Aprile 2nd, 2013 Riccardo Fucile
“SE ME LO AVESSERO DETTO PRIMA NON MI SAREI CANDIDATO”
«Bisognava indicare dei nomi della società civile. Era necessario presentarsi da Giorgio Napolitano con un nome che presiedesse un governo in grado di mettere in pratica i 20 punti del nostro programma».
L’autocritica è del senatore triestino del Movimento Cinque Stelle Lorenzo Battista. Che intervistato da Linkiesta ha aggiunto: «Siamo venuti in Parlamento per tornare alle elezioni dopo sei mesi senza combinare nulla? Se è questa la nostra missione avrebbero dovuto dirmelo e non mi sarei impegnato».
Una posizione minoritaria nel M5S.
Ma non isolata: «Era la mia linea ma anche di altri».
In vista del Quirinale Battista la butta lì: «Gustavo Zagrebelsky mi sembra un difensore della nostra Carta costituzionale. È il candidato ideale ».
(da “La Repubblica”)
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Aprile 2nd, 2013 Riccardo Fucile
DA D’ALEMA A RENZI L’AREA DEI CONTRARI AL VOTO SUBITO
La resa dei conti è nei fatti, forse proprio per questo la direzione del Pd slitterà alla prossima
settimana.
Nessuno vuole un confronto pubblico in tempi brevi.
Del resto, la riunione non è mai stata convocata e a Largo del Nazareno si fa notare che il Partito democratico «è l’unica forza politica a cui si chiede di convocare in continuazione gli organismi dirigenti».
Non è il momento di confronti in diretta streaming, di fronte alla fine del settennato di Giorgio Napolitano e al voto per il suo successore.
Non lo vogliono nè Pierluigi Bersani nè il fronte del suo partito che è pronto a contestarne tutti i passaggi compiuti nel periodo che va dalla mezza vittoria del 25 febbraio al congelamento di Giorgio Napolitano.
Fronte che si allarga ogni giorno di più: l’ipotesi del governo del presidente rimane in piedi anche dopo l’elezione del nuovo capo dello Stato.
Ed è questa l’opzione che registra un’alleanza traversale tra Matteo Renzi, Dario Franceschini, Veltroni, D’Alema e il vicesegretario Enrico Letta nella versione di un esecutivo che abbia solo un obiettivo: cambiare la legge elettorale.
I bersaniani rimangono aggrappati al preincarico mai revocato del loro leader solo pro forma.
In realtà Bersani è pronto a svolgere il ruolo di regista per le tappe future (a cominciare dalla scelta del presidente della Repubblica) con le mani libere «del segretario del Pd», spiega uno dei suoi fedelissimi.
Quel ruolo non è in discussione. E non vuole metterlo in discussione il diretto interessato, con un passo indietro o di lato.
Soprattutto, in vista della partita per il Quirinale. Sarà lui stesso a guidare le trattative per il Colle, a dire l’ultima parola.
Ecco perchè la direzione può aspettare: le procedure per l’elezione del nuovo capo dello Stato cominciano il 15 aprile, non è ora di un dibattito interno.
Questa linea espone certo il segretario al vento dei sospetti, dei veleni e delle interviste. Di un
fuoco incrociato, cioè, sulla condotta tenuta fin qui. E se la direzione può essere posticipata, molti dei suoi critici organizzano la battaglia nei gruppi parlamentari.
Chiedendone la convocazione il prima possibile, per una discussione vera, a cuore aperto. I numeri dei gruppi parlamentari sono diversi da quelli della direzione e le mosse sulle presidenze delle Camere non favoriscono l’unità intorno a Bersani.
Quindi la “sospensione” decisa dal Colle e il voto sul presidente lasciano aperta la porta a un governo istituzionale. «I saggi preparano una soluzione anche per chi verrà dopo Napolitano», spiega un deputato Pd che considera indispensabile un’intesa con il centrodestra.
La pensa così anche Paolo Gentiloni, deputato renziano.
«È necessario difendere il lavoro portato avanti dal presidente della Repubblica e non renderlo complicato, visto che già è difficile. Male che vada sarà un lavoro istruttorio che utilizzerà il suo successore».
Il punto è non far precipitare la crisi verso le elezioni anticipate. «Abbiamo avuto un no da parte di Berlusconi e dal Movimento 5 Stelle e abbiamo giustamente detto no ad una coalizione politica Bersani-Berlusconi. In questa situazione il presidente della Repubblica non poteva fare altro, anche perchè il voto nell’immediato sarebbe una follia».
Gentiloni considera prematura dunque una discussione interna al Pd. «Lasciamo lavorare Napolitano », è la sua parola d’ordine.
Ma anche i sostenitori del governo del presidente temono il confronto, al pari degli altri.
Perchè la conta su «voto subito o no» può riservare delle sorprese.
I Giovani Turchi di Orlando, Fassina e Orfini sono contrari a qualsiasi intesa con il Pdl.
A costo di correre verso le urne.
«In quel caso – spiega Orfini – se Renzi crea le condizioni giuste, sarà lui il leader di tutti. Altrimenti, troveremo un’altra candidatura per le primarie».
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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Aprile 2nd, 2013 Riccardo Fucile
SCONCERTO DI NAPOLITANO PER GLI ATTACCHI DEL CENTRODESTRA
Una «manovra» del Colle. Per prendere tempo, trascinare tutto fino al 15 aprile, favorire l’intesa Pd-M5S per il nuovo inquilino del Quirinale.
Eccolo, il fantasma che ossessiona le ultime notti di Arcore: l’elezione tra due settimane di un presidente della Repubblica «ostile », figlio dell’abbraccio «mortale » tra Bersani e Grillo, una prospettiva che nel fortino Pdl porta dritto ai nomi di Gustavo Zagrebelsky o a Stefano Rodotà , se non a Romano Prodi.
Timori e spettri che per ora non trovano riscontro nei fatti, il leader dei 5Stelle continua a bombardare e basta.
Ma sono stati sufficienti nelle ultime 36 ore per convincere il Cavaliere a far saltare il tavolo delle commissioni alle quali il presidente della Repubblica Napolitano ha affidato il delicato compito di tessere la tela del dialogo tra le tre «minoranze» inconciliabili. Invece nei due giorni di festa parte il fuoco di fila Pdl che azzoppa la missione sul nascere.
Proprio tra lo sconcerto e lo stupore dello stesso capo dello Stato.
Non fosse altro perchè Berlusconi, attraverso Gianni Letta, era stato avvisato per tempo, sabato mattina, di tutti i passaggi dell’operazione.
Il nome di Gaetano Quagliariello non era stato concordato ma comunicato in anticipo sì, senza alcun veto dal fronte Pdl.
Dal Colle, assistono con sconcerto e stupore all’assalto del Pd ai “facilitatori”.
Scorrono indietro il film dell’ultima convulsa, drammatica notte di consultazioni al Quirinale. Berlusconi che chiede a Napolitano di restare: il capo dello Stato aveva messo sul tavolo le dimissioni, per accelerare i tempi della sua successione e forse anche elezioni anticipate. L’assenso nella notte di Gianni Letta al nome di Quagliarello. Poi, il brusco cambio di rotta.
La lettura? «Hanno vinto i falchi sulle colombe, la linea è stata rovesciata, attaccano i saggi ma in realtà la partita è sempre sul dopo-Napolitano».
Per trovare la chiave di quel che si è scatenato nel centrodestra, dunque, bisogna tornare al tormentatissimo giro di colloqui di venerdì scorso.
Napolitano non ha scelte, e tutti i suoi interlocutori lo sanno.
La minaccia di dimissioni rientra.
Sente Mario Draghi, sente anche il governatore Visco, lo sconsigliano caldamente, «ci sarebbero contraccolpi molti pesanti sui mercati».
E fa anche un altro calcolo: dimettendosi martedì 2 aprile, come pure aveva ipotizzato, secondo la Costituzione le elezioni per il successore cominciano 15 giorni dopo, Nessuna accelerazione, in pratica, rispetto all’iter normale.
Lo spiega agli interlocutori al Colle: «Le mie dimissioni non risolvono. Come il governo istituzionale, non appoggiato nelle consultazioni. E non posso sciogliere le Camere.
Non resta che una sola strada: guadagnare tempo, rispetto ai mercati, per non continuare con questa immagine di stallo».
E’ il sentiero che poi percorre, con l’inedita scelta dei “facilitatori”.
Il senso e i limiti della missione dei “dieci” erano perciò chiari a tutti, anche al Pdl che oggi si “sorprende”: prendere un paio di settimane, arrivare fino all’avvio delle votazioni del nuovo capo dello Stato.
Sarà lui, salvo un miracolo, a prendere in mano le redini della crisi di governo.
E invece eccolo, adesso, il Cavaliere sempre più di lotta, sempre più proiettato verso il voto in estate, consapevole tuttavia che lo spiraglio di giugno si è quasi irrimediabilmente chiuso.
Ai suoi che lo chiamano per gli auguri pasquali confessa tutto lo scetticismo dopo l’iniziale, apparente apertura. «Quando in Italia non si sa cosa fare, si fa un tavolo, che puntualmente non approda a nulla», è la prima delle sue considerazioni.
Perdita di tempo, tentativo «inutile», sono le usate per stroncare sul nascere la mission dei dieci. Alla quale Berlusconi impone già la dead line della fine della prossima settimana: dieci giorni di tempo, non di più.
Poi, «o il Pd accetta il governo di larghe intese e un presidente della Repubblica condiviso o si va al voto in estate»: resta quella la sua bussola.
Anche dopo che il Quirinale ha precisato, ridimensionato, la posizione di Berlusconi, raccontano, non sia cambiata: «Non ho alcuna fiducia che questa cosa serva a qualcosa, anzi, grossi dubbi. Probabilmente Napolitano lo ha fatto per paura che fallisse il tentativo di dar vita a un governo del presidente, per tutelarsi. Ma per noi non va bene».
Non basta. «Accetteremo di discutere la legge elettorale solo in un contesto più ampio di riforma costituzionale».
Condizioni quasi irrealizzabili in dieci giorni.
Stamattina si insediano i saggi ma per Berlusconi è già una partenza a vuoto.
E se non li stronca sul nascere, ritirando magari Quagliariello – come pure gli avevano chiesto con insistenza i “falchi” Brunetta, Verdini e Santanchè – sarà solo per cercare di capire se il Pd nel frattempo si spacca e apre alle larghe intese.
È l’unico motivo per il quale un Cavaliere sempre più distratto dalle sue carte giudiziarie concede qualche giorno di respiro e dunque credito alle colombe di casa, Gianni Letta, tessitore col Quirinale, Alfano, Schifani, Lupi.
Oggi riunione del gruppo alla Camera per discutere il da farsi.
Ma Berlusconi non ha alcuna voglia di «perdere tempo », ci sono le sentenze in arrivo.
Carmelo Lopapa e Umberto Rosso
(da “La Repubblica“)
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