Destra di Popolo.net

AUTO BLU CANCELLATE PER DECRETO, REINSERITE CON UN BANDO

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

VIA LIBERA ALL’ACQUISTO DI 400 NUOVI VEICOLI: 10 MILIONI DI EURO PRONTI PER LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI, CON IL LIMITE DI 1.600 CC DI CILINDRATA E ZERO OPTIONAL… MA SPUNTA L’OPZIONE DI AUTO “BLU MINISTERIALE”

Le auto blu, uscite dalla porta, rischiano di rientrare dalla finestra.
Il governo con un decreto ha deciso la stretta sui veicoli in uso alle pubbliche amministrazioni stabilendo tetti nella spesa, nuove regole per l’uso e per l’acquisto.
Ma dieci giorni dopo il ministero dell’Economia lancia un bando per acquistarne 400 nuove di zecca, personalizzabili con vari colori compreso un bel “blu ministeriale”.
Il tutto per la modica cifra di 10 milioni di euro.
L’incoerenza della politica, a quanto pare, non risparmia il governo dei tecnici.
Era il 13 dicembre quando il consiglio dei ministri dichiarava guerra al fenomeno, tutto italiano, delle auto di rappresentanza e di servizio in uso presso le amministrazioni pubbliche, centrali e periferiche.
Nel mirino non solo le auto blu ma tutto il parco dei mezzi in dotazione presso enti, comuni, province e regioni che secondo un censimento ancora in corso sarebbero oltre 70mila.
Un segnale importante per gli italiani in un momento in tempi di nuovi sacrifici, aumenti delle tariffe e liberalizzazioni.
“Stop all’auto blu come status symbol” è il messaggio che passa sui giornali.
Ma ecco che il 24 gennaio, sul sito del Ministero dell’economia e sul portale Aquistinretepa.it, compare un bando nel quale si annuncia proprio il contrario, cioè la disponibilità  a comprare altre 400 vetture per le amministrazioni che ne faranno richiesta.
La base d’asta per le imprese fornitrici è di 9.571.000 euro e il termine per le loro offerte è fissato l’8 marzo.
Le cilindrate oggetto della gara sono tutte inferiori a 1600 cc con standard minimi di equipaggiamento (climatizzatore, abs, controllo di trazione e stabilità  elettronici e ovviamente airbag) e accessori facoltativi ed “extracapitolato” come sensori di parcheggio e pressione pneumatici, sistema start&stop.
Gli acquisti saranno effettuati tramite il sistema centralizzato di gestione Consip in base alle diverse esigenze che perverranno dalle amministrazioni senza limitazioni.
Potranno aderire amministrazioni pubbliche senza distinzioni, centrali e periferiche, enti locali e territoriali, corpi di polizia, vigili del fuoco, Asl e così via.
Potrebbe essere una buona notizia per le forze dell’ordine che da anni lamentano un parco veicoli ormai obsoleto e insufficiente.
Ma da una vocina del capitolato si riaffaccia il rischio che, alla fine, anche chi vorrà  far man bassa di auto blu avrà  la strada spianata.
A leggere la documentazione allegata, le note tecniche e tutto il nutrito materiale del bando si precisa infatti che sono compresi colori base, come il grigio, e “colori di istituto”.
Così tra il verde “vem” per le vetture militari e il rosso “ral” per i vigili del fuoco ecco che spunta anche un bel “blu ministeriale”.
Il bando precisa poi che gli interni sono standard.
Non tutti però, perchè l’amministrazione potrà  fare richiesta al fornitore di allestimenti diversi e aggiungere a sue spese “interni di pregio”, con relativi costi a proprio carico.
Insomma, la versione base è compresa, se vuoi quella elegante a scopo di rappresentanza devi metterci del tuo.
Che poi è sempre il nostro, perchè che a pagare sia l’amministrazione centrale o quella periferica, sempre di soldi pubblici si tratta.
La notizia stupisce per varie ragioni.
A partire dal fatto che solo dieci giorni fa il governo ha approvato con apposito decreto il taglio alle auto di servizio.
L’annuncio è stato riportato con enfasi e titoli a sei colonne: “Adesso tocca alle auto blu. Parola di governo”.
In realtà  la stura alle auto di Stato non riguarda solo quelle blu che sono la pietra dello scandalo antico, ma tutte quelle in servizio alle amministrazioni e a carico del pubblico che dal punto di vista economico incidono in modo molto maggiore.
Così il decreto del 13 gennaio si abbatte su amministrazioni centrali dello Stato ma anche su comuni, province e regioni ed enti. Nessuno si salverebbe.
Il testo, messo a punto dal ministro Patroni Griffi, si propone dunque di sfrondare l’intero parco mezzi ma cerca anche di dare una regolata al loro uso, limitando quello di rappresentanza a poche categorie ben individuate.
“L’auto sarà  concessa al ministro ma non al direttore generale, al sindaco ma non agli assessori o al segretario comunale”, spiegava lo stesso ministro Griffi.
Che prometteva anche maglie più strette per i controlli e per la verifica degli acquisti eliminando la possibilità  per le amministrazioni di comunicare entro trenta giorni l’acquisto effettuato al Dipartimento della funzione pubblica.
D’ora in poi, dice il decreto, la segnalazione deve essere immediata.
Ma a frenare gli entusiasmi è un dettaglio non da poco.
Il taglio, infatti, non scatta subito come molti vorrebbero.
E il motivo è che — nonostante gli sforzi compiuti — ancora oggi non si sa neppure quante siano le auto blu in Italia.
Il ministero ha infatti avviato un censimento già  lo scorso anno tramite il Formez ma i dati finora pervenuti sono solo parziali: al censimento hanno risposto 5.600 amministrazioni per un conteggio di 50mila auto e all’appello mancano ancora 2.500 amministrazioni, il 30% del totale.
Così, da una parte e si ipotizza un parco superiore ai 70mila veicoli e dall’altro si rimanda la stretta a quando si avranno dati completi, utili anche per capire cosa fare delle vetture in eccesso (per le quali il governo ipotizza una vendita all’asta).
Il punto è che nell’interludio tra nuove e vecchie regole, non è scattato l’auspicato stop agli acquisti.
Anzi, mentre il governo prendeva provvedimenti per riportare la spesa delle quattro ruote sotto controllo già  si preparava il bando procedere a nuovi acquisti.
La notizia causerà  qualche malumore anche perchè il decreto del governo è stato accompagnato da un corredo di dati e di episodi non proprio “illuminanti” sulla diffusione e sull’uso dell’auto blu.
Si è scoperto ad esempio che le vetture in uso esclusivo sono 1.737, 1.692 e 44.356 quelle di servizio.
Nell’Italia che fa i conti con il rischio default la media di vetture di rappresentanza è di 2,6 ogni centomila abitanti, molto superiore a quella di paesi europei dall’economia meno disastrata. Solo la Lombardia, capofila tra le regioni, ha 200 vetture con uso esclusivo, 230 non esclusivo e 7.100 di servizio.
Non si capisce come facciano ad andare avanti le amministrazioni di Liguria, Molise, Basilicata, Calabria e Trentino che, tutte insieme, non arrivano a tanto.
E al censimento mancano ancora le dotazioni ministeriali, cosa non di poco conto se si pensa che solo il Ministero della Difesa ne conta 700 (oltre alle 9 Maserati blindate fonte di tante polemiche).
La pubblicazione dei primi dati è stata poi accompagnata da un poco edificante corredo di aneddoti e cronache circa l’uso disinvolto che si fa di questo patrimonio pubblico su gomma: il Messaggero Veneto, ad esempio, ha pizzicato il presidente del consiglio regionale a scorrazzare in lungo e in largo per il Friuli tra partite di calcio e impegni private.
L’ultima la racconta l’Espresso e riguarda l’assessore siciliano Gaetano Armao che cede l’Audi 6 regionale alla fidanzata.
L’autista, pagato dai contribuenti, va a prenderla sotto casa e attende la fine dello shopping, poi la riaccompagna alla sua abitazione.
Dettaglio: lei si chiama Lara Bartolozzi, è un magistrato della sezione fallimentare del Tribunale di Palermo e come tale è sicuramente edotta di cosa significa l’espressione abuso del bene pubblico.

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DOPO LA PENSIONE ARRIVA LA SUPERCONSULENZA: L’ELDORADO DEI BOIARDI DI STATO

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

DALLA FARNESINA AL TESORO: CAMBIANO I GOVERNI MA LORO RESTANO…COSTI ESORBITANTI PER INCARICHI SEMPRE RICOMPENSATI A SUON DI GETTONI O INDENNITA’ DA MIGLIAIA DI EURO

L’Eldorado dei pensionati si chiama Farnesina.
Difficile che un diplomatico, figurarsi un ambasciatore uscito di ruolo, vada ai giardinetti. Ma a far passeggiare i nipotini non ci pensano nemmeno sovrintendenti e dirigenti di prima fascia dei Beni culturali.
Per non dire dell’Economia o dell’Istruzione.
Per tutti o quasi, una scialuppa di salvataggio sotto forma di poltrona da consulente o consigliere o presidente di una società  o un istituto alle dirette dipendenze del dicastero di provenienza.
Poltrona solida e a prova di tempesta: non c’è cambio di governo che tenga, da Prodi a Monti passando per Berlusconi, i boiardi di Stato sono sempre li.
E sono ovunque. È l’altra faccia dei costi, stavolta di una burocrazia politicizzata e tentacolare.
Costi esorbitanti, per incarichi sempre ricompensati a suon di gettoni o di indennità  da migliaia di euro.
Da sommare alla pensione d’oro che per i dirigenti di prima fascia non scende mai sotto i 100 mila euro l’anno.
Per tutti loro, presidenze di società  pubbliche o istituti con sigle da addetti ai lavori, da Ales a Ispi, passando per la più nota Sviluppo Italia, ruoli da commissari e stuoli di consulenze.
Chissà  se la cura Monti arriverà  anche lì. A giudicare dalle premesse (e dalle ultime conferme), pare di no.
Se esistesse una lista dei pensionati “riciclati”, in testa ci sarebbe l’ex ambasciatore Umberto Vattani.
Nato 74 anni fa, padre di Mario – l’ormai ex console di Osaka richiamato dal ministero degli Esteri dopo il video sulle prestazioni “fascio-rock” – viene nominato presidente dell’Istituto del commercio estero appena in quiescenza nel 2009, per approdare poi nel novembre scorso alla presidenza di Sviluppo Italia Sicilia, spa con 84 dipendenti che fa capo alla Regione del governatore Lombardo.
E siccome il tetto fissato dalla giunta per quel genere di incarichi è di “appena” 50 mila euro l’anno – modesto gettone a fronte del curriculum e del prestigio dell’ambasciatore – pochi giorni dopo il conferimento, lo stesso presidente della Regione nomina Vattani anche “esperto di diritto commerciale e societario”, per un compenso di 43.900 euro (lordi) l’anno.
L’anziano diplomatico presiede al contempo il cda della fondazione Italia-Giappone.
È solo il primo di un lungo elenco.
Giovanni Castellaneta, ex ambasciatore tra l’altro a Washington e Teheran, già  nel cda di Finmeccanica, dal settembre 2009 è presidente della Sace, controllata del ministero dell’Economia.
L’ex ambasciatore a Mosca e Londra ed ex Segretario generale dell’Osce, Giancarlo Aragona, dal 15 novembre scorso è presidente dell’Ispi, l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, struttura autonoma che fa capo alla Farnesina ma con tanto di assemblea dei soci. E di gettoni.
Un altro diplomatico in pensione dal 2008 ma in piena attività  è Francesco Olivieri, responsabile della sede Washington Dc di Enel.
E ancora, Federico Di Roberto, ambasciatore in riposo e consigliere per gli Affari internazionali del governatore della Liguria, Claudio Burlando, Maria Grazia Di Branco, dirigente in pensione (consulente del Cerimoniale agli Esteri) oggi commissario governativo delle Expo internazionali Yeosu (Corea del Sud) e Venlo (Olanda) 2012. Direttore amministrativo delle medesime Expo, è Salvatore Cervone, ex dirigente generale della Funzione pubblica e ex segretario generale Cnel.
Sono solo alcuni tra i tanti. Mentre Rita Di Giovanni, dirigente di prima fascia alla Farnesina, è ora presidente del Cug, il Comitato unico di garanzia dello stesso ministero.
Ad accomunare i destini di boiardi e superburocrati è dunque l’impermeabilità  ai cambi di governo.
Pubblica istruzione e Beni culturali non temono confronti. Maria Grazia Nardiello, in quiescenza da direttore generale per l’Istruzione post secondaria, adesso è a capo della segreteria della nuova sottosegretaria all’Istruzione, Elena Ugolini (estrazione Cl). Giuseppe Cosentino, un tempo capo dipartimento all’Istruzione, ora è capo della segreteria tecnica del ministro Francesco Profumo.
Altro capitolo i Beni culturali, tra sovrintendenze, società  parallele, consulenze.
Giuseppe Proietti è stato potente segretario generale del ministero, uno dei grand commis del Mibac.
Sotto la gestione Galan, lo scorso anno, diventa presidente di Ales, Arte lavoro e servizi, società  in house e braccio operativo del dicastero con i suoi 600 operatori.
Luciano Marchetti, un tempo direttore generale dei Beni culturali del Lazio, viene prima chiamato da Bertolaso quale responsabile dei beni culturali dell’Aquila post terremoto.
E oggi è commissario per gli interventi urgenti nella Domus Aurea di Roma.
Claudio Strinati, ex sovrintendente del polo museale capitolino, è rimasto da consulente nello staff del direttore generale del Mibac Mario Resca.
Più delicati sono i ruoli, più i governi che si succedono preferiscono richiamare dirigenti d’esperienza.
E così, anche sotto la gestione Monti, capo del coordinamento operativo dei voli di Stato di Palazzo Chigi resta (pensionato ma consigliere) Raffaele Di Loreto.
Come pure al Viminale, l’ex direttore centrale delle Risorse umane della Pubblica sicurezza, Giovanni Cecere Palazzo, in pensione dallo scorso anno, nel novembre 2011 viene chiamato dal capo della Polizia Manganelli alla presidenza di una delle più importanti commissioni esaminatrici di concorsi gestiti dal dicastero.
Guadagnano tutti tra i 60 e i 100 mila euro lordi extra pensione gli alti burocrati del ministero dell’Economia che non hanno fatto in tempo ad incassare la liquidazione che si sono ritrovati in sella ad un’altra poltrona.
Bruno De Leo, dirigente di prima fascia della Ragioneria generale dello Stato è stato chiamato a far parte del collegio dei revisori dei conti del Comune di Roma di Gianni Alemanno. Giancarlo Giordano già  ai vertici del ministero di via XX Settembre è stato designato dallo stesso dicastero nel collegio dei sindaci della Sea aeroporti Milano. Giancarlo Del Bufalo, ex dirigente generale all’Economia, oggi è presidente dell’Oiv l’organismo indipendente di valutazione dello stesso ministero.
Da un ministero all’altro, da una società  pubblica a un commissariato, niente e nessuno va in pensione, tutto si trasforma.

Carmelo Lopapa
(da “la Repubblica“)

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ASSISTENTI E DIARIA, TAGLI INDOLORI AI COSTI DELLA POLITICA

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

AI PARLAMENTARI UNO STIPENDIO BASE DI 8.060 EURO AL MESE: SONO IN 630, MA GLI ASSISTENTI SI FERMANO A QUOTA 236

Parola di Antonio Mazzocchi, deputato del Popolo della libertà  e questore della Camera: «Occorre regolarizzare la figura dell’assistente parlamentare e dargli una dignità  sul modello europeo. Dargli qualifiche e uno stipendio determinato per legge, che poi verrà  erogato direttamente dal Parlamento».
Fin qui la promessa per mettere fine a un andazzo che fa convivere, nel luogo dove si fanno le leggi, commessi retribuiti come amministratori delegati accanto a giovani plurilaureati pagati una miseria e talvolta anche in nero.
Basta dire che a Montecitorio gli assistenti parlamentari regolarmente registrati sono appena 236.
Duecentotrentasei, a fronte di 630 deputati.
«E ci sono deputati», lo dice Mazzocchi, «che spesso li registrano come colf o autisti».
Per attuare quella promessa l’ufficio di presidenza di Montecitorio, secondo il questore pidiellino, ha dato incarico al presidente della Commissione lavoro, il deputato ex Pdl, ex Fli, ora Responsabile, di scrivere un disegno di legge nel quale mettere in fila tutte quelle belle cose
Eccolo, quel disegno di legge intitolato «Statuto dei Componenti del Parlamento».
Ed ecco la norma che dovrebbe far cessare lo scandalo.
Articolo 6, comma 2: «I componenti del Parlamento hanno diritto a essere assistiti da collaboratori personali da loro liberamente scelti. Le Camere assicurano la copertura delle spese effettivamente sostenute per l’impiego di tali assistenti, secondo condizioni e modalità  fissate dall’Ufficio di presidenza della Camera».
Ossia, l’Ufficio di presidenza rimanda a una legge il compito di «regolarizzare» i collaboratori e quella legge rimanda lo stesso compito all’Ufficio di presidenza: abbiamo capito bene?
E le «qualifiche»? Lo «stipendio determinato per legge»?
La «dignità  sul modello europeo»?
Più ambigua, quella norma da gioco dell’oca non potrebbe essere.
Com’è ambigua, del resto, la soluzione transitoria adottata ora in attesa della legge: pagare metà  della somma sulla base di una rendicontazione.
Il fatto è che quel contributo spesso consente ai parlamentari di mettersi in tasca una bella sommetta esentasse destinata a collaboratori inesistenti (3.690 euro mensili pro capite alla Camera e 4.180 al Senato).
Quando addirittura non viene usato per versare l’obolo al partito: il che consente di recuperare fiscalmente il 19% da una cifra sulla quale non gravano imposte!
Tuttavia non è questa l’unica ambiguità  contenuta nella bozza di questo «Statuto».
Non viene nemmeno lontanamente sfiorata, per esempio, la questione del doppio lavoro: per cui oggi è consentito ai parlamentari di continuare a esercitare senza limitazioni un’attività  professionale privata parallela.
E forse in uno «Statuto» sarebbe stato opportuno introdurre almeno la previsione di un codice etico. Ma tant’è.
Chi poi continua ad affermare che i vitalizi sono stati aboliti, volutamente equivocando sul fatto che si è deciso modificarne il metodo di calcolo dal retributivo al contributivo, resterà  di sale.
Perchè per l’articolo 5 deputati e senatori hanno diritto tanto «alla corresponsione di un assegno di fine mandato», cioè la liquidazione, quanto a «un assegno vitalizio».
Anche questi, naturalmente, stabiliti da ciascuna Camera.
Quanto agli stipendi, finisce un regime durato 47 anni: l’indennità  parlamentare non sarà  più legata alla retribuzione dei magistrati.
Tassata al 70%, sarà  all’inizio di 6.200 euro netti al mese.
Ma con la possibilità  di beneficiare di un aumento, al 31 dicembre di ogni anno, «in rapporto alla media degli incrementi delle indennità  parlamentari dei sei principali stati membri dell’Unione europea» nonchè del Parlamento europeo.
Chi voleva vedere come sarebbe stato applicato il criterio della «media europea» è servito.
Certo, l’indennità  netta dei parlamentari in questo modo aumenta di circa 1.200 euro al mese: oggi è di 5.246 euro alla Camera e di 5.356 al Senato, ma scende a circa 5.000 euro per effetto delle addizionali Irpef locali.
Per giunta, è bloccata mentre invece ai futuri stipendi sarà  applicata una specie di scala mobile europea.
Lo stesso Moffa, del resto, ripete nella sua relazione il ritornello secondo cui i parlamentari italiani sarebbero in realtà  pagati meno dei loro colleghi europei.
C’è scritto proprio questo: «Ai parlamentari europei compete un’indennità  netta maggiore di circa 1.000 euro rispetto a quella dei parlamentari italiani e la fantasmagorica ( testuale , ndr) cifra di oltre 11 mila euro mensili della nostra indennità  parlamentare corrisponde in realtà , al netto delle ritenute… a una cifra significativamente inferiore ai 5 mila euro netti».
Va detto che in compenso la proposta prevede un taglio consistente agli altri emolumenti. Attualmente ogni deputato porta a casa in media 5.092 euro al mese fra diaria, rimborsi per i trasporti e le spese telefoniche.
Lo «Statuto» Moffa stabilisce invece che per tutte queste voci non possa essere pagata una somma superiore al 30% dell’indennità  netta: 1.860 euro.
Cifra che dovrebbe portare la busta paga netta del parlamentare «base», cioè quello senza particolari incarichi (per i quali pure sono in vista limature), a 8.060 euro mensili.
Circa duemila in meno di oggi.
Che dolore…

Sergio Rizzo
(da “Il Corriere della Sera“)

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DATI ISTAT: IL DIVARIO SALARIO-PREZZI A LIVELLO RECORD DAL 1995, LE RETRIBUZIONI AI MINIMI DA 12 ANNI

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

GLI STIPENDI CRESCIUTI DELL’1,8% NELL’ULTIMO ANNO: CRESCITA TORNATA AI MINIMI DAL 1999…IL DIFFERENZIALE CON L’INFLAZIONE ALL’1,9%

Divario retribuzioni-prezzi ai massimi da 17 anni e stipendi ai minimi degli ultimi 12.
Lo rileva l’Istat nei dati dicembre .
A dicembre la forbice tra l’aumento delle retribuzioni contrattuali orarie (+1,4%) e il livello d’inflazione (+3,3%), su base annua, ha toccato una differenza pari a 1,9 punti percentuali: si tratta del divario più alto dall’agosto del 1995.
Le retribuzioni contrattuali orarie a dicembre restano ferme su novembre mentre aumentano dell’1,4% su base annua, dice ancora l’Istat aggiungendo che il valore tendenziale è il più basso dal marzo del 1999.
Rispetto al 2010, quando la crescita delle retribuzioni contrattuali orarie si era attestata al 2,2%, la frenata registrata nel 2011 è forte.
Guardando ai diversi settori, aumenti significativamente superiori alla media si registrano per i comparti ‘militari-difesà  (3,3%), ‘forze dell’ordinè (3,1%), ‘gomma, plastica e lavorazioni minerali non metalliferì (3,0%).
Mentre le variazioni più contenute interessano ‘ministerì e ‘scuolà  (per entrambi l’aumento è dello 0,2%), ‘regioni e autonomie localì e servizio sanitario nazionale (0,3% in ambedue i casi).

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BERGAMO, DIKTAT DALL’AZIENDA SVIZZERA: “IN PAUSA CAFFE’ NON PIU’ DI DUE ALLA VOLTA”

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

ACCADE ALLA MALL HERNAN, PER I SINDACATI “E’ UNA VENDETTA”… “ALLA MACCHINETTA ANDAVANO IN QUINDICI” SPIEGA INVECE L’AZIENDA

Svizzeri sono svizzeri, ma forse, oltre al tradizionale rigore, c’è qualcosa di più.
Forse una sottile vendetta per un recente sciopero indigesto.
Forse un avvertimento di cui conservare memoria in vista delle future vertenze sindacali.
Chissà , sta di fatto che nello stabilimento di Seriate – ai confini con Bergamo – della Mall Herlan Italia – colosso della costruzione meccanica con sede a Pfinztal, nel land tedesco del Baden-Wà¼rttemberg, ma di proprietà  svizzera – operai e impiegati potranno assentarsi per la pausa caffè solo a gruppi di due per volta (o preferibilmente da soli).
E solo per lo stretto tempo necessario.
Il nuovo corso è stato deciso dalla direzione dell’azienda per evitare “assembramenti non consoni a un’attività  produttiva e aziendale”.
Pare, o meglio, riferiscono dal management italiano di Mall Herlan, che davanti alle macchinette stazionassero “anche dieci-quindici lavoratori per volta”.
Il che, se fosse vero, tenuto conto che lo stabilimento ha in tutto 40 dipendenti, vorrebbe dire non solo un’enormità , ma anche che il caffè era diventato il più insidioso concorrente (interno) dell’azienda.
Ad ogni modo: il nuovo direttore della succursale produttiva bergamasca, Piero Vailati, è passato ai fatti.
Qualche giorno fa ha messo nero su bianco la “nota caffè” e, con tanto di firma, l’ha fatta affiggere sulla bacheca.
Gli addetti non l’hanno presa benissimo: tra mugugni, timori e qualche alzata di spalle, quattro impiegati dell’ufficio tecnico sono già  stati richiamati all’ordine (avevano bevuto la tazzulella tutti insieme? O due per volta?).
A rendere ancora meno simpatica la pausa caffè a numero chiuso, e a tempo ristretto, contribuisce la situazione stessa dello stabilimento di Seriate. E alcune vicende recenti.
Nel 2009 la Mall ha acquisito un ramo (il “metal container”) della defunta azienda Frattini, e si è trovata sul groppone 190 addetti in cassa integrazione.
Solo una quarantina sono stati riassorbiti dalla nuova proprietà .
Il destino degli altri 150 è ancora incerto. I lavoratori passati sotto il colosso tedesco, in questi tre anni, hanno dimostrato di valere e hanno contribuito ai buoni risultati dell’azienda specializzata nella produzione di bottiglie e lattine in alluminio: è di pochi giorni fa la notizia della vendita agli americani di un prototipo di macchinario che produce 1.500 lattine al minuto.
La scorsa settimana i lavoratori hanno indetto uno sciopero per chiedere ai vertici dell’azienda uno sforzo sui premi di risultato.
Un’iniziativa che, a quanto sembra, non sarebbe stata troppo gradita.
C’è chi giura che sia stata proprio l’annunciata agitazione a innescare una reazione da parte dei capi: da qui, la “punizione-caffè”.
Fonti interne all’azienda e al sindacato riferiscono anche un altro scenario: il prossimo 30 gennaio è fissato un nuovo incontro tra i rappresentanti della società  e i sindacati.
Sul tavolo, ovviamente, la questione riassorbimenti e gli incentivi per i risultati.
Che i capoccia della Mall abbiano voluto lanciare un segnale andando a sensibilizzare i dipendenti sull’unico e il più classico momento di svago in mezzo alle ore di lavoro?
Il direttore Piero Vailati, in questi giorni, è negli Stati Uniti per impegni di lavoro.
Non è stato possibile avere una sua replica.
Ma dall’azienda fanno sapere che non si è trattato di un provvedimento così severo come sembra (a darne notizia per primo è stato il sito del Giornale di Bergamo).
Sarebbe, insomma, solo un modo per evitare che la pausa caffè diventi un’adunata.
Va detto che fino a ora a Seriate i rapporti tra l’impresa e i lavoratori, nonostante il disastro occupazionale, erano stati abbastanza buoni: ma forse le richieste sui premi di produzione hanno fatto saltare qualche equilibrio.
Non è la prima volta che in un’industria italiana il caffè diventa oggetto di divisioni e polemiche. Alla Ducati-Energia – marchio storico di Bologna, quasi 300 dipendenti – nel 2008 furono installate macchinette col timer: dopo dieci minuti cronometrati il distributore automatico si spegne.
Ogni turno di lavoro (tre) ha i suoi dieci minuti di caffeina. Chi ha bevuto ha bevuto, gli altri si arrangiano.

Paolo Berizzi
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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PESARO ANTICIPA LA LEGGE PER GLI IMMIGRATI: “I LORO FIGLI SARANNO CITTADINI ONORARI”

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

ARRIVA L’ATTESTATO A 4.536 BAMBINI NATI NEGLI ULTIMI DIECI ANNI IN PROVINCIA…. IN REGALO UNA BANDIERA TRICOLORE, UNA COPIA DELLA COSTITUZIONE E UNA MAGLIA DELLA NAZIONALE…PER NAPOLITANO “UN ESEMPIO DA IMITARE”

Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa.
Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare “cittadino onorario” di questa città  sul mare.
Ma sarà  invitato anche lui, assieme al papà  e alla mamma romeni, alla festa che si terrà  presto, forse al palazzo dello sport.
A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un “attestato” che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio.
L’attestato non sarà  purtroppo un documento ufficiale, perchè quel “ius soli” che negli Stati Uniti e in Francia dà  diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo “ius sanguinis”.
Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno.
“Quando ho proposto questa iniziativa – dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro – ho utilizzato le stesse parole del Presidente: “Chi nasce in Italia è italiano”.
E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti”.
“La vostra – questo il messaggio di Giorgio Napolitano – è una iniziativa di grande valore simbolico. C’è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà  territoriali”.
Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. “Mio nonno Luciano
racconta il presidente della Provincia – ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l’industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell’emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi”.
Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia.
Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell’edilizia.
“Ma quest’ ultima è quasi ferma – dice Ricci – e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà  – e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento – ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà . Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri”.
Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. “L’altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà  avuto cinque o sei anni, ha cantato “Fratelli d’Italia”, e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il “ius soli” a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E’ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore”.
Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare.
Di fronte a lui abita Jurghen – nome tedesco perchè suo papà  Ardian, partito dall’Albania, ha lavorato anche in Germania – che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l’idea della cittadinanza onoraria gli piace molto.
“E’ una cosa giusta – dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola – anche perchè io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l’asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto “albanese” come fosse un insulto”.
Il papà  e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen “faceva ridere” i nonni, quando d’estate tornava a Tirana.
“Provava a parlare albanese e nessuno capiva”.
“Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell’Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere”.
Una bandierina con l’aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti.
“Ma noi in casa parliamo italiano – dicono Valbona e Ardian – perchè questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l’università  a Urbino”.
La cittadinanza per i figli dovrebbe essere “una cosa naturale”.
“Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d’oggi sono così utili per trovare lavoro”.
Solo qualche volta, nell’appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall’altra parte dell’Adriatico.
“Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese.
“Riurtè, mjaft”, stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire”.

Jenner Meletti
(da “La Repubblica”)

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L’ASSOPORTI ACCUSA: “AL PORTO DI VADO LIGURE, BANCA INTESA GUADAGNA GRAZIE AL GOVERNO”

Gennaio 27th, 2012 Riccardo Fucile

NEL DECRETO LIBERALIZZAZIONI E’ CONTENUTA UNA NORMA CHE CONSENTIREBBE AL GRUPPO DI INCASSARE MILIONI DI EURO GRAZIE ALL’EXTRA-GETTITO DELL’IVA

“Quella norma del decreto liberalizzazioni a noi sembra applicabile a una sola grande opera: il nuovo porto di Vado Ligure”, parola di Francesco Nerli, presidente di Assoporti, l’associazione che riunisce le autorità  portuali italiane.
Ma c’è un altro punto: il progetto di Vado che vede tra i principali finanziatori (con 100 milioni di euro) la Biis, fino a pochi mesi fa guidata da Mario Ciaccia, oggi viceministro alle Infrastrutture.
Non solo: la Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo (Biis, appunto) fa capo al gruppo Intesa, di cui era numero uno Corrado Passera, oggi ministro dello Sviluppo economico con delega alle Infrastrutture.
Quella che sembra una polemica del mondo dei porti si rivela un altro capitolo del potenziale conflitto di interessi degli ex manager di Intesa.
A Genova e in altri grandi porti italiani qualcuno, scherzando, definisce la nuova norma una legge “ad bancam”.
Il porto di Vado è oggetto da anni di polemiche al calor bianco.
Un colosso di 210 mila metri quadrati (costo 450 milioni, previsti 700 mila container l’anno).
La politica si è in gran parte espressa a favore, così come il mondo dell’impresa. Ma la popolazione è contraria, tanto che il sindaco Attilio Caviglia ha vinto le elezioni con una lista trasversale sconfiggendo centrodestra e centrosinistra che erano favorevoli. Vado è stata per decenni sede di industrie inquinanti.
Il paesaggio oggi è dominato dalle ciminiere alte 200 metri della centrale elettrica Tirreno Power, che da quarant’anni brucia fino a 5 mila tonnellate di carbone al giorno.
La nuova piattaforma portuale, grande quanto trenta campi da calcio, secondo molti rischia di essere una pietra tombale sull’ambiente.
Ora la polemica diventa politica. E arriva al governo.
Al centro della questione l’extra-gettito Iva, un’agevolazione destinata a finanziare nuove infrastrutture anche portuali.
Spiega Nerli: “In pratica gli scali in via di costruzione dovrebbero generare nuovi traffici e produrre un gettito extra di Iva. La legge prevede che il 25 per cento delle nuove entrate sia destinato a chi realizza le opere”.
Non parliamo di bruscolini, ma di centinaia di milioni di euro.
I porti italiani con le loro imposte (essenzialmente l’Iva) ogni anno portano allo Stato 2 miliardi di euro.
L’idea di puntare sull’extra-gettito era nata con il governo Prodi nel 2007. Giulio Tremonti pareva non amarla. Adesso è stata rispolverata dal decreto Monti.
Ma ecco il punto: “La nuova disciplina si riaggancia a quanto stabilito da Berlusconi a novembre. In pratica si dice che saranno favorite le nuove infrastrutture ‘le cui procedure sono state avviate … e non ancora definite’.
Questa descrizione si applica a un solo caso: la piattaforma Maersk di Vado”, sottolinea Nerli.
Qui ecco l’aggiunta del governo Monti: “Il precedente governo non faceva cenno all’extra-gettito, che è previsto nel decreto liberalizzazioni”. Ma soprattutto: “Il meccanismo prevede che il gettito Iva finisca direttamente alle società  di progetto, cioè ai privati e che il soggetto pubblico (le autorità  portuali) sia scavalcato”.
In concreto, secondo un operatore portuale ligure che non vuole essere citato: “Beneficiaria della legge sarebbe l’Ap Moeller (del colosso Maersk), che utilizzerebbe le risorse per restituire i finanziamenti alle banche, tra cui Banca Intesa“.
Niente di illegale, ma riemerge il potenziale conflitto di interesse.
E una questione di opportunità .
“Noi non siamo contro l’extra-gettito e nemmeno contro Vado, ma non capiamo perchè la legge debba riferirsi a poche opere, anzi, sembrerebbe a una. E non capiamo perchè i soggetti pubblici debbano essere tagliati fuori. Perchè non prevedere che le agevolazioni sull’Iva siano stabilite, caso per caso, dalle autorità  portuali?”, si chiede Nerli.
Ma la norma affogata nel mare del decreto liberalizzazioni suscita preoccupazioni anche nei porti vicini a Vado (che fa capo all’autorità  portuale di Savona).
Raccontano tra Genova e La Spezia: “Il meccanismo dell’extra-gettito era stato studiato in periodi di vacche grasse, pensando che un nuovo porto soffiasse traffico ai porti stranieri. Oggi siamo in crisi, nuovi traffici non se ne prevedono, e Vado potrebbe ‘rubare’ container agli scali vicini”.
Non solo: l’extra-gettito prevede nuovi traffici.
Se Savona con le sue agevolazioni togliesse container a Genova e alla Spezia, si ridurrebbero anche gli incassi per lo Stato.
La bolla del traffico marittimo rischia di scoppiare: nel Nord Europa il problema della over-capacity ha provocato una guerra di carte bollate contro l’ampliamento dei porti di Rotterdam e Southampton. Le navi da trasporto inutilizzate sono passate in pochi mesi da 210 a 268 (+ 27 per cento).

Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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