Aprile 22nd, 2013 Riccardo Fucile
RENZI E D’ALEMA LO SOSTERRANNO, SINISTRA VERSO LO STRAPPO
«La scissione è scontata. Inevitabile». Lo dicono tutti nel Partito democratico: Letta, Bindi,
Franceschini, Veltroni, Fioroni, Marini, Orfini, Gentiloni, Civati, Renzi.
Nemmeno un franco tiratore stavolta.
Il Pd non esiste più. Nasceranno nuovi soggetti, si romperanno sodalizi e alleanze che non hanno mai funzionato.
Correnti e parlamentari ora sono liberi di fare scelte autonome.
Bersani, da Piacenza, si limita ad osservare.
Ieri lo hanno chiamato per chiedergli di restare al suo posto. Almeno qualche giorno, il tempo di decidere il futuro della legislatura.
«Per favore, abbiamo chiesto un sacrificio anche a Napolitano ». Ha risposto «ci penso una notte» con sottile perfidia.
Stamattina infatti confermerà le dimissioni e il passo indietro.
Il “segretario” del Pd diventa, temporaneamente, il presidente della Repubblica.
Quando oggi pronuncerà il discorso d’insediamento e disegnerà il profilo di governo, determinerà , in maniera indiretta è ovvio, il crollo definitivo della “ditta”.
La fuoriuscita di alcuni, la resistenza di altri, gli equilibri dei prossimi mesi.
Ma quale congresso. Ma quale reggenza, gestione collegiale e altre liturgie.
Il Pd consumerà il primo tempo della sua fine oggi pomeriggio ascoltando il capo dello Stato a Montecitorio.
E il secondo tempo al momento della fiducia al nuovo esecutivo. «Chi ci sta rimane dentro al Pd. Chi non ci sta, esce», è la constatazione lapidaria che Enrico Letta ha affidato ai suoi interlocutori nelle ultime ore.
«Il nodo politico, un signor nodo, resta quello del “governo o elezioni”», spiega Dario Franceschini ai suoi fedelissimi. «
Lo è fin dall’inizio, dal 25 febbraio.
Adesso diventerà una questione di vita o di morte per il Pd».
Si sfascerà tutto, si consumeranno vendette e si cercheranno strade diverse.
Per dirne una, i renziani propongono di far saltare il banco a Roma, dove si vota il 26 maggio cancellando il risultato delle primarie.
Rilanciano la candidatura di Paolo Gentiloni. «Marino è troppo schiacciato su Vendola e noi con Sel non dobbiamo prendere nemmeno un caffè. I giochi vanno riaperti», dice il deputato Michele Anzaldi.
Una scissione nella scissione. Una rottura chiara, netta.
Al momento, le macroaree (o micro?) in cui si dividerà il Partito democratico sono due.
Quella più simile all’attuale girerà intorno al centro gravitazionale di Matteo Renzi.
Ci starà anche Massimo D’Alema, che sostiene il sindaco mantenendo il suo profilo e la sua leadership.
I Giovani turchi di Stefano Fassina, Matteo Orfini e Andrea Orlando oggi dicono no a un governo di larghe intese e sembrano sul piede di guerra.
Ma si piegheranno al diktat del capo dello Stato.
Orfini da tempo ha aperto un canale con Palazzo Vecchio attraverso l’ex vicesindaco Dario Nardella.
Orlando, dopo lo schiaffo nella vicenda del capigruppo alla Camera, è rientrato nell’alveo dei dalemiani.
Fassina, il più bersaniano, non romperà il sodalizio. «Loro voteranno la fiducia a qualsiasi tipo di esecutivo », dice un dirigente vicino a Letta.
Orfini non ha dato retta a Bersani, non ha spento Facebook.
«Ho passato la domenica a rispondere agli insulti dei miei elettori per la scelta di Napolitano. Ho scritto un post e i toni si sono calmati, si è potuto discutere».
Presto tornerà a dialogare sul social, quando si voterà la fiducia alle larghe intese o all’esecutivo del presidente.
L’altra area è quella della Nuova sinistra.
Laura Puppato e Pippo Civati sono considerati in uscita verso questo soggetto. Assieme a loro Sergio Cofferati e Ignazio Marino.
Fabrizio Barca sembra al centro di questa partita.
Toccherà a lui dire da che parte vuole schierarsi, se in una battaglia interna al Pd o nell’apertura di un cantiere della sinistra più tradizionale.
Ma questa scissione di fatto potrebbe fare “vittime” anche in un territorio di mezzo.
Come Rosy Bindi che si mette di traverso all’ipotesi di Enrico Letta premier delle larghe intese e sembra dire di no a tutte le soluzioni di governo col Pdl.
Il limbo non aiuta la collocazione dell’ex presidente del Pd nel momento in cui i pezzi del partito cercano velocemente sponde.
Il voto di fiducia dunque farà chiarezza nel corpo sovradimensionato dei gruppi parlamentari. Intanto domani primo round in direzione.
Gli ex popolari chiedono una reggenza di Enrico Letta fino al congresso, affiancato da un comitato di gestione che rappresenti le anime interne.
Ma il renziano Gentiloni fa capire che questa strada non è percorribile. «Ci vuole un caminetto unitario, con pari peso per le correnti.
Renzi ovviamente ne starà fuori, parteciperà indirettamente».
Una cosa è certa: questo comitato accompagnerà e sosterrà il governo di Napolitano passo passo.
Perchè le elezioni sono impossibili, non le può volere neanche Renzi dopo la settimana del disastro.
«Prendiamo il 3 per cento e il centrosinistra italiano scompare per sempre», dice Antonello Giacomelli.
Una scommessa facile facile.
Goffredo De Marchis
(da “La Repubblica”)
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Aprile 22nd, 2013 Riccardo Fucile
IL PATTO: ENRICO LETTA PREMIER, ALFANO E MONTI VICE…IPOTESI GALLO
Il negoziato sul Quirinale si è sempre svolto in parallelo a quello per il nuovo governo, il bis di Giorgio Napolitano è arrivato anche perchè c’è uno schema su cui costruire il nuovo esecutivo.
“Napolitano agirà guardando gli interessi del Paese”, dice lo storico amico Emanuele Macaluso.
Ieri mattina, durante l’ascesa di pellegrini al Colle, Napolitano è stato chiaro: “Resto, sì, massimo due anni però”.
E poi ha cercato un compromesso con i partiti che dovranno sostenere un governo commissariato dal Quirinale: dentro, tanti ministri tecnici attingendo fra i dieci saggi; ai vertici, un tridente di politici tra Pd-Pdl-Scelta Civica.
I democratici avranno la guida di palazzo Chigi: Enrico Letta è il nome più credibile, anche se non troverebbe il sostegno immediato di Matteo Renzi; scarse le speranze per Giuliano Amato, inviso a tanti tra destra e sinistra e soprattutto tra i leghisti
Silvio Berlusconi ha posto una condizione dirimente: Angelino Alfano vice premier, possibilmente con una delega esplicita alla Giustizia, per garantirlo sul fronte dei processi.
Ma il Cavaliere spinge sempre per “l’uomo di Stato” Gianni Letta.
Nel Pdl in tanti, però, sentono odore di elezioni e vogliono un governo debole, transitorio. E B. vuole riservarsi la possibilità di mandare tutti a casa quando gli conviene.
L’altro vice premier potrebbe toccare a Scelta Civica, magari con un orientamento economico se diventasse quella la casella in cui collocare Mario Monti.
Il premier in carica è stato il primo a cercare di intestarsi l’operazione Napolitano, e ora spera nel bis anche del governo.
In fondo è lui l’uomo della grande coalizione, quello della maggioranza ABC: Monti chiedeva la garanzia di un re-incarico a Romano Prodi in cambio del sostegno, a maggior ragione farà un tentativo con Giorgio Napolitano.
L’ipotesi Enrico Letta è quella più forte perchè non avrebbe ostacoli nel gruppo Pdl: è stato lui il principale mediatore nella notte di venerdì tra Pd e Pdl.
Ma Letta sarà anche il reggente del Pd, forse è troppo cumulare entrambi gli incarichi. Soprattutto visto che, dentro il Pd, Matteo Renzi rivendica di essere ormai l’unico leader con un consenso popolare: il sindaco di Firenze non ha alcuna intenzione di partecipare al governo ma, confidando in elezioni nel giro di sei mesi o un anno, ha bisogno che il partito non venga devastato dalla prossima fase.
E un governo Letta significherebbe dare l’etichetta Pd all’esecutivo, garantendo anche la sopravvivenza a un gruppo dirigente che Renzi è ben contento di aver spazzato via (anche se con la vittima collaterale di Romano Prodi).
Se non c’è l’accordo su un nome politicamente connotato, si studieranno altre opzioni. Due che si faranno trovare pronti sono il ministro dello Sviluppo Corrado Passera (per ora silente, giusto un Tweet “grazie presidente”) e il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, uno dei saggi, il coordinatore informale del gruppo che si è occupato di economia producendo un rapporto che, con Napolitano riconfermato, sarà l’inevitabile programma di governo.
Il mandato di Giovannini all’Istat scade ad agosto, ha una sensibilità al sociale e piace a una parte del mondo a Cinque stelle (anche se una sua nomina non basterebbe certo a placarli), è cattolico e non compromesso con i governi precedenti.
Quanto ai ministri, i partiti sono pronti a rimettersi a Napolitano: “Io non sono stato contattato”, dice il “saggio” Filippo Bubbico del Pd.
E infatti lui e il suo omologo Giancarlo Giorgetti (Lega) sono i presidenti delle commissioni speciali di Senato e Camera, gli unici due organismi parlamentari funzionanti, e quindi lì resteranno.
Ma per gli altri saggi è quasi certa una promozione al governo: da Luciano Violante per il Pd a Gaetano Quagliariello per il Pdl (il suo nome però sarebbe contestato da una parte del partito).
Forse perfino il costituzionalista Valerio Onida, nonostante le gaffe.
Dei saggi economici difficile immaginare che Salvatore Rossi lasci la Banca d’Italia, di cui è vice direttore, mentre è assai più probabile che Enzo Moavero Milanesi resti alla guida degli Affari europei.
Probabile il reclutamento del presidente della Consulta Franco Gallo, magari poprio come premier istituzionale.
Così come è quasi certo un coinvolgimento di Mario Mauro, ex Pdl che ora è il principale negoziatore per Scelta Civica.
C’è poi Anna Maria Cancellieri: Monti l’ha candidata alla presidenza della Repubblica, Napolitano la stima e, sul suo nome, si stava verificando una convergenza con il Pdl.
Quindi in tanti sarebbero d’accordo a una sua riconferma al ministero dell’Interno.
Stefano Feltri e Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Aprile 22nd, 2013 Riccardo Fucile
QUANDO L’ELETTROCARDIOGRAMMA DEL CAVALIERE E’ VICINO ALLA RESA ARRIVA SEMPRE LA SINISTRA CON IL DEFRIBILLATORE
È un’onda che viene e che va. Soprattutto va.
A inizio 2013, Pier Luigi Bersani aveva già vinto e Silvio Berlusconi era finito.
Un’altra volta.
La situazione, quattro mesi dopo, è appena diversa. Dopo le Primarie, Bersani non poteva non trionfare. Aveva un vantaggio abissale: lo squadrone, il giaguaro da smacchiare, Nanni Moretti a tirargli la volata.
Eppure ce l’ha fatta.
Rigori su rigori sbagliati, e tutti a porta vuota.
Match point sprecati con precisione così fantozzianamente chirurgica da lasciar pensare che, dietro a quei disastri insistiti, ci fosse un metodo. Una collusione. Una connivenza.
In cento giorni o poco più, Bersani è riuscito a sbagliare tutto.
Consegnandosi alla storia come il sicario (il più noto, ma non l’unico) del Pd.
Una sorta di virus che ha distrutto dall’interno quel che restava del centrosinistra.
Spolpandolo con bulimia certosina.
Dall’altra parte, o per meglio dire dalla stessa, Berlusconi. Quello che a novembre sembrava un po’ rincitrullito, a gennaio riusciva a far sembrare financo Giletti un giornalista incalzatore (“Me ne vado? Me ne vado? ”) e che due sere fa suonava allegramente il pianoforte alla serata dedicata ad Alemanno, dedicando canzoncine amene a Rosy Bindi e gioendo — con tutta la claque — per le dimissioni di Bersani.
Ovvero uno dei suoi scudieri più instancabili.
L’ennesima resurrezione del Caimano ha i connotati arcinoti.
Un mix di talento mediatico, genialità del male e — soprattutto — insipienza degli avversari.
Ogni volta che il centrosinistra lo ha visto in difficoltà , si è guardato bene dall’assestare il colpo definitivo.
Nel ’97/98 fu la Bicamerale di D’Alema, nel 2007/8 il neonato (già morto) Pd di Veltroni, nel 2011 Napolitano, nel 2013 Bersani.
L’elettrocardiogramma di Berlusconi è irregolare.
Ogni volta che sembra prossimo alla calma piatta, la presunta opposizione accorre — trafelata — col defibrillatore.
La trama non concede particolari variazioni.
Funziona così: si arriva ciclicamente a un punto in cui, per mandare Berlusconi in fondo al precipizio, basterebbe una spinta. Una piccola spinta. Anche solo un refolo di vento.
È però qui che, puntualmente, accadono due cose: la “sinistra” si intenerisce e — al contempo — Berlusconi recita la parte dello “statista responsabile”.
I primi, con fare pensoso, cominciano a straparlare di rispetto del “nemico” (quale nemico?) e propongono genericissime “larghe intese”.
Il secondo, con maestria consolidata, abbassa i toni. Naviga sottotraccia. Non appare. Si nasconde.
Rilascia poche considerazioni che i soliti editorialisti cerchiobottisti definiscono (mal celando l’eccitazione) “altamente responsabili”.
È avvenuto anche prima del Napolitano Bis.
Per osmosi la finta moderazione colpisce anche falchi e colombe, droidi e fedelissimi.
Al di là delle irrilevanti pasionarie caricaturali, ora una Mussolini e ora una Biancofiore, i Cicchitto e financo i Gasparri (per quanto possa un Gasparri) paiono meno invasati.
Alludono al “paese che ha bisogno di essere governato”.
Preconizzano “alleanze per il bene comune”.
Ssembrano posseduti dal fuoco sacro della passione politica.
La sensazione, vista con occhi minimamente smaliziati, è quella di tanti Jack Torrance (il protagonista di Shining) che a metà film si reinventano Richie Cunningham e ti offrono una gazzosa al bar di Happy Days.
Un guasto narrativo che metterebbe in guardia persino Oldoini.
Eppure, non si sa come (o forse si sa benissimo), la sinistra ci casca. Sempre.
Dicendo e scrivendo: “Dai, Berlusconi in fondo non è poi così cattivo”.
Ovviamente, un attimo dopo aver teso la mano (un Presidente, un salvacondotto, un inciucio), Jack Torrance spacca il locale e torna quello di prima.
Tra le resurrezioni del Caimano, quella del 2013 è forse la più scombinata.
La sceneggiatura è particolarmente forzata. Del resto è almeno la quarta saga del Lazzaro di Arcore, e anche Rocky IV era più debole del primo episodio.
Ciò che non cambia mai è il finale.
L’happy ending, però sui generis. In queste pellicole di cinema civile è sempre Jack Torrance che vince.
Non tanto perchè riesce a uscire dal labirinto, ma perchè sono le vittime a indicargli la strada.
A porgergli (con sussiego) l’ascia.
Nel frattempo i processi restano. La polizia indaga. I testimoni giurano che “è stato lui”.
Ma qualcuno, alla fine, un alibi glielo trova sempre.
E quel “qualcuno” ha sempre la stessa faccia
Andrea Scanzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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