato” alla vigilia (come dimostra il ritrovamento in via Cavour, ieri sera, di una borsa con una decina di molotov e un cumulo di assi necessarie a costruire una rudimentale ariete). Consapevoli che non avrebbero incontrato resistenza.
Sapevano che l’organizzazione della manifestazione non era in grado, per ragioni anche politiche, di garantire un servizio d’ordine.
Che avrebbero dunque affondato come nel burro, da padroni violenti e minoritari di una piazza indignata ma pacifica.
I “neri” sapevano che il Viminale li attendeva a una prova di forza “frontale”.
A un tentativo di sfondamento verso la “città proibita”.
Hanno pianificato e fatto l’opposto. Hanno dato alle fiamme quella “libera”, portandosi dietro chi, in piazza san Giovanni, ha incrociato la loro strada e con loro nulla aveva a che fare.
Quando il pomeriggio comincia, i ragazzi con le teste infilate nei caschi non arrivano a trecento.
Tre ore dopo, superano i mille.
Eppure, per almeno due ore, tra le 14 e le 16, tra piazza della Repubblica (dove la manifestazione ha il suo concentramento) e Largo Corrado Ricci, dove via Cavour confluisce nei Fori Imperiali, il pomeriggio ha ancora una possibilità di girare altrimenti.
Ma in qualche modo è come se la rigidità del piano di ordine pubblico non contempli fuori programma.
Accade infatti che prima ancora che il corteo si muova nessuno noti – o dia il giusto peso – ad almeno un centinaio di “neri” che, arrivati dalla stazione Termini, portano caschi di ogni foggia legati alla cintola o chiusi al polso. Nessuno li filtra.
O, meglio, il loro filtraggio è affidato a qualche pattuglia della polizia municipale.
Il corteo li accoglie nella loro pancia con diffidenza, ma senza allarme.
Alle 16, quando la prima scia di devastazione ha acceso il corteo in via Cavour, il questore prende la decisione destinata a trasformare le ore che restano in una battaglia che lo lascia sconfitto.
In Largo Corrado Ricci, c’è infatti la possibilità di tagliare il corteo con i reparti schierati a protezione della “città proibita”.
“Di andare dentro”, come grida qualche funzionario alla ricetrasmittente per andarsi a prendere quella cinquantina di “neri” che, per altro, il corteo ha isolato e, in qualche caso, anche aggredito a bottigliate.
Ma Tagliente ordina che i reparti non lascino i varchi.
L’idea è che i “neri” possano ritenersi sazi del bottino sin lì raccolto. Ovvero, come in serata spiega una fonte qualificata della Questura, che “quella prima devastazione in via Cavour sia solo una provocazione per spingere a una prima carica e far sguarnire così di uomini e mezzi i varchi che bloccano l’accesso verso Piazza Venezia, palazzo Grazioli, il Corso e dunque il Parlamento”.
Di più. In largo Corrado Ricci, il questore è convinto che “non esistano i margini di sicurezza per intervenire”.
Al contrario, verranno ritenuti tali in via Labicana, prima. E in una piazza San Giovanni trasformata in tonnara, poi.
Ma ormai è troppo tardi.
Il pomeriggio e la sera sono ormai dei “neri”. Della loro furia. Dei loro numeri. Improvvisamente minacciosi quanto le loro mazze e moltov.
Carlo Bonini
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
IL GOVERNATORE DI BANKITALIA: “OCCORRE ASCOLTARE L’APPELLO DEGLI INDIGNATI, CAPISCO I TIMORI DELLE NUOVE GENERAZIONI”
«I giovani hanno ragione a essere indignati» ma «a patto che la protesta non degeneri», ed è un «gran peccato» che ci siano stati degli scontri alla manifestazione di Roma.
Anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, bersaglio di feroci critiche e satire da parte degli ‘indignatì nei giorni scorsi definitisi ‘Draghi ribellì, si unisce alla lista di chi, nel mondo della finanza e dell’economia, comprende le ragioni dei giovani la cui protesta contro la crisi si estende in tutto il mondo.
Persone come Warren Buffet, l’ad di Citigroup Vikram Pandit o il numero uno di Blackrock Laurence D. Fink.
«Se la prendono con la finanza come capro espiatorio, li capisco, hanno aspettato tanto: noi all’età loro non l’abbiamo fatto», spiega Draghi a margine del G20 finanza.
Il governatore, che come presidente dell’Fsb ha messo a punto in questi anni una riforma delle regole della finanza per limitarne gli eccessi e le storture, fortemente avversata da vasti settori del credito e da alcuni Stati, rileva: «noi adulti siamo arrabbiati contro la crisi, figuriamoci loro che hanno venti o trent’anni».
Parole di comprensione dunque peraltro già espresse in un’altra forma da Draghi in diverse occasioni, quando sottolineava come «senza i giovani non c’è crescita», spronando a varare riforme e misure per permettere loro di fornire il proprio potenziale di talento e di creatività al Paese.
Uno spreco di risorse che mette a rischio la crescita del Paese.
Ancora qualche giorno fa, lo scorso 12 ottobre, quando Draghi aprì un evento dedicato all’economia nei 150 anni dell’unità d’Italia alla presenza del presidente Giorgio Napolitano, il governatore ha ricordato questo aspetto mentre fuori, tenuti ben lontani dalle forze dell’ordine, gli indignati manifestavano indossando anche maschere con il suo volto.
Verso Draghi e la Bce il movimento ha espresso infatti forti critiche sulle ricette lacrime e sangue contenute nella lettera indirizzata al governo italiano e ad altri Stati europei.
Cortei e proteste nelle ultime settimane hanno preso di mira le sedi della Banca d’Italia in diverse città italiane culminate nella manifestazione a Via Nazionale, dove è stato organizzato anche un presidio fisso.
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
LE PALLE DELLA GELMINI SULLA RIFORMA DELLA SCUOLA CHE AVREBBE DOVUTO PREMIARE I DOCENTI…BASSA LA SPESA PER L’ISTRUZIONE, APPENA IL 4,8% DEL PIL: SIAMO AL 29 POSTO SU 34 NAZIONI…MANCANO ISPEZIONI E VALUTAZIONI
Italia fanalino di coda per la spesa nella scuola, gli stipendi degli insegnanti e il numero
di laureati, ma ai primi posti per le ore passate sui banchi e anche per le ridotte dimensioni delle classi, per lo meno sulla base del rapporto allievi/insegnanti.
È la fotografia fatta dall’Ocse nello studio sul sistema scolastico dei principali Paesi che l’organizzazione stila annualmente.
Gli stipendi di prof e maestri italiani sono notoriamente tra i più bassi d’Europa.
Ma il guaio è che la situazione non accenna a migliorare. Anzi.
Mentre gli stipendi dei colleghi degli altri paesi aumentano, quelli degli insegnanti del Belpaese diminuiscono.
Dal 2000 al 2009 – rileva il rapporto sull’educazione diffuso dall’Ocse – gli stipendi nella scuola italiana sono diminuiti dell’1%, mentre nel resto dei paesi Ocse hanno registrato aumenti medi del 7%.
Non solo. Un insegnante della scuola media nel Belpaese deve attendere 35 anni di servizio per ottenere il massimo salariale, quando la media Ocse ne prevede invece 24.
E comunque, in generale, i docenti italiani guadagnano il 40% in meno rispetto ad altri connazionali con lo stesso grado di istruzione.
Un maestro alle prime armi guadagna poco più di 25mila dollari l’anno, quando la media Ocse si attesta sui 26.512 dollari.
A fine carriera guadagnerà 37mila dollari (42.784 media Ocse).
Ammontano a 27.358 dollari invece gli stipendi annuali dei prof delle scuole medie (28.262 media Ocse) e superiori (29.472).
A fine servizio questi docenti possono aspirare al massimo a 41.040 dollari l’anno o a 42.908 dollari a seconda che insegnino alle medie o alle superiori.
Una cifra decisamente inferiore alla media Ocse, che rispettivamente si attesta a 45.664 e 47.740 dollari.
I docenti però continuano a essere tanti: in Italia c’è un insegnante ogni 11 alunni, il rapporto medio dei Paesi Ocse è 1 a 16.
Quanto alla spesa destinata all’istruzione, nel 2008 in Italia era pari al 4,8% del Pil: 1,3 punti percentuali sotto la media Ocse (6,1%).
Un dato che posiziona il nostro Paese al 29esimo posto sui 34 Paesi che aderiscono all’Organizzazione.
Tra l’altro, solo l’8,6% della spesa totale in istituti di istruzione è stata fornita da fonti private, la metà rispetto alla media Ocse.
Tra il 2000 e il 2008, la spesa nella Penisola per la scuola primaria, secondaria e post-secondaria non universitaria è aumentata solo del 6% contro la media Ocse del 34%, facendo segnare il penultimo incremento tra i Paesi avanzati.
Il numero di giorni di istruzione (172) è tuttavia inferiore alla media Ocse (185), così come le ore di insegnamento (757 contro 779 alle elementari e 619 alle medie contro 701).
Al tempo stesso con un totale di 8.316 di ore di istruzione previste per il ciclo dell’obbligo l’Italia è al primo posto contro una media Ocse attorno a 6.800 ore.
Inoltre le classi in proporzione al numero di insegnanti sono piccole (10,7 alunni per maestro contro 16 alla scuola primaria e 11 studenti per prof contro 13,5 alle medie). L’Ocse sottolinea anche che la Penisola è uno dei rari Paesi a non richiedere ispezioni nelle scuole o auto-valutazioni (solo Messico, Grecia e Lussemburgo fanno altrettanto) e quindi ha meno meccanismi per assicurare la qualità degli istituti, i punti di forza e di debolezza.
Il rapporto evidenzia anche la scarsità di laureati: sono il 14% della popolazione adulta (solo Turchia e Brasile ne hanno meno) e il 20% della fascia di età 25-34 anni contro 37% della media Ocse (il che relega l’Italia al 34esimo posto su un totale di 37 Paesi considerati).
Il loro tasso di occupazione è del 79% contro l’84% Ocse, ma è di 28 punti più alto rispetto a chi non ha concluso gli studi superiori.
Nel corso della sua vita, inoltre, un laureato in Italia può guadagnare oltre 300mila dollari in più rispetto a un diplomato (contro la media Ocse di 175mila dollari), uno dei livelli massimi dell’Ocse (va meglio solo a portoghesi e americani).
La laurea insomma «paga» in Italia.
Basta non essere donne, perchè in questo caso, nella Penisola come in Brasile, le laureate guadagnano solo il 65%, se non meno, dello stipendio dei colleghi. .
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
LONTANO UN ACCORDO SU UNA NUOVA NORMATIVA CHE RICONOSCA DIRITTI E DIGNITA’
“Da quel momento io sono stata un fantasma: non esistevo più per nessuno. Non sono
stata invitata alla Veglia funebre al Vittoriano, nè ai funerali di Stato, nè ad altre commemorazioni di seguito. Non ho avuto diritto all’assistenza psicologica nè a indennizzi dello Stato e nemmeno a donazioni dei privati”.
Così scriveva qualche anno fa Adele Parrillo, la compagna di Stefano Rolla, il regista morto nell’attentato di Nassirya il 12 novembre 2003.
Non la moglie, la compagna.
Già , perchè in questa Italia che accetta senza battere ciglio che il presidente del Consiglio si diverta nei suoi festini passando il crocifisso tra i seni delle sue ospiti, non c’è alcuna legge che tuteli le persone che convivono.
Ogni tanto il dibattito si riaccende (spesso sotto elezioni), ma tutte le proposte di legge presentate negli ultimi anni, dai Pacs ai Dico, alla fine sono state sepolte dalla polvere dei Palazzi.
E quindi ci vanno di mezzo coppie che magari si amano da 30 anni, ma alle quali viene negato il diritto all’assistenza in punto di morte.
Come è accaduto giorni fa a Rossana Podestà , attrice degli anni Sessanta e compagna di una vita di Walter Bonatti, l’esploratore morto il 14 settembre.
In un’intervista a Vanity Fair, la Podestà rivela gli ultimi giorni trascorsi accanto al suo uomo, portato via da un cancro al pancreas, e quell’impossibilità di stringergli la mano in sala rianimazione, negli ultimi momenti di lucidità . “Non è la moglie, non ha alcun diritto”.
Una frase che fa tornare alla memoria storie simili, quelle finite sui giornali, e storie anonime, vissute ogni giorno tra le aule dei tribunali o le corsie di un ospedale.
Adele Parrillo, appunto, sei anni di convivenza con Stefano Rollo e un indomani iracheno di diritti negati.
“Il 12 novembre 2003, giorno della tragedia — racconta Adele — Stefano mi telefonò alle 8 ora italiana prima che io andassi in ufficio e prima che lui uscisse dalla base militare di White Horse per sopralluoghi. Per tutto il giorno ho tentato di chiamare Stefano a Nassirya senza esito. Nessuno durante la giornata ha comunicato con me. I vertici della Difesa e del ministero degli Esteri hanno comunicato la morte di Stefano ad uno dei produttori, Achille De Luca. Io l’ho saputo da lui”.
Oppure Alessandra Biancalana, compagna del panettiere Antonio Farnocchia, una delle vittime della strage di Viareggio, il 29 giugno 2009.
Tredici anni di vita insieme, una figlia e un uomo visto morire in una fiammata. Compagna, non moglie. E per questo esclusa da ogni tipo di risarcimento.
“Il testo del provvedimento prevede che l’indennizzo venga assegnato alla convivente more uxorio solo nel caso che l’ex coniuge sia formalmente divorziato”.
Antonio non lo era.
Rossana, Adele e Alessandra sono state donne che hanno trovato il coraggio di denunciare, sfidando il muro di omertà e bigottismo che soffoca l’Italia delle olgettine. Ma non sono certo le uniche ad aver subìto un’ingiustizia.
“Potremmo raccontare centinaia di storie”, commenta con amarezza Sergio Rovasio, segretario dell’associazione radicale “Certi diritti”, che sta preparando un libro-raccolta di tutte le norme che possono aiutare le coppie di fatto.
“Le persone non lo sanno, ma ci sono meccanismi che rendono meno ampio il divario col matrimonio. Per esempio la ‘famiglia anagrafica’, un certificato che i Comuni dovrebbero rilasciare e nel quale si indica che le tali persone che vivono in quel determinato posto sono una coppia convivente. Questo potrebbe essere sufficiente a superare l’opposizione all’accesso in ospedale o alle visite in carcere. Il problema è che quasi nessuno lo sa e soprattutto quasi nessuno lo fa, prima che accada un evento spiacevole. Alla signora Podestà sarebbe bastata la mutua designazione dell’amministratore di sostegno per seguire il marito nel suo percorso finale. Un semplicissimo atto notarile sarebbe stato la migliore medicina per il cuore”.
E se vengono discriminate le famiglie (di fatto) eterosessuali, figuriamoci quelle gay, vittime spesso anche dei pregiudizi familiari.
“Nel pescarese un uomo di 75 anni, rimasto vedovo del suo compagno 80enne — racconta Rovasio — si è visto portare via la casa dai parenti. Ha trovato i suoi vestiti fuori dalla porta, chiusi nei sacchi della spazzatura. Si è visto negare persino i mobili. Qualche anno fa un ragazzo disoccupato ha litigato col convivente col quale stava da dieci anni, che lo ha buttato fuori di casa e ha chiamato la polizia. ‘Non può rivalersi, questa casa è del signore’ si è sentito rispondere il giovane”.
Il 12 novembre 2001 , a un anno dall’attentato di Nassirya, Adelle Parrillo è entrata, non invitata, nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli dove si svolgeva la solenne cerimonia di commemorazione e si è fermata al centro della navata.
Le si è avvicinato Pier Ferdinando Casini e le ha chiesto perchè fosse lì.
“Gli ho risposto che se per una legge del loro governo l’embrione è un essere umano, allora io ero a tutti gli effetti la moglie di Stefano Rolla, il civile che loro si apprestavano a commemorare come fosse cosa di loro proprietà . Quindi il mio posto era tra le vedove”.
Silvia D’Onghia
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
MAPPATI SERVIZI E PERSONE…SI CHIAMA “DAI UN VOLTO AGLI INVISIBILI” LA RICERCA PROMOSSA DA ISTAT, CARITAS E MINISTERO PER CAPIRE QUANTO SONO I SENZA FISSA DIMORA NEL NOSTRO PAESE
Mentre gli italiani compilano il questionario del Censimento 2011, c’è una parte della
popolazione che rischia di rimanere invisibile.
Sono i senza fissa dimora, quelli che un’abitazione non ce l’hanno e che difficilmente potranno compilare il modulo Istat.
Per capire quanti sono però è già partita la ricerca “Dai un nome agli invisibili”, uno studio sulla grave emarginazione promosso da ministero del Lavoro e delle politiche sociali, Caritas, Istat e Fiopsd (Federazione italiana organismi per le persone senza dimora).
Gli ultimi dati ufficiali sugli homeless italiani risalgono al 1999, quando la Fondazione Zancan di Padova (su richiesta della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale) contò 17 mila senzatetto.
“Il numero però è sicuramente sottostimato”, spiega il presidente di Fiopsd Paolo Pezzana, “da quello che vediamo, da quello che ci dicono le associazioni, si stima che i senza dimora in Italia siano 50-60 mila: non è detto però che questa impressione corrisponda alla realtà ”.
La nuova ricerca dovrebbe riuscire a dare qualche certezza: la prima fase dello studio si è già conclusa ed è stata condotta in 12 aree metropolitane, nei comuni sopra i 100 mila abitanti e in tutti i capoluoghi di provincia.
L’obiettivo, spiega Pezzana, “è censire i servizi che in Italia si occupano di senza dimora e ottenere, tramite un algoritmo elaborato da Istat, una stima accurata del numero di persone che li frequentano”.
I risultati dovrebbero essere resi pubblici ai primi di novembre e serviranno anche a inserire fra i dati Istat la categoria della povertà estrema, diversa dalla povertà relativa e assoluta.
“La povertà assouta viene registrata dall’Istat in base all’indagine condotta annualmente sui consumi delle famiglie”, precisa il presidente Fiopsd, “ma da questa i senza dimora rimangono fuori: di certo tutte le persone in povertà estrema sono anche in povertà assoluta, mentre non è vero il contrario. Fornire i due dati separati servirà anche a calibrare meglio le politiche sulla povertà ”.
“Dai un volto agli invisibili” servirà poi a tracciare un profilo più dettagliato degli homeless in Italia.
Anche in questo caso gli ultimi dati disponibili sono quelli della Fondazione Zancan, secondo cui nel 1999 in strada c’erano soprattutto uomini (l’80%), di età compresa fra i 28 e i 47 anni e divisi a metà fra italiani e stranieri.
Per capire cosa è cambiato, dal 20 novembre al 20 dicembre prenderà il via la seconda fase della ricerca Fiopsd, che prevede 5.500 interviste a persone senza dimora, identificate fra quelle che frequentano mense e dormitori.
Nelle schede delle interviste (una bozza è disponibile sul sito http://www.ricercasenzadimora.it/) i rilevatori dovranno compilare un “diario degli ultimi sette giorni”, riportando per ogni giornata dove l’intervista ha mangiato e dove ha dormito.
Le interviste saranno condotte da soci Fiopsd, operatori dei servizi, ma si cercano anche volontari: per partecipare basta seguire le indicazioni riportate su http://www.ricercasenzadimora.it/.
Allo stesso tempo anche il Censimento 2011 cercherà di contare i senza dimora. Il rischio però è che le persone finite in strada nel corso dell’ultimo decennio vengano cancellate dai registri dell’anagrafe.
Per censire gli homeless di solito si considerano come abitazioni le strutture che funzionano anche da rifugio notturno, la Fiopsd chiede invece “di partire dalla residenza fittizia e di considerare come abitazione tutte le strutture presso cui i senza dimora possono ottenerla”.
(da “Redattore Sociale”)
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Ottobre 16th, 2011 Riccardo Fucile
DAL 2007 IL LORO REDDITO E’ DIMINUITO DEL 6%…. I DATI SPIEGANO CHE I GIOVANI E LE FAMIGLIE CON FIGLI SONO LE VERE VITTIME DELLA RECESSIONE
Nei giorni scorsi il ministro del Lavoro Sacconi ha cercato di scaricare sulla lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto la responsabilità dell’articolo 8 della manovra estiva, quello che permette alla contrattazione aziendale di derogare alle leggi dello Stato, comprese le norme sui licenziamenti.
Le parole di Draghi hanno chiarito quanto lo spirito delle riforme invocate dalla BCE sia lontano dalle scelte del nostro Ministro del Lavoro.
Sacconi ha scelto di abdicare alle sue funzioni, delegando il compito di cambiare le regole del mercato del lavoro alle parti sociali, che hanno non poche responsabilità nel dualismo del nostro mercato del lavoro.
Draghi ha chiesto al Governo, non a Confindustria e sindacati, riforme che aumentino la copertura dei nostri ammortizzatori sociali riducendo al contempo il dualismo, a vantaggio dei giovani e delle famiglie con figli.
Sono proprio queste le categorie maggiormente colpite dalla Grande Recessione.
I dati sin qui disponibili ci dicono che sono proprio i giovani e le famiglie con due o più figli le principali vittime della crisi.
Il loro reddito disponibile è diminuito dal 2007 al 2010 di circa il 6 per cento contro l’1,5 per cento per la media degli italiani.
Mentre la povertà fra le famiglie con più di due figli è cresciuta quattro volte di più che per gli altri.
L’unica categoria risparmiata dalla recessione è stata quella dei pensionati, che ricevono un reddito fisso, protetto dall’inflazione.
Per chi ha più di 65 anni, c’è stato in questo periodo un incremento di più del 3 per cento del reddito disponibile e un calo della povertà .
Le preoccupazioni per la condizione dei giovani sono rivolte soprattutto al futuro.
Chi rimane disoccupato all’inizio della sua carriera lavorativa e non può beneficiare, come da noi, di alcuna forma di sostegno pubblico al proprio reddito, si porterà dietro per lungo tempo le cicatrici di questo evento sfortunato.
I dati che seguono le stesse persone nel corso del tempo ci dicono che in media chi perde il lavoro e non è protetto si trova ad avere salari più bassi per 20 anni, a subire una forte instabilità dei redditi per 10 anni, ha una probabilità più alta di divorziare e minore di fare figli.
Il fatto più preoccupante è che, a parte i ripetuti richiami di Draghi, questi problemi vengono sistematicamente ignorati dal dibattito pubblico.
C’è uno scontro fra amministrazioni centrali e locali sull’entità del contributo che diversi livelli di governo stanno dando al consolidamento fiscale e i politici si schierano prendendo posizione, chi a favore dei Comuni, chi del Governo.
Ma la vera linea di demarcazione è quella tra politiche che guardano ai giovani e politiche che pensano solo a chi ha più di 60 anni di età .
Negli ultimi dieci anni la spesa per pensioni (gestita dal centro) e sanità (gestita dalle Regioni) è aumentata più del doppio delle altre spese sotto la giurisdizione di Governo e enti locali.
E’ una differenza che non si spiega, se non in minima parte, con l’invecchiamento della popolazione italiana.
Si tratta di una questione di peso politico: non è un caso che la manovra abbia evitato di toccare, se non in modo del tutto marginale, la spesa per la previdenza, destinata così a crescere del 12 per cento da qui al 2014.
E un Governo che ha fatto salire le tasse sul lavoro ai livelli della Svezia, si è rifiutato ostinatamente di reintrodurre l’Ici sulla prima casa, che verrebbe pagata soprattutto da chi ha più di 60 anni di età .
I pochi tagli alla spesa corrente colpiscono, invece, proprio i beni e i servizi pubblici destinati maggiormente ai giovani, come l’istruzione e i trasporti pubblici.
I giovani non hanno alcuna responsabilità nella crisi di credibilità del nostro paese.
E’ legata a un debito pubblico accumulato negli anni 80, quando molti di loro non erano ancora nati.
Il debito è esploso in quegli anni non certo per fare investimenti per il futuro, ma per aumentare il numero dei dipendenti pubblici, cresciuti di un terzo in quegli anni, e permettere a chi avrebbe vissuto più a lungo dei propri genitori di andare in pensione fino a 20 anni prima di loro, a spese dei propri figli.
L’Istat dovrebbe cominciare a pubblicare conti generazionali per mettere in evidenza queste stridenti iniquità di cui gli italiani spesso non si rendono conto.
Alla politica spetta, invece, trovare delle soluzioni che scongiurino un conflitto intergenerazionale altrimenti inevitabile.
Molte delle riforme a costo zero da fare in Italia guardano proprio ai giovani.
Si possono unificare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro, con contratti a tempo indeterminato con tutele crescenti.
Si può permettere di associare studio e lavoro nell’ambito di scuole tecniche di specializzazione universitaria sul modello delle Fachhochschule tedesche.
Sarebbe un modo per abbattere il numero di giovani che non lavorano e non studiano al tempo stesso.
Sono scelte che evitano il conflitto tra generazioni, puntando sulla crescita e non solo sulla redistribuzione di risorse date, perchè servono a meglio utilizzare il capitale umano di cui disponiamo.
Mai come oggi pensare a cosa sarà il nostro paese fra 10 o 20 anni serve ad evitare il peggio per tutti. Il pessimismo degli investitori nei confronti dell’Italia è nato prendendo atto di come (non) siamo cresciuti negli ultimi 15 anni, vedendo che il nostro Governo ambisce al massimo a riportarci nel 2020 ai livelli di reddito che avevamo alla vigilia della grande recessione. Speriamo che non si siano accorti che ora sta progettando,
invece della crescita, l’ennesimo condono tombale, aggiungendo al danno per chi si appresta a pagare tasse più alte per tutta la vita per colpe non sue anche la beffa di vedere che chi le tasse non le ha mai pagate ancora una volta la farà franca.
Tito Boeri
(da “La Repubblica”)
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