Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
LE VITTIME SAREBBERO DIPENDENTI DI ORIGINE CINESE E FILIPPINA DEDITI A MODESTE MANSIONI: NON AVREBBERO AVUTO IL TEMPO DI METTERSI IN SALVO… DUE PERSONE ANCORA VIVE SULLA NAVE: SI LOTTA PER RAGGIUNGERLE IN TEMPO
Il sospetto è che, a cento anni dall’affondamento del Titanic, anche questa volta a pagare il
prezzo più alto sia stata la “terza classe”.
In questo caso sarebbero i “membri dell’equipaggio — come raccontano fonti confidenziali all’interno della Procura di Grosseto a ilfattoquotidiano.it — dalle mansioni più modeste”.
Secondo gli ultimi numeri raccolti ieri coloro che non sono ancora stati rintracciati sulla terraferma sarebbero 41.
Prevalentemente cinesi e filippini che, secondo l’ipotesi della procura, si sarebbero trovati negli alloggi o nelle lavanderie: non si sarebbero neppure accorti di cosa stava succedendo e comunque non avrebbero avuto il tempo di mettersi in salvo.
I morti accertati, nell’incredibile sciagura dell’isola del Giglio, sono invece i francesi Francis Servel e Jeanpierre Micheaud e il marinaio peruviano Thomas Alberto Costilla Mendoza, che sarebbero tutti annegati.
La speranza è arrivata a mezzanotte passata.
I Vigili del Fuoco hanno annunciato di avere individuato due persone vive dentro la nave.
Ancora irraggiungibili, però, perchè lontane dai soccorritori.
E’ sempre più inclinata la nave Costa Concordia, di oltre 90 gradi e si sta inabissando.
Questo, spiegano i soccorritori, rende più difficili le operazioni di ricerca di eventuali dispersi a bordo della Costa Concordia. “E’ una corsa contro il tempo”, viene spiegato dai soccorritori.
Comandante fermato.
Una tragedia da non credere. Tanto che il procuratore di Grosseto Francesco Verusio ha sottoposto a fermo il comandante della Costa Concordia: Francesco Schettino, 52 anni, originario di Napoli, è già nel carcere di Grosseto dove attenderà l’udienza di convalida programmata nelle prossime ore. Schettino dovrà rispondere, insieme al primo ufficiale in plancia, Ciro Ambrosio e ad altri 4 membri dell’equipaggio, di omicidio colposo plurimo, naufragio e abbandono della nave.
Il comandante, infatti, dopo aver condotto un transatlantico pesante come 110 Boeing sugli scogli, secondo gli inquirenti, alle 23,30 (neanche due ore dopo l’allarme) avrebbe lasciato la nave.
Peccato che le operazioni di evacuazione della Concordia fossero ben lontane dall’essere concluse: gli ultimi a tirare un sospiro di sollievo lo hanno fatto intorno alle 3. Una manovra che il procuratore di Grosseto ha definito Francesco Verusio ha definito “maldestra”.
Il giallo delle liste.
Ma sempre dall’Unità di crisi di Grosseto arriva una denuncia: “Ancora non sappiamo quante persone fossero a bordo al momento dell’incidente. Costa Crociere non ci ha ancora fornito un numero esatto”.
La giornata è frenetica, eppure, a quasi 24 ore dal naufragio la Costa Crociere non ha dato ancora quel numero che aiuterebbe a capire quanti possano essere realmente i turisti o i membri dell’equipaggio ancora dispersi. Un elenco di passeggeri e ciurma è arrivato e su quello si lavora, ma ci sarebbero punti poco chiari. “Nella lista c’erano dei nominativi di persone che probabilmente erano scese a Civitavecchia o in tappe precedenti. Accanto ad alcuni nomi infatti — riferiscono dall’unità di crisi — c’era scritto ‘No’, ma a dire il vero non sappiamo cosa significassero. Abbiamo dovuto interpretare”. “Abbiamo il numero delle persone censite all’arrivo a Porto Santo Stefano, cioè 4.152″. Ma qui sta il giallo che lascia aperta qualche speranza: “Due americani sono stati salvati ed erano rimasti ospitati all’isola del Giglio da una famiglia e questi due non erano stati censiti”.
Inizialmente si era parlato di 4.234 a bordo. Poi di 4.229, 1.013 membri di equipaggio e 3.216 passeggeri.
La realtà è che un numero preciso e un elenco dei nomi non sarebbe stato ancora fornito e nel pomeriggio lo confermava al fatto.it anche la Guardia di Finanza. Dall’azienda però hanno negato e hanno detto di avere fornito quel dato in giornata.
Corsa contro il tempo.
Più passa il tempo più si riducono le speranze di trovare vive quelle 41 persone.
La nave ieri all’ora di cena era ancora in movimento, come confermato da Cosimo Di Castro, del comando generale della Guardia costiera, e per questo i sommozzatori hanno difficoltà a entrare e a verificare l’eventuale presenza di persone dentro i locali della crociera.
I sub hanno ispezionato, nel lato sommerso dall’acqua, solo le parti all’aperto. Nessuno, insomma, è ancora riuscito a entrare all’interno della nave a oltre 24 ore dall’sos.
Le indagini.
A pesare sulla decisione della Procura di arrestare il comandante è stato il rischio di inquinamento delle prove.
Al momento dell’impatto era Schettino al comando ed è stato lui a ordinare la rotta: “E’ stata — ha spazzato via gli ultimi dubbi il procuratore Verusio – una manovra voluta“.
Secondo quanto ricostruito finora peraltro la falla lunga decine di metri sulla chiglia della nave si sarebbe aperta intorno alle 21,45, ma la Capitaneria sarebbe stata avvertita con tutta calma.
Perchè sfiorare il Giglio?
Non è inusuale per le navi anche di questa stazza passare vicino alle isole. Meno virate significa meno carburante consumato.
La rotta? La calcola il Gps. Così è successo anche in questo caso. Il problema è che questa volta la nave si è avvicinata alla costa “molto maldestramente”, insiste la Procura.
Anche perchè quando in plancia di comando hanno visto sfilare su un lato l’isola a un tiro di schioppo non è stato fatto niente per rimettersi a una distanza di sicurezza, finchè gli scogli delle Scole hanno aperto irrimediabilmente la gigantesca breccia nello scafo e l’acqua del mare ha fatto il resto.
Il comandante Schettino ha detto ieri, ai giornalisti, che quello scoglio sulle carte non c’è. Un’altra uscita improvvida, che avrebbe ripetuto.
Quegli scogli sono una meta arciconosciuta in tutta Italia dagli appassionati di immersioni.
C’è chi li paragona alle guglie del duomo di Milano e non solo perchè si alzano di molto dai fondali, ma anche come metafora simbolica.
Chi naviga nel Tirreno, in Toscana, non può non conoscere quegli scogli.
E non poteva non conoscerli il comandante che quella rotta l’ha fatta altre volte e che spesso, dicono alcuni testimoni, “si avvicinava al Giglio e faceva fischiare la sirena, come se dovesse salutare qualcuno”.
Gli equipaggi che partecipano alle manovre di navigazione di navi del genere (circa 200 persone su un totale di circa mille) e’ ritenuta generalmente di elevata professionalità .
Tuttavia il sospetto da parte degli investigatori è che anche questa volta fosse tutto in mano all’alta tecnologia e quindi al Gps che come tutte le macchine può pure sbagliare.
Fidarsi ciecamente del progresso e poco dei dubbi dell’uomo ha una volta di più tradito, come cent’anni fa sul Titanic.
Anche questa volta, come cantava De Gregori, la nave era “fulmine, torpedine, miccia, scintillante bellezza, fosforo e fantasia”, ma anche oggi ha fallito ed è complicato dare la colpa a uno scoglio.
Emiliano Liuzzi, David Marceddu, Antonio Massari e Diego Pretini
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
IN PRECEDENZA I CLIENTI DI CLASSE STANDARD POTEVANO CIRCOLARE IN SOLE TRE CARROZZE… “ASCOLTIAMO IL WEB”: L’ANNUNCIO SUL SITO DELL’AZIENDA… E SCOMPARE ANCHE LA FOTO DELLA FAMIGLIA DI IMMIGRATI
«A poco più di un mese dalla partenza del nuovo Frecciarossa 4 livelli, il servizio della carrozza bar/ristorante sarà disponibile a tutti i clienti».
Con un comunicato sul suo sito, Trenitalia fa marcia indietro rispetto alla decisione di restringere la circolazione a soli tre vagoni per chi ha un biglietto di classe Standard (la più economica), impedendo quindi l’accesso al bar.
Il caso, sollevato anche da Corriere.it, era rimbalzato sulla Rete, tanto che è la stessa azienda a titolare la nota: «Frecciarossa: Trenitalia ascolta il web, da domani bar aperto a tutti».
E a commentare il nuovo provvedimento: «Si tratta di una scelta commerciale adottata dopo questo primo periodo di sperimentazione e dopo aver raccolto i commenti e i suggerimenti dei viaggiatori, anche attraverso il web. Questo conferma la volontà di Trenitalia di offrire un servizio sempre più a misura di tutti e rispondente alle esigenze di un mercato in continua evoluzione».
Sulla Rete era scoppiata anche la polemica – con accuse di «razzismo» – a proposito della foto di una famiglia di immigrati usata da Trenitalia per illustrare i servizi della classe Standard.
Adesso anche quell’immagine appare cambiata: la famiglia è scomparsa e al suo posto restano solo sedili vuoti.
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
IL CASO DELLA MIALE DI FOGGIA, CEDUTA ALLA BNP PARIBAS E POI PRESA IN AFFITTO…DOPO SETTE ANNI LO STATO LA RIVUOLE SBORSANDO IL DOPPIO
«SPQR: Sono Pazzi Questi Risanatori», ridono i francesi di Bnp Paribas, facendo il verso ad
Asterix, se pensano a certe cartolarizzazioni all’italiana: traffico di coca e d’armi a parte, dove lo trovi un investimento che renda in 7 anni oltre il doppio del capitale come la caserma «Miale» di Foggia?
Una pazzia da manuale. O da inchiesta penale.
«Tesoro: immobili; no “svendopoli”, cambio d’uso per valorizzare», titolava l’Ansa il 23 agosto 2001 spiegando che Giulio Tremonti voleva risanare i conti a partire dalla vendita di migliaia e migliaia di edifici di proprietà pubblica come certi edifici militari nel quartiere Prati di Roma e tanti altri sparsi per la penisola.
Un anno dopo, un’altra Ansa spiegava che era in arrivo «la più grande cartolarizzazione mai fatta in Europa».
Si è trattato, in realtà , di due percorsi paralleli.
Uno seguito con l’obiettivo di vendere, nelle più rosee speranze, 90 mila immobili di vari enti pubblici e portato avanti attraverso la costituzione di un paio di società in Lussemburgo («Con un capitale di 10 mila euro, due fondazioni olandesi come azioniste e un cittadino scozzese di nome Gordon Burrows alla presidenza», rivelò l’Espresso ) dal nome sventurato (Scip: Società cartolarizzazione immobili pubblici) ideale per i titoli giornalistici sugli edifici «scippati». L’altro con la parallela dismissione di strutture militari.
Quale sia stato l’esito della prima operazione lo hanno spiegato varie inchieste giornalistiche («un saldo negativo di 1,7 miliardi») e il procuratore generale della Corte dei Conti Furio Pasqualucci. Il quale un paio d’anni fa, bollando il risultato come «poco lusinghiero» (disastroso, con parole non «magistratesi») invitò chi volesse insistere a pensarci settanta volte sette giacchè una nuova «alienazione deve essere attentamente dosata nel tempo e studiata in modo da conseguire risultati migliori di quelli derivanti dalle recenti cartolarizzazioni che a fronte di un portafoglio di 129 miliardi, ha fruttato ricavi per 57,8 miliardi, con un rapporto ricavi/cessioni pari al 44,7%».
Molto meno della metà .
Quanto alle caserme, il tragicomico esempio foggiano è illuminante.
Dovete dunque sapere che a Foggia, a due passi dalla facoltà di Giurisprudenza e a poche centinaia di metri dal cuore storico che ruota intorno alla cattedrale barocca della Beata Maria Vergine Assunta in cielo, c’è un grande edificio ottocentesco ancora in ottime condizioni, la «Caserma Miale da Troia».
Nelle foto dall’alto e su Google Maps è inconfondibile: è il palazzo più grande del centro cittadino.
Elegante, tre piani, si sviluppa su circa 16 mila metri quadri coperti e ha un cortile interno di altri 6.500, pari (si calcola com’è noto il 25%) a un totale di 17.625 metri quadri.
Valore? Altissimo, dice l’attuale proprietario trattando la vendita all’Università di Foggia: dove lo trovi uno spazio altrettanto grande e appetibile nel cuore del capoluogo?
Eppure grazie alla «cartolizzazione» tremontiana, quel proprietario, il Fondo «Patrimonio Uno» gestito dai parigini di «Bnp Paribas Rei Sgr», comprò poco più di sei anni fa quel ben di Dio (all’interno di un pacchetto con altri edifici) per una cifra intorno agli 11 milioni di euro. Pari, per capirsi, a circa 624 euro al metro quadro. Un affarone.
Affarone raddoppiato dalla decisione parallela del ministero degli Interni di prendere contestualmente in affitto la caserma venduta dal Demanio per poterci lasciare dentro la Scuola di polizia fino al 2023.
Canone concordato: un milione e 160 mila euro l’anno.
Facciamo i conti in tasca ai francesi?
Comprata per 11 milioni, la caserma avrebbe loro fruttato in soli 18 anni (un battito di ciglia, per una banca) la bellezza di quasi 21 milioni di affitti (per l’esattezza 20.880.000) dopo di che sarebbe rimasta comunque loro la proprietà rivalutata.
Rovesciamo le parti?
Lo Stato italiano fece la parte del giocatore impazzito che, rovinato dal demone febbrile della roulette o del poker, svende a un usuraio la casa in cui vive per prenderla poi in affitto a un canone stratosferico. Un delirio.
Ma l’ingloriosa avventura finanziaria della Miale non era ancora finita.
Due anni dopo (solo due anni!) aver firmato il contratto di vendita e di affitto, infatti, il Viminale ha deciso che la Scuola di polizia, lì dove stava, a quei prezzi, non gli serviva più. E l’ha chiusa.
Risultato: l’edificio è oggi utilizzato solo in minima parte (diciamo un dieci o al massimo un quindici per cento) per la mensa della Questura, per una foresteria di poche stanze e per le esercitazioni del poligono di tiro.
E intanto i cittadini italiani continuano a portare sul gobbo il canone stratosferico di 96.666 euro al mese: 3.178 al giorno.
A metterci una pezza, come dicevamo, è arrivata l’Università di Foggia.
La quale, come spiega il rettore Giuliano Volpe, il primo a essere scandalizzato per la vicenda, potrebbe trarre «enormi vantaggi dall’acquisizione di questa struttura (nelle immediate vicinanze delle Facoltà di Giurisprudenza e di Economia), per la sistemazione del Rettorato, dell’amministrazione centrale e poi di aule, laboratori, servizi agli studenti, residenze e così via».
L’altro ieri se ne è discusso al Cipe e grazie ai «fondi Fas» nell’ambito del «Piano per il Sud» pare che la cosa, per la quale anche Nichi Vendola si è speso molto, possa andare in porto.
Prezzo concordato per il «riacquisto» da parte dello Stato: 16 milioni e mezzo di euro.
Cinque e mezzo in più di quelli ricavati dalla vendita del 2005.
Ma poi, ammiccano i francesi fregandosi le mani, c’è da contare gli affitti incassati in questi sei anni e passa.
Facciamo cifra tonda? Sette milioni di euro di canoni.
Per un totale (16,5+7) di 23,5 milioni. Il doppio abbondante di quanto era stato investito.
Visto dalla parte nostra: abbiamo fatto la parte dei baccalà .
Ammesso, si capisce, che si sia trattato di baccalà sventurati ma in buonafede e non baccalà furbetti ingolositi da qualche «esca» inconfessabile…
E dopo aver visto svendere ai soliti «amici» attici a San Pietro da 113 mila euro e case al Colosseo da 177 mila e poi caserme come la Miale con le modalità descritte vogliamo venderci ancora i gioielli di famiglia?
O cambia tutto o mai più, così.
Mai più.
Gian Antonio Stella
(da “Il Corriere della Sera”)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
IL PARERE DI UNA OPINIONISTA, DI UN GIORNALISTA, DI UN ECONOMISTA E DI UN POLITOLOGO SUI PRIMI PASSI DEL GOVERNO MONTI
Barbara Spinelli: Il paradosso dell’europeista che non crede nell’Unione
Il rilancio di un’Europa sovranazionale, capace di vincere la crisi togliendo l’ultima parola ai mercati: Monti sembrava essersi dato questo compito primario.
Ha cominciato ad assolverlo, restituendo prestigio all’Italia. Ma qui s’è fermato. L’intervista di ieri alla Welt, pubblicata in parte da Repubblica, è sconfortante; non fa presagire l’intrepidezza che ci aspettavamo da chi si professava europeista.
Alla domanda del giornale (Dov’è finita l’utopia di Ventotene?) Monti risponde perentorio : “Son convinto che non avremo mai gli Stati Uniti d’Europa, non fosse altro perchè non ne abbiamo bisogno”.
È una brutta capitolazione, perchè se non ne abbiamo bisogno ora, quando?
È vero, “non sono più in gioco pace e guerra”.
Ma altre prove ci attendono, molto gravi.
Secondo Monti l’utopia è già realizzata, “grazie alla sussidiarietà ” (se lo Stato da solo non ce la fa interviene l’Unione, e viceversa).
Ma la sussidiarietà funziona se l’Europa ha una sovranità statuale: altrimenti non significa nulla. Non saremmo nella fossa, se l’Unione esistesse.
Monti non è europeista o blandisce Berlino e Parigi? Non è chiaro.
Non è comunque promettente: i mercati continueranno ad avere l’ultima parola.
Enrico Mentana: Il recinto sicuro: un profilo da salvatore della patria
In due mesi di uscite tutte calcolate, conferenze stampa, colloqui filtrati con i giornali e le due ospitate televisive (Vespa e Fazio), Monti ha mantenuto un profilo preciso.
A parte l’evidenza (pacatezza, ostentazione di competenza, tono volutamente asettico) c’è un sottotesto sempre presente, che si intreccia ad ogni risposta o considerazione e si può riassumere in due frasi che Monti non pronuncerà mai: “Non sono Berlusconi”, e “Sono stato chiamato per salvare la baracca”.
Razionalmente o no, tutti noi fin da subito abbiamo confrontato il nuovo premier con il predecessore: operazione inevitabile, ma pericolosa perchè ne relativizza i contenuti.
La maggior parte degli italiani coglie i vantaggi del paragone, la minoranza nostalgica ne evidenzia i punti di debolezza.
Quasi nessuno si sottrae al doppio riflesso condizionato: le misure sono dolorose ma condivisibili, perchè servono a espiare le malefatte del Cavaliere, e quindi ne sottolineano ancora una volta la negatività ; le misure sono durissime e inefficaci, e confermano che il problema non era “Lui”.
Resta da conoscere ancora il vero Monti, quello che prima o poi risponderà a una domanda “vera”, quando uscirà (se uscirà ) dal recinto protetto.
Sandro Trento: Salva-Italia, pochi tagli ma rivoluzione vera
A fronte dell’immobilismo del governo Berlusconi nei tre anni precedenti, colpisce la rapidità e il coraggio di Monti.
La manovra “salva Italia” vale circa 40 miliardi di euro (2012-2014). 21,4 miliardi per la riduzione del deficit e quasi 19 miliardi per il rifinanziamento di spese indifferibili e di interventi di stimolo dell’economia.
Il difetto principale è che è una manovra sbilanciata fatta da maggiori entrate (27 miliardi) e pochi tagli alle spese (12,9 miliardi). Troppe tasse.
Ma si tratta di misure strutturali, niente una tantum, nè condoni, nè operazioni di “contabilità pubblica creativa”.
A regime, l’Italia avrà un avanzo primario di 5 punti di Pil, molto più degli altri paesi europei.
È consentito dire che l’Italia ha fatto la sua parte.
Gli italiani hanno dimostrato che sono disposti a fare sacrifici se c’è un quadro credibile di risanamento del Paese.
Straordinario il fatto che si sia realizzata una robusta riforma del sistema pensionistico senza scioperi e proteste.
Il sistema di calcolo contributivo si applica ora a tutti i versamenti pensionistici, secondo lo schema “pro rata” e in pensione a 66 anni dal 2018.
L’Italia non ha più un problema pensionistico. Importante anche il ripristino di una imposta sui patrimoni: l’Ici sugli immobili.
Ora serve più coraggio sull’equità e sulla crescita.
Gianfranco Pasquino: Abile e inattaccabile, altro che premier tecnico
Politico per caso”? Certamente, no. Quando un professore di Economia riesce a sopravvivere per dieci anni come Commissario europeo e ne esce apprezzato sia dai tedeschi che dagli inglesi, qualche dote politica deve possederla.
Austero e algido, ma non privo di un sottilissimo sense of humour, Monti segnala, persino con un po’ di civetteria, la sua distanza, non dalla politica, ma dai politici, quei sedicenti “professionisti” che non sanno fare le riforme e non capiscono l’economia.
Il suo modo di trattare i partiti, tenendoli a distanza e i parlamentari, riconoscendo che da quei voti (e da quei malumori) il suo governo dipende, è un’altra indicazione convincente che Monti ha imparato che la politica consiste prima di tutto nel sopravvivere.
La sua sopravvivenza, senatore a vita, è comunque assicurata.
Neanche la sua autonomia e la sua indipendenza di giudizio corrono rischi.
Nei suoi confronti, i “poteri forti” possono tentare pressioni più o meno improprie, ma il prestigio di cui gode in Europa, la stima della sua comunità accademica e professionale, il sostegno del presidente della Repubblica lo rendono inattaccabile. Monti può essere sminuito come “tecnico” soltanto dai politici incompetenti.
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
NELL’AZIENDA DI SESTO CALENDE CHE LAVORA PER LA SWATCH I LAVORATORI RIFIUTANO LA PROPOSTA DEL CICLO CONTINUO
Lavoro domenicale? No grazie. 
Le commesse aumentano e l’azienda ha bisogno di produrre di più ma gli operai rifiutano l’accordo aziendale che introduce il ciclo continuo, anche se questo avrebbe significato l’assunzione per sessanta lavoratori precari.
Succede alla Lascor di Sesto Calende, azienda specializzata nella produzione delle casse degli orologi di fascia alta che fa capo al gruppo svizzero Swatch.
Gruppo che conferma il proprio buon momento con prospettive di forte crescita per il 2012. Una situazione insolita in tempo di crisi, che ha prodotto un risultato inaspettato e per certi versi opposto a quanto visto esattamente un anno fa nel caso Mirafiori.
Nel gennaio del 2011 i lavoratori della Fiat avevano accettato un accordo che prevedeva clausole peggiorative nella quasi totalità delle sue componenti.
Meno tutele per il diritto di sciopero, niente pagamento per i primi due giorni di malattia e nessuna traccia di investimenti.
Un accordo criticato pesantemente dalla Fiom Cgil, passato invece alla prova dell’urna con il voto favorevole del 54% dei lavoratori. In quel momento sullo stabilimento incombeva lo spettro della cessazione, della chiusura.
Così nella fabbrica torinese alla fine la prospettiva di salvaguardare il posto di lavoro aveva prevalso sulla legittima volontà di mantenere in essere i diritti acquisiti.
Alla Lascor di Sesto Calende la prospettiva è esattamente ribaltata.
Gli orologi svizzeri vendono più delle auto italiane.
C’è un gran bisogno dei prodotti che vengono realizzati nello stabilimento varesino e l’azienda si è trovata a dover far fronte per il secondo anno consecutivo ad una richiesta crescente di commesse.
Così partono le trattative con i sindacati e dopo qualche mese l’accordo è pronto: investimenti per 11 milioni di euro, ciclo continuo con quattro giorni di lavoro e due di riposo (solo nei reparti ad elevato uso di macchinari) in cambio di aumenti salariali tra i 300 e i 400 euro, oltre alla stabilizzazione di un cospicuo numero di lavoratori, una sessantina tra i circa 150 che ancora non hanno un contratto a tempo indeterminato.
Un accordo che sembrava poter soddisfare tutti, ma che è stato bocciato dal referendum aziendale di mercoledì che ha dato un esito sbalorditivo: hanno vinto nettamente i No. Alle urne si sono presentati 433 dei 530 dipendenti, 264 hanno votato “No” e solo 158 hanno approvato la proposta.
La dirigenza aziendale non ha il permesso di rilasciare dichiarazioni, men che meno sul fallimento dell’accordo.
Ma si intuisce lo stupore per un’iniziativa che sembrava potesse soddisfare tutti, anche perchè il rischio è che la casa madre si rivolga a un altro produttore e “una volta che una commessa è andata non si torna più indietro”.
Fuori dai cancelli, al cambio turno, il fronte del “No” rifiuta le critiche e si difende: “Adesso ci vogliono far passare come quelli che affossano i precari, ma non è così. Non diciamo fesserie”.
Ma quando si cerca di capire le ragioni che hanno spinto a fare una scelta in controtendenza con il periodo storico e con le esigenze aziendali, non si ottengono risposte.
Qualcuno a mezza voce azzarda: “Probabilmente c’è una parte sindacale a cui il compenso economico è sembrato troppo basso”.
Sullo sfondo di questo strano risultato l’ombra di una replica in chiave varesina di quanto già visto accadere altrove, con la Fim Cisl e la Fiom Cgil schierate su due fronti contrapposti: “Non trovo spiegazioni a questo esito se non nell’atteggiamento della Fiom che per mesi ha detto no a questo accordo, salvo poi dire sì a dicembre, dopo aver perso un proprio delegato” è stato il commento che Giuseppe Maraco (Fim Cisl) ha affidato al quotidiano locale La Provincia di Varese, ma la Fiom non vuole addossarsi la responsabilità della bocciatura: “L’atteggiamento della Fiom non c’entra — ha dichiarato Francesca De Musso -, certo non ci aspettavamo questo risultato. Pensavamo che i lavoratori avessero capito l’importanza di questo accordo ma bisogna rispettarne la volontà , siamo aperti ad altre possibilità ”.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
IL DIETROFRONT DEL GOVERNO SULLA SEPARAZIONE TRA ENI E SNAM
Basterà la politica della concorrenza a ridurre i prezzi dell’energia elettrica e del gas, cruciali per il rilancio dell’economia, o ci vuole dell’altro?
La risposta è: certo, ben venga più concorrenza, ma senza una forte politica industriale non andremo da nessuna parte.
E a dettarla non saranno nè l’Antitrust nè l’Autorità per l’energia.
Dettarla toccherà al governo, azionista di Eni, Enel e Terna e autorevole suggeritore delle maggiori ex municipalizzate, stabilire chi fa che cosa.
Il settore elettrico è già stato liberalizzato.
Dall’ex monopolista Enel viene oggi solo il 28% della produzione nazionale, tre concorrenti (le ex municipalizzate A2A e Iren, Edison e l’Eni) stanno sopra il 10%, il resto è frazionato tra soggetti comunque forti, spesso legati a operatori esteri.
La Borsa elettrica è decente.
La rete degli elettrodotti in alta e altissima tensione è stata affidata a Terna, una società indipendente, controllata dalla Cassa depositi e prestiti.
E Terna ha quintuplicato gli investimenti, grazie alla libertà dall’Enel e alla remunerazione in tariffa, generosa, ma non superiore alla media europea del 3%.
Eppure, l’energia elettrica resta più cara della media europea tranne che per le famiglie a bassi consumi e le imprese energivore, cui vanno 1,3 miliardi di sussidi pagati dagli altri consumatori.
Per le altre famiglie la bolletta è più alta del 12%, al lordo delle imposte, per le imprese del 26%. Il fatto è che l’Italia dilapida sussidi e usa le fonti più costose.
Ha chiuso il nucleare prima di ammortizzare le centrali atomiche, anticipando di decenni gli oneri miliardari di smantellamento.
Nel 1992 ha varato il Cip 6 che, per le fonti assimilate (il gas trattato come una fonte rinnovabile), finirà per costare 20 miliardi di euro di incentivi in bolletta, lungo i 15-20 anni di esercizio.
Nel 2007, l’Autorità , presidente Alessandro Ortis, riuscì a imporre un taglio di 600 milioni l’anno interpretando in modo rigoroso la componente tariffaria del costo evitato di combustibile.
Ma è durata due anni. Poi, il consiglio di Stato ha accolto i ricorsi dei grandi gruppi, che avevano fatto incetta delle risorse pubbliche. È dunque in arrivo la stangata di ritorno.
Nel 2012 stanno andando a regime gli aiuti alle rinnovabili, 160-170 miliardi nel trentennio 2005-2034, con una concentrazione in questo decennio.
Un salasso in bolletta senza nemmeno costruire una forte industria manifatturiera nazionale di settore come, invece, si è fatto prima in Germania e poi in Cina.
L’ex ministro dell’Industria, Alberto Clò, calcola che nei 12 mesi compresi tra il settembre 2010 e l’agosto 2011 le importazioni di apparati per il fotovoltaico siano ammontate a 11 miliardi, mangiandosi un quinto del saldo manifatturiero.
Se si rapporta questo deficit all’energia utile prodotta, dice ancora Clò, l’equilibrio economico si avrebbe con il petrolio a 670 dollari il barile, che salirebbero oltre i mille aggiungendo i sussidi di cui sopra. Nel 2011 la media del barile è stata di 111 dollari.
Che può fare la concorrenza davanti agli errori di politica industriale? Può il governo limitarsi a dire pacta sunt servanda ?
Magari deve, ma perchè per taxi e pensioni non lo sono?
D’altra parte, l’altra causa dell’alto prezzo dell’energia è il gas, che sale per ragioni in apparenza misteriose.
Oggi sul mercato spot all’ingrosso al valico del Tarvisio costa 32 euro al MWh (come ora si misura anche il gas) contro i 23-24 al confine austro-slovacco di Baumgarten. Il tubo è lo stesso, il gas russo idem.
La differenza di prezzo dà margini all’Eni, dominus delle importazioni all’ingrosso, e copre qualche perdita sui contratti take or pay .
L’Eni ha ceduto la sua quota di questa infrastruttura estera alla Cassa depositi e prestiti: la Ue l’aveva costretto a disfarsene. Ma ha conservato i diritti di passaggio.
E così i tubi sono solo parzialmente saturati. Secondo la Ref-E di Pia Saraceno, il Tag, il gasdotto che viene dalla Russia, è sfruttato al 68% nel 2011, il tubo algerino al 60%, quello libico al 20%, il tubo dall’Olanda al 50%.
Colpa anche delle rivolte in Tunisia, del conflitto in Libia e delle frane sulle Alpi, ma anche l’anno prima l’infrastruttura era andata a scartamento ridotto. E il rigassificatore di Panigaglia funziona al 40%.
Se le infrastrutture e i diritti di passaggio fossero gestiti da una Snam Rete Gas indipendente, anzichè controllata dall’Eni, sarebbero forse utilizzati più intensamente. D’altro canto, oggi la rete è sufficiente e addirittura abbondante perchè l’economia è ferma e i consumi di gas sono regrediti, ma con la ripresa e i consumi a 100 miliardi di metri cubi si rischia di nuovo la strozzatura.
La separazione delle reti dal servizio non è un dogma di fede. Dipende dalla tecnologia e dai conti.
Nel gas è utile o no? Paolo Scaroni, capo dell’Eni, si dice possibilista da un paio d’anni. Ma preferisce la soluzione dell’ unbundling , l’affitto controllato della rete consentito dalla Ue. Il governo Monti e l’Antitrust di Pitruzzella sembravano voler fare di più.
E così erano addirittura cominciati gli esercizi per individuare soluzioni.
Dalle parti di Terna si era addirittura ipotizzata la possibilità di acquistare dall’Eni il 29,9% di Snam Rete Gas, così da evitare l’Opa.
L’idea di una società unica delle reti energetiche presenta sinergie limitate sul piano industriale, più interessanti su quello finanziario.
Sulla carta Terna verserebbe 3-4 miliardi all’Eni che, con l’occasione, potrebbe ricavarne altri 2,5 cedendo ad terzi anche il 22% residuo e potrebbe infine deconsolidare 11 miliardi di debito.
Un beneficio consistente, utilizzabile sia per remunerare i soci (tra cui il Tesoro) sia per aumentare gli investimenti nel settore minerario, il core business del cane a sei zampe. Terna potrebbe finanziarsi senza chiedere nulla ai soci ma cedendo a fondi infrastrutturali parti della sua rete, una volta che l’Autorità ne abbia fissato il rendimento, e tuttavia conservandone la gestione.
Poi potrebbe sostenere gli investimenti di Snam ricollocandone le attività commerciali come Italgas.
Ma questo è altri progetti sono al momento destinati a restare mere esercitazioni. Il governo Monti ha fatto marcia indietro e l’Antitrust, ieri, si è allineata.
Per il sottosegretario Antonio Catricalà , il caso Snam non è una priorità ; esistono altre soluzioni per le imprese energivore.
Ma, scrive Diego Gavagnin sul Quotidiano Energia , «di altri rimedi ne esiste uno solo: far pagare di più agli altri».
Massimo Mucchetti
(da “Il Corriere della Sera”)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
LE COOP ROSSE INVESTONO CENTINAIA DI MILIONI IN UN’AZIENDA IN STATO PREFALLIMENTARE… PENALIZZATI I PICCOLI RISPARMIATORI, ULTIMA PAROLA ALLA CONSOB
Mettetevi nei panni di un piccolo azionista di Fonsai. 
Negli ultimi tre anni ha visto precipitare il valore delle sue azioni del 90 per cento.
Nel 2011 non ha ricevuto il dividendo e non incasserà la cedola nemmeno nel 2012. La primavera scorsa è stato chiamato a sottoscrivere un aumento di capitale per evitare il dissesto della compagnia.
Niente da fare, la società è arrivata comunque al collasso. Ma c’è una luce in fondo al tunnel. Ecco un compratore.
C’è l’Unipol, pronta a comprare il gruppo fin qui gestito da Salvatore Ligresti.
Finalmente un piccolo risarcimento, penserà il nostro azionista Fonsai.
Arriverà un’offerta pubblica d’acquisto rivolta a tutti gli azionisti. E invece no, niente Opa.
Non è prevista nel piano studiato da Mediobanca e Unicredit per mettere in sicurezza la compagnia in crisi e soprattutto i loro crediti verso i Ligresti.
Peggio: i soci di Fonsai dovranno presto sottoscrivere un altro aumento di capitale. Non è ancora finita: c’è anche la beffa. Mentre i risparmiatori pagano i costi del salvataggio, la famiglia Ligresti si defila con una buonuscita che si aggira sui 77 milioni.
Di più: la compagnia bolognese è disposta a riconoscere 700 mila euro l’anno per cinque anni a Salvatore Ligresti e ai suoi eredi Giulia, Jonella e Paolo come compenso per un patto di concorrenza.
Fin troppo facile ironizzare sulla pericolosa concorrenza che potrebbe arrivare da una famiglia che è riuscita a demolire un colosso come Fondiaria.
Storia finita? Tutto deciso? No, ancora no.
L’ultima parola spetta alla Consob, che potrebbe imporre a Unipol il lancio dell’Opa su Fonsai. In questo caso la compagnia delle Coop ha già dichiarato che farebbe marcia indietro. Mediobanca e Unicredit sarebbero costrette a cercare un altro compratore, ma quantomeno ai piccoli azionisti di Fonsai sarebbe risparmiato l’ennesimo affronto, quello di dover pagare per l’ennesima volta per i guai combinati da altri.
Resta da vedere, adesso, che cosa deciderà il presidente della Consob, Giuseppe Vegas e gli altri quattro commissari.
C’è un precedente. Anzi, ce ne sono due.
Nel maggio scorso la Commissione decise che non c’era obbligo di Opa quando con l’aumento di capitale di Fonsai e della controllata Milano, il creditore Unicredit rilevò una quota del 6,6 per cento della stessa Fonsai.
All’epoca la banca stipulò anche un patto parasociale con Premafin, la holding dei Ligresti.
“Si tratta di un salvataggio aziendale”, spiegò all’epoca la Consob e quindi, in base all’articolo 49 del regolamento emittenti, l’Opa non è obbligatoria. In sostanza, senza i soldi dell’aumento di capitale la compagnia rischia il crac. Di conseguenza la tutela dei piccoli azionisti avviene con il salvataggio della società più che con un’eventuale offerta pubblica.
Qualche mese prima però la Consob si regolò in modo diverso quando furono i francesi di Groupama a farsi avanti per entrare con il 17 per cento nel capitale di Premafin in accordo con i Ligresti.
“Opa obbligatoria su Premafin e anche su Fonsai”, deliberò la Commissione, perchè cambia il controllo del gruppo.
Adesso Unipol, dopo aver rilevato le azioni Premafin dei Ligresti per circa 77 milioni, sarebbe pronta a lanciare un’Opa solo sulla holding, ma non sulle controllate Fonsai e Milano assicurazioni.
Entrambe rischierebbero il fallimento senza aumento di capitale, che è stato richiesto dall’Isvap, l’Authority delle assicurazioni. Si tornerebbe così nella situazione della scorsa primavera quando la Consob esentò Unicredit dall’Opa.
C’è quindi la possibilità concreta che Vegas decida di dare via libera all’operazione senza offerta pubblica.
E questa, davvero, sarebbe la beffa definitiva per i piccoli azionisti di Fonsai.
A giochi fatti, gli unici a uscire di scena con le tasche piene sarebbero i Ligresti, a cui Unipol è pronta a pagare 0,36 euro per ogni azione Premafin.
Un’offerta a dir poco generosa, visto che negli ultimi mesi la holding ha viaggiato in Borsa con una quotazione compresa tra 0, 10 e 0, 25.
Quotazioni comunque generose se si pensa che Premafin all’attivo può vantare la quota del 35 per cento in Fonsai che ai prezzi di Borsa vale un centinaio di milioni, mentre al passivo ci sono oltre 300 milioni di debiti con le banche. In altre parole Premafin si trova in uno stato prefallimentare.
Unipol però fa finta di niente.
Anzi, valuta la holding oltre 150 milioni, ne gira 77 ai Ligresti e il resto andrà a pagare le azioni acquistate in sede d’Opa.
Va ricordato che tra i beneficiati dell’offerta ci saranno anche i misteriosi soci di Premafin, forti di quasi il 20 per cento, schermati da società off shore.
Non c’è da sorprendersi, allora, se nel movimento cooperativo siano molte le perplessità sull’accordo per l’acquisizione di Fonsai.
Tra l’altro, in base ai piani annunciati, la stessa Unipol aumenterà il capitale di una somma forse superiore ai 700 milioni.
Come dire che le coop socie dovranno investire decine di milioni nel salvataggio Fonsai.
Un prezzo ritenuto troppo alto da molti manager delle cooperative, soprattutto se una parte di quei soldi serve a pagare la buonuscita ai Ligresti.
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Gennaio 15th, 2012 Riccardo Fucile
PRIMA METTE IL BAVAGLIO A MARONI, POI E’ COSTRETTO A UN’INTERVISTA RIPARATORIA SU “LA PADANIA” DI OGGI: “NESSUN VETO, LA LEGA E’ UNITA”… IN REALTA’, DI FRONTE ALL’INSURREZIONE DELLA BASE, IL CERCHIO MAGICO HA DOVUTO RINVIARE LA RESA DEI CONTI
Roberto Maroni sfida il veto di Umberto Bossi e annuncia la sua presenza a Che Tempo che fa e all’assemblea di Libera Padania, al teatro Santuccio di Varese mercoledì.
“Certo che vado, l’hanno organizzato per me”, ha detto l’ex ministro dell’Interno che, sul suo profilo Facebook, ha rilanciato il link dell’appuntamento.
La presa di posizione e la vera e propria rivolta interna, generata dalla decisione di mettere il bavaglio all’ex titolare del Viminale, hanno costretto in serata Bossi a inserire la marcia indietro: oggi su La Padania uscirà la capriola con cui il Capo garantisce che non c’è alcun veto su Maroni.
Oplà , il doppio carpiato di via Bellerio è servito.
“Nessun veto, presto faremo un comizio insieme”, garantisce Bossi.
Lo stesso che appena ieri sera aveva firmato il fax con cui vietava a Maroni di partecipare ad appuntamenti politici a nome della Lega.
L’anticamera dell’espulsione, così come accadde nel 1996 con Irene Pivetti: prima azzittita e poi, dopo tre mesi, cacciata dal partito.
Ma la reazione della base leghista e di una buona parte degli amministratori locali ha spinto il Senatùr a tentare di buttare acqua sul fuoco, anche in vista della manifestazione prevista per domenica 22 a Milano che si annunciava a dir poco disastrosa.
La Padania in edicola rassicura: i due si sono sentiti, è tutto a posto. Ovviamente.
La manifestazione del 22 gennaio a Milano è in testa alle priorità del Carroccio.
‘Contro il governo Monti, e a favore della libertà della Padania”, prosegue il quotidiano. “Questo non è il momento delle polemiche’, spiega il segretario federale. ‘Chi spera in una Lega divisa e dà ascolto a intermediari confusionali rimarrà deluso, commenta Bossi, che ha fatto sapere che non vi sono veti alla partecipazione di Maroni ai comizi sul territorio e che presto ne terranno uno insieme -spiega ancora il quotidiano del Carroccio-. ‘
Ancora una volta -scrive ‘la Padania- i vecchi amici si sono dati la mano, convinti più che mai che la Lega sia molto più importante di beghe e contestazioni infondate”.
Maroni conferma la telefonata.
E all’Ansa dice: “Ora spero che si chiarisca”.
In realtà , a spingere il leader del Carroccio a tornare sui suoi passi sono stati la ribellione della base leghista a favore di Maroni: dopo il veto alle apparizioni pubbliche di Maroni, sarebbero stati subito una cinquantina gli inviti rivolti all’ex ministro dell’Interno da parte di segreterie provinciali, da sindaci e da sezioni, affinchè ignorasse il divieto.
Il cerchio magico ha così deciso di rinviare la resa dei conti: la farsa padana continua.
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