Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
TRA I CANDIDATI NITTO PALMA ALLA GIUSTIZIA E ROMANI ALLE TELECOMUNICAZIONI
Mancano meno di 48 ore alla prima convocazione delle commissioni parlamentari (martedì pomeriggio) e non c’è ancora un accordo nella maggioranza (Pd, Pdl, Scelta civica) sulle presidenze.
Non c’è intesa sul criterio quantitativo di ripartizione delle poltrone perchè il Pdl chiede pari dignità pur contando alla Camera su una rappresentanza parlamentare assai meno consistente rispetto a quella del Pd.
Poi c’è un problema di nomi che è ugualmente rilevante: il Pdl, infatti, rivendica per gli ex ministri Nitto Francesco Palma e Paolo Romani le commissioni Giustizia e Infrastrutture (cioè le Telecomunicazioni) del Senato.
La spinta per Palma e Romani, che arriverebbe direttamente dal Cavaliere, ovviamente non aiuta la trattativa e fa irrigidire il Pd che ora creerebbe problemi sugli altri ex ministri del Pdl: Michela Vittoria Brambilla, Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Altero Matteoli.
E anche nel Pd, sebbene tra gli ex ministri ci sia in corsa solo Cesare Damiano per la commissione Lavoro, non mancano i problemi per l’eccesso di candidature.
Dentro Scelta civica, invece, la commissione Esteri del Senato, destinata a Pier Ferdinando Casini, azzererebbe le aspettative dei montezemoliani che puntano sulla presidenza del gruppo del Senato, spingendo Gianluca Susta nonostante Benedetto Della Vedova sia in pole position.
La trattativa sui presidenti delle commissioni è condotta dai capigruppo – Brunetta e Schifani del Pdl, Speranza e Zanda del Pd, Dellai di Scelta civica – che hanno tempo fino a stasera, massimo domani mattina, per trovare l’accordo su numeri, nomi e compensazioni.
Se veramente al Senato la Giustizia andrà all’ex Guardasigilli Nitto Palma – nonostante l’apparente fuoco di sbarramento del centrosinistra – poi la commissione gemella della Camera andrebbe a Donatella Ferranti del Pd, il cui nome fino all’ultimo minuto era inserito nella lista dei sottosegretari.
Più complesso, invece, l’«incrocio» per le commissioni Affari costituzionali che, comunque, nel caso nasca la Convenzione o la Bicamerale verrebbero svuotate di contenuto: per la prima commissione del Senato è in corsa Anna Finocchiaro (che poi, se richiesto, potrebbe sempre dimettersi per dedicarsi a un incarico più importante).
Mentre per la prima commissione della Camera ci sono tre candidati del Pdl: l’ex ministro Elio Vito e gli avvocati Enrico Costa e Francesco Paolo Sisto. Così però rimarrebbe fuori Gianclaudio Bressa (Pd).
Delicata anche la scelta dei presidenti delle commissioni Bilancio.
La soluzione potrebbe essere tutta pugliese: al Senato non molla Antonio Azzolini (Pdl) che è di Molfetta e alla Camera è ben piazzato il lettiano di ferro Francesco Boccia (Pd) che è di Bisceglie.
In questo schema, tuttavia, ha poche speranze Bruno Tabacci il cui partito, il Centro democratico, chiede un posto come d’altronde fanno i socialisti di Riccardo Nencini.
Alla Camera, la Difesa è ambita da Giuseppe Fioroni ma nel Pd c’è anche la «tecnica» Rosa Calipari.
Ermete Realacci (Pd) ha il profilo adatto per guidare l’Ambiente mentre nessuno ancora si è messo di traverso alla candidatura di Rosy Bindi per la presidenza dell’Antimafia.
Un’altra partita si gioca poi tra i partiti dell’opposizione.
Riccardo Nuti (M5S), Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) Giancarlo Giorgetti (Lega) si rivedranno domani per provare a trovare un accordo sulle commissioni di garanzia: Copasir (servizi segreti), vigilanza Rai, giunte per le autorizzazioni.
Uno schema di massima prevede il Copasir a Sel (Gennaro Migliore, Claudio Fava o Dario Stefano) e la vigilanza Rai ai grillini che schiererebbero il capogruppo temporaneo Vito Crimi.
Dino Martirano
(da “il Corriere della Sera“)
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
“SIAMO VENUTI MENO A DECISIONI FORMALI E COLLETTIVE”… NELLA PARTITA DEL QUIRINALE ABBIAMO BRUCIATO IL GOVERNO DEL CAMBIAMENTO”
«Il mio unico desiderio è che queste dimissioni servano a qualcosa». 
Pier Luigi Bersani parla per la prima volta dopo il passo indietro da segretario Pd e l’insediamento del governo Letta.
In questa intervista ribadisce che il partito deve «sostenere con determinazione» l’esecutivo, stoppa «diktat e pretese senza fondamento» di Berlusconi (abolizione dell’Imu e presidenza della Convenzione) ma ripercorre anche quanto avvenuto nelle votazioni per il Quirinale: «In quel passaggio, nell’inconsapevolezza di tanti di noi, è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento», dice puntando il dito contro «l’irrompere di ritorsioni e protagonismi spiccioli» e ammettendo che, «messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, abbiamo mancato la prova».
E a cosa pensa dovrebbero servire le sue dimissioni, onorevole Bersani?
«A incoraggiare una discussione vera, a decidere delle correzioni profonde riguardo il nostro modo di essere. L’Italia è nei guai e ha bisogno che il Pd sia all’altezza del compito, che sia in grado di assumersi le proprie responsabilità . Certamente in questi anni abbiamo avuti problemi, ma siamo comunque riusciti ad essere i principali protagonisti politici di governo nella gran parte dei territori. Poi, messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, non siamo riusciti a saltare l’asticella. Abbiamo mancato la prova».
Anche nel suo partito c’è chi l’ha criticata per la gestione della partita del Quirinale: come risponde a chi sostiene che è stato un errore puntare su Marini e a chi fa notare che poi la scelta di Prodi era figlia di uno schema totalmente opposto?
«Guardi, ho sentito ricostruzioni francamente favolistiche e giustificazioni di comodo di quel che è avvenuto, ma non ho intenzione di replicare o di ricostruire passaggio per passaggio quelle giornate perchè sarebbe doloroso per me e umiliante un po’ per tutti. Mi fermo su un punto incontestabile: noi siamo venuti meno a delle decisioni formali e collettive. Che possono essere variamente giudicate anche se io le ritengo assolutamente giuste, nelle condizioni date le uniche possibili e coerenti con i nostri deliberati ma che restano, ripeto, decisioni formali e collettive».
Che idea si è fatto, perchè il Pd non ha tenuto nel passaggio sul Quirinale?
«Già nei giorni precedenti la scelta del presidente della Repubblica, ci eravamo indeboliti caricandoci addosso la responsabilità dello stallo nella formazione di un governo. Un’idea sbagliata, fatta circolare anche dentro il nostro mondo. Poi, quando si è trattato di applicare una decisione che avevamo assunto, quella cioè di cercare un presidente largamente condiviso fino a prova contraria, la prova contraria che io avevo immaginato potesse provenire dagli altri è invece venuta da noi. E nella fase successiva, di fronte all’impossibilità di una larga condivisione, quando abbiamo proposto un nostro candidato sul quale era stata presa una decisione entusiasticamente collettiva, con nessuno che aveva appoggiato la mia richiesta di voto segreto, abbiamo registrato un colossale inadempimento».
È una questione di disciplina o c’è dell’altro?
«È inutile fermarsi a temi per così dire disciplinari, in questa vicenda sono emersi problemi che dobbiamo assolutamente affrontare. Primo: un deficit di autonomia, una nostra incomprensibile permeabilità , una difficoltà ad esercitare un ruolo di rappresentanza, di orientamento, di direzione. Secondo: l’incapacità di distinguere tra funzioni istituzionali, come è quella del Presidente della Repubblica, e funzioni politiche e di governo. E, mi dispiace dirlo, ma è difficile non vedere in questo la lunga semina della cultura berlusconiana che ha messo frutto anche nel nostro campo. Terzo: l’irrompere di rivalse, ritorsioni, protagonismi spiccioli di fronte a un passaggio di enorme portata. È l’insieme di questi problemi che mi fa dire che è arrivato il tempo di dirimere un tema: vogliamo essere un soggetto politico o uno spazio politico dove ognuno esercita il proprio protagonismo?».
Una questione non da poco, per un partito che è nato sei anni fa, non crede?
«Questa ambiguità si è resa non più addomesticabile alla prima, vera prova di diretta responsabilità nazionale. Ora però il tema va affrontato, sapendo che se scegliamo la seconda strada possiamo essere utili ad alcuni di noi, ma non al Paese e agli interessi e ai valori che vogliamo difendere. Se dobbiamo invece essere un soggetto politico, dobbiamo chiederci qual è la nostra missione per questo Paese e capire che, se scegli di entrare in una libera associazione, decidi di devolvere a una comunità almeno una parte delle tue convinzioni, delle tue aspirazioni, delle tue ambizioni. Perchè se si disperde l’idea che entrare in un collettivo è una scelta morale, di libertà e di responsabilità , noi non possiamo essere utili al Paese».
Ora è in carica un governo in cui ci sono ministri del Pd e del Pdl, che è quello che lei per cinquanta giorni ha escluso: l’errore è stato commesso ieri o è stato commesso oggi?
«È stato commesso nel passaggio per il Quirinale, che ha comportato un nostro pesante indebolimento e un mutamento nel rapporto di forza. Nell’inconsapevolezza di tanti di noi, lì è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento, la possibilità di aprire la legislatura con una terapia d’urto capace di riconnettere il governo e noi stessi con la società . So bene che fra di noi ci sono parecchi che hanno ritenuto irrealistica quella prospettiva. Ma c’era troppo realismo in quei giudizi. Il vero realismo sta nella connessione al Paese, alle sue esigenze. Quello era un tentativo che aveva dentro un elemento di azzardo, di combattimento, ma non era irrealistico, non sarebbe stato irrealistico, anche se certo in quella prima fase della vicenda, non era irrilevante il fatto che il Presidente della Repubblica non avesse la pienezza dei propri poteri».
Grillo però ha chiuso a ogni ipotesi di collaborazione, sia nella fase della formazione del governo che in quella per il Capo dello Stato: col senno di poi si è pentito di aver insistito così a lungo?
«Intanto sia chiaro che io mi rivolgevo a tutto il Parlamento. In ogni caso sbaglia chi sostiene che mi sarei fatto umiliare da Grillo. L’arroganza umilia chi la mostra e rimarrà l’idea di una mia disponibilità a lavorare per un governo del cambiamento. L’idea di Grillo è stata fin dall’inizio quella di tenersi totalmente disimpegnato e cercare di lucrare il più possibile sulla necessità di una convergenza tra noi e la destra. Lucrare si può per un giorno, un mese, forse anche per un anno ma, se poi si mostra l’impotenza e l’inconcludenza di certe posizioni, è finita».
Ma perchè il Pd non ha fatto sua la proposta di eleggere Rodotà al Quirinale?
«Dopo quanto successo con Marini e con Prodi, pensiamo davvero che ci sarebbero stati i voti per Rodotà ? Dopodichè non è accettabile un prendere o lasciare, dire o così o niente. Il Movimento 5 Stelle ha sempre rifiutato qualsiasi dialogo sul governo e sul presidente della Repubblica. Rodotà è una figura degnissima ma è stata strumentalizzata per un’operazione politica finalizzata a creare difficoltà piuttosto che a ricercare soluzioni. Mi piacerebbe piuttosto chiedere a Grillo e tutti gli altri perchè hanno detto no a uno come Marini, forse perchè riesce a farsi capire dagli edili? O perchè no Prodi?»
Torniamo alla domanda di prima: è stato un errore dopo il passaggio del Quirinale dare il via libera al governo del presidente insieme al Pdl?
«No, e anzi ora possiamo soltanto ringraziare il presidente Napolitano per aver evitato un avvitamento della situazione e aiutato l’allestimento di un governo che aveva come alternativa soltanto nuove elezioni con il Porcellum. Quindi, adesso noi senza tante chiacchiere dobbiamo sostenere con determinazione Enrico Letta, che si è caricato di un compito pesantissimo e difficile, in una fase nuova, diversa, quella che lui ha chiamato giustamente “governo di servizio”».
Sostenere un governo in cui c’è Miccichè e Biancofiore? Con Berlusconi che propone l’abolizione dell’Imu e chiede per sè la presidenza della Convenzione sulle riforme?
«Quanto alla squadra di governo, nessuno può nascondersi la difficoltà di allestire una compagine in queste condizioni politiche. Ma nelle condizioni date Letta ha trovato un buon equilibrio. Noi dobbiamo pienamente sentire in quel governo la nostra responsabilità e combattere perchè ottenga dei risultati, a partire dalle risposte da dare alla grave situazione economica e sociale. Per quanto riguarda l’Imu, anche noi abbiamo detto che si deve correggere, ma nel caso si intervenga deve rinvenirsi traccia di quanto da noi proposto. E lo stesso vale sugli ammortizzatori sociali e sugli esodati. Nessuno può avanzare diktat. Per quanto riguarda le riforme istituzionali, sarebbe buona cosa allestire una Convenzione, come già avevo proposto durante le consultazioni. Ma l’autocandidatura di Berlusconi alla presidenza mi pare una miccia accesa e una pretesa senza fondamento».
Le sue dimissioni saranno ratificate all’Assemblea nazionale del Pd, sabato: che tipo di discussione auspica si faccia in quella sede?
«Parto dal punto di fondo: ci vuole un congresso vero, che sia svincolato dalla scelta di un candidato premier, visto che per la prima volta da quando esiste il Pd un presidente del Consiglio lo abbiamo. Quindi penso che sia possibile avviare una procedura per arrivare a una modifica dello statuto tale per cui non ci sia più coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier. Serve aprire subito una discussione che consenta di affrontare i temi che dicevamo prima, la natura del Pd, la sua missione, le sue responsabilità di fronte al Paese. E auspico che l’Assemblea di sabato non sia un mini-congresso».
Comunque dovrà eleggere il suo successore: un reggente o un segretario a pieno titolo?
«È una discussione formalistica. L’Assemblea deve pronunciarsi su una persona, dare un mandato pieno a qualcuno che dovrà condurci nella fase congressuale e intanto rappresentare il Pd di fronte al Paese».
Insomma un segretario
«Ma sì, una figura che goda di un largo consenso e che sia di garanzia per tutti. Naturalmente queste sono opinioni che impegnano solo me stesso. In settimana bisognerà preparare uno sbocco positivo dell’Assemblea con l’aiuto dei segretari regionali e del coordinamento».
A tutti quelli che le stanno chiedendo di congelare le sue dimissioni fino al congresso cosa dice?
«Che io lavorerò perchè al congresso si affronti una discussione seria, vera, ma non rivedo le mie decisioni. Ho sempre detto che non mi sarei ricandidato, che bisogna mandare avanti una classe dirigente nuova, e dovremo discutere sulla base di quali criteri si arriva alla selezione. Dopodichè sono stato segretario per quattro anni duri e appassionanti, so bene che in politica si vince assieme e si perde da soli, ma so anche che la politica come qualsiasi attività umana ha una sua moralità . A questa non ho rinunciato da una vita e non intendo rinunciarci ora».
Simone Collini
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
ERA MALATA DA TEMPO, IL CORDOGLIO DI TUTTO IL PAESE
Non ha fatto in tempo a ripetere in aula quel che le aveva confidato il marito sulla strage di Via D’Amelio.
Agnese Borsellino, 71 anni, vedova di Paolo Borsellino, è morta questa mattina nella sua casa di Palermo.
Era da tempo malata. A dare la notizia è stato Salvatore Borsellino, il fratello del magistrato ucciso dalla mafia, con un post su Facebook nel quale traspare amarezza per una verità che stenta ancora ad arrivare sulla stagione delle stragi.
«È morta Agnese -ha scritto- . È andata a raggiungere Paolo. Adesso saprà la verità sulla sua morte».
LE CONFIDENZE DEL MARITO
Non ha dunque avuto il tempo di ripetere in aula quel che aveva fatto mettere a verbale parlando co i magistrati di Caltanissetta che indagano ancora sui mandanti della strage di via D’Amelio.
Un eccidio che nasconde ancora tanti misteri perchè si intreccia con l’altra strage in cui morì il fraterno amico di Paolo Borsellino, cioè Giovanni Falcone, e sulla presunta trattativa Stato-mafia. «Paolo mi accennò che c’era una trattativa tra la mafia e lo Stato – ha raccontato prima di morire- Dopo la strage di Capaci mi disse che c’era un colloquio tra mafia e pezzi infedeli dello Stato».
IL GENERALE PUNGIUTO
Fu sempre lei a raccontare che il marito era sconvolto e a svelare di aver saputon che l’ex capo del Ros, il generale Antonio Subranni, era «punciuto» (così vengono definiti gli “uomini d’onore” affiliati a Cosa Nostra).
«Paolo mi disse – aveva detto – mi ucciderà la mafia ma solo quando altri glielo consentiranno». Quelle dichiarazioni di Agnese Borsellino sono stati inserite anche agli atti del processo contro un altro ex capo dei Ros, il generale Mario Mori.
I FIGLI
Hanno voluto far sentire la loro voce anche i figli. «Stamattina se n’è andata la signora Agnese Borsellino -scrivono in una nota-.
I figli desiderano che oggi sia un momento di preghiera strettamente privato nel rispetto di una perdita che ha una dimensione prima di tutto familiare».
Lucia, Manfredi e Fiammetta invitano tutti al rispetto del loro dolore chiedendo di considerare questo come un momento strettamente privato. I funerali sono previsti per domattina alle 9.30 nella chiesa di S. Luisa di Marillac, la stessa dove si svolsero le esequie del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio.
«La Fondazione intitolata a Paolo Borsellino e a tutte le vittime della mafia – si legga ancora nella nota – ha messo a disposizione la mail info progettolegalita.it per raccogliere eventuali messaggi di testimonianza di affetto e considerazione per la signora Agnese che non ha mai smesso di chiedere, insieme ai figli, che sia fatta verità e giustizia».
L’ULTIMO MESSAGGIO
Le ultime parole in pubblico di Agnese Borsellino risalgono al 12 ottobre scorso. «Questa città deve resuscitare. Deve ancora resuscitare» disse in occasione dell’inaugurazione della nuova sede della Dia a Palermo.
A causa della malattia non aveva potuto partecipare alle manifestazioni per il ventennale delle stragi. «Dopo alcuni momenti di sconforto – aveva scritto in quella occasione – ho continuato e continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese come mio marito sino all’ultimo ci ha insegnato. Non indietreggiando nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato intorno a lui». «Io non perdo la speranza – aveva concluso – in una società più giusta e onesta. Sono, anzi, convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia».
IL CORDOGLIO
Da più parti sono arrivati messaggi di cordoglio per la scomparsa della vedova Borsellino. Primo fra tutti quello del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. «Desidero ricordare di Agnese Borsellino la esemplare sobrietà e misura in tutte le occasioni di pubblica celebrazione della figura del marito, la personale gentilezza e amichevolezza sempre mostrata nei miei confronti. Partecipo con forti sentimenti di vicinanza al dolore dei famigliari, e in particolare del figlio Manfredi, che ha raccolto l’esempio paterno di dedizione e servizio allo Stato».
Interviene anche il governatore siciliano Rosario Crocetta. «Con dolore vero sincero e immenso apprendo la notizia della morte di Agnese Borsellino, donna di singolare esempio di attaccamento e fedeltà alle istituzioni, di grande coraggio e grande forza – scrive-. L’ho incontrata circa tre settimane fa, in ospedale: la lucidità delle sue idee, la determinazione nel condurre una battaglia di giustizia, la voglia di verità contrastava con le condizioni del suo corpo indebolito dalla malattia, vissuta con consapevolezza e dignità . È morta una grande donna»
LA LETTERA
Il 9 aprile scorso Agnese Borsellino aveva scritto una lettera in segno di solidarietà col pm di Palermo Antonino Di Matteo minacciato di morte.
«Conosco, per averla vissuta, l’angoscia che in questo momento possono provare i famigliari dei magistrati. Chiedo a chi di dovere che si scuota perchè questi colleghi di Paolo non vivano il suo stesso calvario».
E aveva anche denunciato il pericolo dell’indifferenza crescente sui temi della lotta alla mafia. «Mi unisco idealmente a tutti coloro che oggi sono qui -scriveva- a testimoniare e a far sentire il loro affetto e il loro preziosissimo sostegno a quei magistrati che, nell’indifferenza di gran parte del mondo dell’informazione e della politica, stanno rischiando la vita per noi, per dissetare la nostra sete di verità e giustizia».
Alfio Sciacca
(da “il Corriere della Sera”)
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
IL CAPOGRUPPO PDL, IN GUERRA CONTRO LA TASSA, POSSIEDE UNA MEGA VILLA DI 1319 METRI QUADRI CON 14 VANI, GIARDINO E PISCINA SULLA VIA ARDEATINA A ROMA
Era raggiante Renato Brunetta quando, davanti alle telecamere di Rai News 24, nel giorno del
dibattito sulla fiducia, dichiarava: “L’Imu sulla prima casa non si pagherà a giugno nè a settembre nè a dicembre”.
Il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva appena presentato il suo programma alle Camere e il capogruppo del Pdl già saltellava dalla gioia.
In realtà Letta ha solo promesso di sospendere il pagamento ma Brunetta, incurante delle mediazioni democristiane, tagliava corto: “L’Imu non si paga perchè lo dico io che sono la maggioranza”.
Brunetta ha cinquemila e 500 ragioni per saltellare dalla gioia.
Se davvero passasse l’abolizione totale dell’Imu prima casa 2013 in aggiunta alla restituzione di quella pagata già per il 2012, come chiesto dal capogruppo Pdl, Brunetta risparmierà 5 mila e 500 euro.
L’ex ministro ha pagato 2 mila e 750 euro e altrettanti ne dovrà pagare quest’anno (se la legge non cambia) solo per la sua dimora romana.
E il caso Brunetta è un buon test per verificare l’equità delle diverse soluzioni fiscali proposte da Pd e Pdl.
Per attenuare il carico fiscale (eccessivo per tutti) sull’abitazione principale, il Pd propone di aumentare la detrazione prima casa, oggi fissata a 200 euro.
Il Pdl invece vuole abolire la tassa sulla prima casa per tutti, anche per Brunetta, che possiede un villone con 14 vani catastali, giardino e piscina sulla via Ardeatina a Roma.
La villa del capogruppo Pdl vale oggi più di un milione di euro ed è stata comprata grazie alla permuta di un altro appartamento più piccolo, che il politico Pdl aveva ottenuto a prezzo stracciato dall’Inpdai , del quale era inquilino sei anni prima.
La storia è stata raccontata da Francesca Biagiotti di Piazzapulita.
Brunetta compra nel 2005 una casa di 74 mq con veranda su Porta Latina a Roma per 113 mila euro, una somma ridicola per quella zona.
Brunetta compra con uno sconto del 40 per cento, come tutti gli inquilini del palazzo, dall’ente pensionistico dei dirigenti d’azienda, del quale l’ex europarlamentare era inquilino dagli anni Ottanta, quando arriva a Roma come consulente di Gianni De Michelis al ministero del Lavoro. La casetta di Porta Latina sta stretta a Brunetta che, dopo essersi fidanzato con l’amata Titti Giovannone, decide di acquistare una casa in campagna vicino alla zona di origine di sua moglie. La villa è distribuita su due piani.
Al piano inferiore un bagno, cucina e 4 camere, a quello superiore 4 bagni, 6 camere, più giardino e una piscina nel verde, per un totale di 1.319 metri quadri.
Per aggiudicarsi la casa sull’Ardeatina l’onorevole immobiliarista ha pagato 470 mila euro in assegni e ha ceduto in permuta l’appartamento comprato nel 2005 per 113 mila euro, ma valutato ben 600 mila euro.
In sei anni la casa dell’Inpdai ha quintuplicato il suo valore, garantendo all’onorevole Brunetta una plusvalenza di 487 mila euro.
Quello che un operaio non guadagna in una vita.
A febbraio del 2012, il ministro ha stipulato anche un mutuo di 476 mila euro, probabilmente per ristrutturare la villa, a un tasso molto vantaggioso (variabile con uno spread per la banca di solo il 2 per cento) ottenuto dalla filiale di Montecitorio del Banco di Napoli che ha una convenzione con i deputati.
Se ora Brunetta imponesse a Letta la cancellazione dell’Imu e la restituzione dell’imposta versata dagli italiani per la prima casa anche nel 2012, l’ex ministro potrebbe risparmiare 2750 euro e averne altri 2750 indietro, per un risparmio totale di 5 mila e 500 euro.
La villa di Roma è solo l’ultimo acquisto nella storia della ‘Brunetta Real Estate’.
Nella sua lunga attività accademica e politica Brunetta ha guadagnato tanti soldi.
Molti altri ne ha presi in prestito per seguire la sua passione: il mattone.
L’ex ministro possiede un casale con terreno e piscina vicino a Todi, una villetta a picco sul mare di Ravello e un’altra nel parco delle Cinque Terre più una casa a Venezia vicino a piazza San Marco.
Tutto lecito, tutto meritato.
Questo patrimonio sparso nei luoghi più belli della penisola, è stato colpito duramente dall’Imu di Monti. Il 7 gennaio, Brunetta dichiarò a Radio 24: “Tra prima e seconda rata Imu ho pagato circa 10 mila euro e ho dovuto chiedere i soldi alla banca perchè non li avevo”.
Per fortuna, un attimo prima che il conto salisse a 20 mila è arrivato l’accordo Pd-Pdl. Ovviamente lui sostiene che la vera ragione della sua foga contro l’Imu non è microegoistica, ma macroeconomica: “L’Imu non è un’ossessione morbosa, ma una tassa che ha depresso l’economia. L’eliminazione dell’Imu sulla prima casa e la restituzione di quella versata nel 2012 farà ripartire, da subito, la domanda e i consumi”.
In un momento in cui si chiedono sacrifici a malati e disabili, qualcuno potrebbe avere da ridire.
Con i 5.500 euro risparmiati da Brunetta si potrebbe pagare per esempio un’assistente scolastica a un bambino disabile per sei mesi.
A prescindere dalla giustizia sociale, poi non è chiaro nemmeno il senso economico dell’abolizione dell’Imu.
Perchè la restituzione di 5 mila e 500 euro a un ricco possidente come Brunetta, che per il 2011 ha dichiarato 270 mila euro, dovrebbe rilanciare l’economia italiana mentre il pagamento di uno stipendio equivalente a un assistente sociale dovrebbe deprimerla?
Davvero è questa la ricetta più giusta per rilanciare l’economia?
Prima di accettare i diktat di Brunetta, il premier Enrico Letta dovrebbe rispondere a questa domanda.
Marco Lillo
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
I DIPENDENTI GUADAGNANO CINQUE VOLTE PIU’ DEI NORMALI DIPENDENTI STATALI… UN SERVIZIO DELLE “JENE” RIVELA I FURBETTI
Guadagnano 150 mila euro all’anno, cinque volte un normale impiegato pubblico.
E oltre alle normali mensilità , al contrario di tutti gli altri statali, i dipendenti di Camera e Senato ricevono tredicesima, quattordicesima e quindicesima.
Inoltre, facendo un raffronto con i costi della politica dei altri Paesi europei, guadagnano quasi il quadruplo ai loro colleghi inglesi.
Eppure, denuncia un servizio delle “Iene”, molti di loro bluffano sugli orari.
Tutto scatta dalla segnalazione di una persona che lavora in un ufficio del Senato. «Arrivano e, dopo aver timbrato, si allontanano» dice l’anonimo.
«I furbetti in Parlamento non sono solo tra i politici» spiega.
E molti colleghi vanno in giro per Roma, in pieno centro.
«Il Senato ha diversi uffici sparsi per il centro di Roma, per cui in realtà è possibile che ci siano riunioni, incontri, per cui è normale che sia gente che vada da un palazzo all’altro. Però, se tu quando esci, al posto di fare il tuo lavoro in un altro ufficio, che ne so per una riunione, te ne vai a spasso, a fare la spesa, a giocare a lotto, al bar, ad accompagnare dal dentista tuo figlio e poi ritorni dopo due ore in ufficio come se niente fosse, allora lì la storia cambia, perchè tu, in questo modo, tu dipendente pubblico ti stai facendo pagare dagli italiani per andare ad accompagnare tuo figlio per farsi curare le carie. Questo non è molto simpatico».
Scattano le verifiche, e Filippo Roma, inviato delle Iene, immortala i dipendenti che si avviano normalmente verso il loro ufficio e, dopo aver timbrato, “beggiano” con il tesserino per uscire subito dopo.
«Sono stufa- dice la dipendente che ha denunciato il malcostume dei colleghi- di sentire queste stesse persone che prima rubano e poi si lamentano del paese, della disonestà dei politici e ne discutono, magari stando al bar piuttosto che stando in ufficio a lavorare. Si è perso proprio il senso della realtà ».
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
KYENGE: “APRIRE UN DIALOGO”… BOLDRINI: “IN ITALIA AUSPICABILE RIVEDERE LA LEGGE SULLA CITTADINANZA”….LA BECERODESTRA IN CRISI DI NERVI: SONO VENTI ANNI CHE SPECULA SUGLI IMMIGRATI
Missione: legge per la cittadinanza. 
Il neo ministro Cecile Kyenge e’ tornata a Modena, città dove arrivò alcuni anni fa dal Congo e dove, prima di essere eletta in Parlamento, praticava la professione di oculista. Proprio dalla cittadina emiliana, la titolare dell’Integrazione ha ribadito la priorità del suo incarico, il riconoscimento dello ius soli.
Per farlo, però, è necessario intavolare un dibattito con il Pdl.
“Un governo — ha sottolineato il ministro — è come una squadra, e quindi bisogna lavorare insieme. Mi piacerebbe, però, che partisse un percorso di dialogo fra le diverse parti politiche sul punto dello ius soli. Il mio compito è dare a chi ha scelto questo paese la possibilità di fare fino in fondo il suo percorso migratorio”.
Le cifre sono alte.
“Dobbiamo riuscire a dare identità ai molti figli, sono un milione di bambini, di origini straniere, che ancora oggi attendono di avere la cittananza italiana”.
Per questo per il neoministro “sarebbe giusto” che chi nasce in Italia potesse essere considerato cittadino italiano.
Per quanto riguarda il tema caldo dell’accoglienza, Kyenge ha detto di non amare la parola ‘filtro’: “E’ un termine — ha spiegato — che mi spaventa. Il mio compito è dare a chi ha scelto questo paese la possibilità di fare fino in fondo il suo percorso migratorio”.
BOLDRINI: “AUSPICABILE”
La neo ministro ha subito incassato il sostegno della presidente della Camera Laura Boldrini, che si è dichiarata apertamente a favore: “In Italia sarebbe veramente auspicabile rivedere la legge sulla cittadinanza — ha detto — e da lì sviluppare una normativa che sia all’altezza delle nuove sfide”.
PDL: “SCELTA DEMAGOGICA”
Dal Pdl, invece, è arrivata una pioggia di critiche. “Non sono accettabili colpi di mano o scelte demagogiche“, è il commento del vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri.
“Dico anche ai ministri che il passaggio allo ius soli non è ipotizzabile. La concessione automatica della cittadinanza a chiunque nasca in Italia sarebbe un errore”, ha proseguito Gasparri.
PD: “PRINCIPIO DI CIVILTA’”
“Non accettiamo diktat sullo ius soli — ribadiscono in una nota congiunta un gruppo di senatori e deputati Pd — La legge sulla cittadinanza a chi nasce nel nostro Paese va approvata. Lo ha rammentato spesso il capo dello Stato ed è materia che ci avvicina all’Europa“.
E la replica a Gasparri è arrivata dal deputato del Pd Khalid Chaouki: “Gasparri eviti di fare di un principio di civiltà , più volte richiamato dal presidente Napolitano, una battaglia ideologica sulla pelle dei bambini”.
La polemica si è fatta poi più aspra con il vicepresidente del Senato a mantenere il punto. “Lo ius soli non sarà mai legge della Repubblica italiana”.
PROPOSTA DI LEGGE PD
All’inizio delle legislatura il Pd ha presentato alla Camera una proposta di legge che rende più semplice diventare italiani per i figli degli immigrati: ottiene la cittadinanza chi nasce in Italia con almeno un genitore residente da cinque anni e il minore che arriva nel paese e conclude almeno un ciclo scolastico (elementari, medie, superiori o formazione professionale). I firmatari sono Bersani, il ministro Kyenge, il capogruppo Roberto Speranza e il responsabile per i ‘nuovi italiani’ Khalid Chaouki (italo-marocchino).
LA PROPOSTA DI SCELTA CIVICA
Lunedì anche Scelta civica presenterà una sua proposta di riforma della legge di cittadinanza, firmata dal deputato Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio.
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Maggio 5th, 2013 Riccardo Fucile
NADIRA, UN MASTER VINTO IN ITALIA CENANDO CON LO YOGURT RISPARMIATO ALLA MENSA DI MEZZOGIORNO… I SUOI EROI SONO FALCONE E BORSELLINO, UN FIGLIO CHE A TRE ANNI SAPEVA GIA’ L’INNO DI MAMELI A DIFFERENZA DI TANTI CAZZARI RAZZISTI NOSTRANI
Nadira è nata in Algeria da madre turca e padre mezzo tedesco e mezzo berbero.
Quando le chiedono di che razza è, risponde: umana.
Suo padre, Rachid Haraigue, ha combattuto il colonialismo francese e poi l’integralismo islamico, da presidente della Federcalcio algerina aprì alle donne gli stadi, ma soprattutto gli studi: chiamava la cultura «il passaporto delle algerine per il viaggio verso la libertà ».
Si è preso tre pallottole nel cuore, alle otto di un mattino di gennaio.
Ma prima era riuscito a far prendere a Nadira quel famoso passaporto.
La laurea, il concorso, la borsa di studio per un master dell’Eni a Milano.
Nadira ci è arrivata senza un soldo e senza sapere una parola della nostra lingua: la studiava di notte, cenando con lo yogurt risparmiato alla mensa di mezzogiorno.
Si è piazzata fra i primi dieci, è stata assunta e si è innamorata di uno degli altri nove.
Oggi ha una famiglia e una identità italiane.
A tre anni suo figlio sapeva già l’inno di Mameli a memoria e ovviamente glielo aveva insegnato lei, che per l’Italia nutre la passione cieca e assoluta degli amori conquistati con fatica.
Ogni volta che c’è un attentato, come quello al carabiniere di Palazzo Chigi, le si risveglia dentro qualcosa di tagliente e pensa al padre, a Falcone e a Borsellino: i suoi eroi.
Il bambino di Nadira ha mille sfumature nel sangue, una più di lei, che nella lettera più patriottica che abbia mai ricevuto scrive: «Credo in un Paese dove neri, omosessuali, atei, cristiani, musulmani ed ebrei possano vivere senza essere insultati. Dove una donna nata in Congo possa diventare ministra senza essere insultata».
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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