Destra di Popolo.net

I BLACK BLOC CAMBIANO NOME: PER LA SANTANCHE’ DIVENTANO BLACK BOX

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

A MARGINE DELLA SENTENZA CHE L’HA VISTA CONDANNATA A 4 GIORNI DI ARRESTO PER LA MANIFESTAZIONE ANTI-BURKA, SPOPOLA SUL WEB LA GAFFE DELLA PITONESSA

“E’ proprio vero che la legge è uguale per tutti, ho ricevuto lo stesso trattamento che hanno ricevuto i centri sociali, i no Tav e i black box”.
Daniela Santanchè furiosa dopo la condanna ricevuta per manifestazione non autorizzata, dimentica il nome dei “devastatori urbani” e consegna alle Tv che raccoglievano le sue reazioni alla sentenza, una chicca che spopola sul web, inventando la nuova categoria di black box, una via di mezzo tra gli attivisti no global e i pacchi in consegna da parte dei corrieri.
Ricordiamo che nella sua veste di imputata il giudice monocratico l’ha condannata a 4 giorni di arresto e a cento euro di ammenda, con il riconoscimento delle attenuanti generiche: la pena che è stata commutata in un’ammenda di 1.100 euro.
La richiesta di pena formulata dal pubblico ministero era stata di un mese di arresto e 100 euro di multa.
Nelle sue vesti di parte offesa, invece, a suo favore il giudice ha disposto un risarcimento di diecimila euro che dovrà  versarle El Badry, a sua volta condannato anche a una multa di 2.500 euro per il reato di lesioni.
Per lui il pm aveva chiesto un’ammenda di 2mila euro.

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VIOLANTE HA SBAGLIATO PARTITO: “IL PD DOVEVA DIFENDERE I DIRITTI DI BERLUSCONI”

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

IL CAVALIERE INVECE HA IL DISCO ROTTO: “COME POSSONO GLI ALFANIANI COLLABORARE CON CHI MI HA UCCISO POLITICAMENTE?”

“Un partito come il Pd che non è capace di garantire i diritti dei suoi avversari non è credibile“. Queste parole non sono state pronunciate da un “falco” di Forza Italia, ma da Luciano Violante, esponente dello stesso Partito democratico.
“Silvio Berlusconi aveva il diritto di difendersi davanti alla giunta per le immunità  del Senato”, ha aggiunto l’ex presidente della Camera, intervenendo alla presentazione di un libro all’Università  Luiss insieme al ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello.
Un concetto, quello del diritto alla difesa del Cavaliere, che l’esponente democrat aveva già  espresso in passato e che ribadisce con forza una volta chiusa la questione decadenza.
“E’ grave che alcuni senatori del Pd abbiano espresso il loro orientamento prima di aver consultato tutti i documenti a loro disposizione”.
Secondo Violante, il berlusconismo “ha contagiato la sinistra nel senso che è stato anteposta la rivincita sull’avversario rispetto al dato programmatico che consente agli elettori di fare una scelta politica. Si tratta di una visione distorta della politica perchè l’unico problema è vincere, mentre una classe dirigente che si candida al governo deve sapere che si tratta di un onore, non di un privilegio”.
E se la decadenza di Berlusconi crea tensioni a sinistra, figuriamoci sull’altro versante del Parlamento. “Non capisco come i nostri amici possano collaborare con chi ha ucciso politicamente il loro leader, la gente li ha già  giudicati”, è stata la stoccata lanciata dall’ex premier nei confronti del Nuovo Centrodestra.
E anzi, ipotizza un futuro senza Alfano come alleato: “Se ci sarà  il ritorno al Mattarellum potremo andare da soli”.
“Al Senato, il giorno del voto sulla mia decadenza, c’è stato un colpo di Stato“, ha rincarato la dose il Cavaliere, parlando all’assemblea dei gruppi di Forza Italia. Berlusconi ha tirato fuori anche un suo pezzo forte, l’attacco contro Magistratura Democratica: “Le tesi estremiste non fanno bene, ricordiamo come si arrivò alle brigate rosse. La P2 era un’accolita di illusi, mentre questi sono organizzati per scalare potere, ruoli, posizioni”.
Ma da Forza Italia smentiscono che le frasi su Magistratura Democratica riportate dalle agenzie di stampa corrispondano a quelle effettivamente pronunciate.

(da “La Repubblica“)

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SICILIA, IL DIRIGENTE SENZA DIPENDENTI CHE SI DA’ GLI ORDINI DA SOLO

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

ALLE DIPENDENZE DELLA REGIONE I DIRIGENTI SONO 1.818, UNO OGNI 9 LAVORATORI… NELLE ALTRE REGIONI A STATUTO SPECIALE SONO 1 OGNI 19

Per quanto il fatto possa risultare incredibile, c’è qualcosa che lascia attoniti ancora più del numero. Già  di per sè, come viene sempre ricordato, spaventoso.
Sbigottisce che uno dei 1.776 dirigenti della Regione Siciliana, numero paragonabile alla somma di tutti i papaveri di tutte le quindici Regioni a statuto ordinario, diriga soltanto se stesso.
Si trova nel paradiso di Pantelleria, ed è l’unico dipendente del Parco archeologico.
Dirigente con le mostrine sul petto.
Al pari del suo collega di un altro parco archeologico siciliano, quello di Morgantina. Idem alla «Sezione operativa di assistenza tecnica» dell’assessorato all’Agricoltura, ufficio di Buseto Palazzolo.
Anche questi danno il loro onesto per quanto piccolo contributo ad alzare la media. Perchè con 17.531 dipendenti a tempo indeterminato, compresi i 1.776 dirigenti (cui se ne devono aggiungere altri 41 esterni, per un totale di 1.818), la Regione siciliana è come un esercito con meno di nove soldati semplici per ogni ufficiale.
Un rapporto abnorme. Come dimostra la media di un dirigente ogni 19 dipendenti che si registra nel complesso di tutte le Regioni a statuto speciale, nessuna delle quali è mai stata particolarmente tirchia nella distribuzione dei galloni.
Ma nella relazione sul personale messo a punto dagli uffici di palazzo dei Normanni il sito internet LiveSicilia ha scovato decine e decine di altre perle.
Per esempio, il numero dei dipendenti regionali di stanza a Palermo: 7.647, il doppio degli impiegati di tutta la regione Lombardia.
Per esempio, gli stipendi che vengono pagati per l’ispettorato regionale del lavoro di Castelvetrano, in Provincia di Trapani: 77, contro i 17 di Marsala, che ha due volte e mezzo i suoi abitanti.
Per esempio, le dimensioni dell’ufficio legale della regione: 102 avvocati.
E che dire dell’affollamento dei musei? Affollamento non di visitatori, s’intende, quanto di custodi e impiegati.
Al «Pirandello» di Agrigento ce ne sono 66. Ben sessantotto, invece, sono al «Pietro Griffo». Mentre il museo «Alessi» di Enna si accontenta di 55 persone, esattamente come il «Piepoli» di Enna.
Numeri che ovviamente si devono aggiungere alle 244 buste paga del dipartimento dei Beni culturali. Ancora.
Il dipartimento «Acque e rifiuti» ha 511 dipendenti. Al Corpo forestale se ne contano 480. Al dipartimento del Bilancio, 229. All’Ambiente, 220: uno in più rispetto al dipartimento «Interventi strutturali in agricoltura».
Per non parlare delle 127 (centoventisette) persone dell’autoparco regionale.
E qui è in discussione soltanto una parte dei dipendenti della Regione siciliana, che in realtà  sono molti di più, anche senza voler considerare l’assistenzialismo puro e semplice.
Ovvero quei 28 mila lavoratori precari stipendiati formalmente dall’ente ma che sono in forza ai Comuni.
Ai 17.531 lavoratori fissi si deve infatti aggiungere il personale esterno e a tempo, che porta il totale, dice la Corte dei conti, a 20.213 unità .
Ci sono poi i dipendenti delle società  partecipate: circa 7 mila. E lì si apre un altro capitolo.
A onor del vero, bisogna precisare che il numero degli stipendi pagati dalla Regione sta lentamente diminuendo.
In compenso, però, aumentano le pensioni, che escono pur sempre dalle casse regionali. Soltanto lo scorso anno ne sono state liquidate 580 nuove di zecca.
Con il risultato che al 31 dicembre gli assegni previdenziali erogati dall’amministrazione di palazzo dei Normanni erano 16.377.
Delle 580 di cui sopra ben 365, cioè quasi i due terzi del totale, erano pensioni particolari.
Concesse cioè in base a una normativa che sarebbe stata archiviata con decorrenza primo gennaio successivo, grazie alla quale era consentito ai dipendenti di pensionarsi a qualunque età  avendo un genitore disabile.
Prima che la tagliola calasse, ne hanno approfittato dunque in 365.
Uno al giorno.

(da “il Corriere della Sera”)

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PESCARA, LA GIUNTA CHE SI VANTAVA “STOP AGLI ALLAGAMENTI, IMPEGNO MANTENUTO” ANNEGA NELLA SUA PRESUNZIONE

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

L’INTERVENTO DEL CONS. COM. RENATO RANIERI: “DI FRONTE ALLA PREVISIONE DI ABBONDANTI PIOGGE, IL SINDACO PENSAVA DI AFFRONTARE IL PROBLEMA “TAGLIANDO LE ERBACCE”

Kahlil Gibran diceva “La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta, ma di come danzare nella pioggia”, un concetto che dovrebbe servire da traccia per gli amministratori locali quando compiono le proprie scelte, soprattutto in riferimento non tanto al modo di limitare i danni, quanto possibilmente a come evitarli.
Pescara, in questi giorni, ha subito la violenza della forza della natura, con gli stessi lutti, con le medesime tragiche conseguenze che vediamo abbattersi su ogni località  del nostro “bel paese” ogni qual volta si verifica una forte pioggia o nevicata.
Non voglio entrare nella polemica se e come gli allagamenti potessero essere evitati, sarebbe troppo facile, ma sicuramente erano stati previsti.
Il Sindaco e la sua Giunta sapevano dei forti fenomeni atmosferici, gli stessi, che di fatto, nella loro indifferenza e superficialità  più totale, hanno messo in ginocchio interi quartieri e distrutto attività  commerciali.
Emblema della preventiva superficialità  sono i comunicati stampa emanati dal Comune il giorno precedente ai tragici fatti, l’ 1 dicembre.
Il primo di allerta massima per le previste abbondanti piogge, il secondo di avviso di falciatura delle erbe dai tombini e manutenzione delle strade.
Come si fa a annunciare interventi di routine del genere sapendo che il giorno dopo avrebbe piovuto così forte?
Le questioni sono due.
O si è voluto comunque annunciare degli interventi per scopi elettorali o si pensava che le piogge non avrebbero causato disagi.
Purtroppo la morte della donna nel sottopasso fa capire che la prevenzione non c’è stata, che davvero qualcuno pensava di andare a tagliare le erbacce per la città  e che le continue avvisaglie della Protezione Civile fossero semplici ed ordinarie previsioni del tempo.
Nessuno che abbia pensato di chiudere il sottopasso in tempo…
Dopo l’acqua, da oggi si iniziano a contare i danni.
Quei danni che ora i cittadini dovranno pagare oltre alle imminenti tasse Comunali che rischiano di aumentare a causa di chi doveva evitare tutto ciò ma che, invece, ha speso inutilmente milioni di euro pubblici in interventi sbagliati.
E i manifesti elettorali del sindaco “Stop agli allagamenti. Il governo dei fatti. Impegno mantenuto” suonano oggi come una tragica comparsata.

Renato Ranieri
Cons. Comunale Pescara – Gruppo “Blu per l’Italia”
Presidente Commissione Finanze Comune di Pescara

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ECCO PERCHE’ BERLUSCONI NON POTRA’ CANDIDARSI ALLE EUROPEE IN UN ALTRO STATO DELL’UNIONE

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

LA DIRETTIVA 93/109/CE, PROPRIO PER EVITARE STRATAGEMMI, RICHIEDE UN ATTESTATO AL PAESE DI ORIGINE IN CUI SI CERTIFICHI CHE NON E’ VENUTA MENO L’ELEGGIBILITA’ DEL CANDIDATO

Negli ultimi giorni molto si è scritto sulla possibilità  che Silvio Berlusconi possa presentarsi candidato alle elezioni europee in un altro Stato membro dell’Unione (si parla di Ungheria, Bulgaria ed Estonia): un sistema per riacquistare l’immunità  che lo preserverebbe da eventuali provvedimenti restrittivi della libertà  personale.
Alla base sarebbe necessario fare acquisire a Berlusconi la residenza in uno Stato dell’U.E. ed ivi candidarlo al Parlamento europeo, così da eludere i rigori della legislazione italiana.
Com’è noto, infatti, ogni cittadino dell’U.E. ha diritto di candidarsi al Parlamento europeo in qualunque Stato dell’Unione abbia la residenza.
A un attento esame della normativa vgente in realtà  la strada sarebbe sbarrata, e non solo perchè il requisito della residenza sarebbe già  di per sè di difficile acquisizione per una persona priva di passaporto.
La disciplina europea (direttiva 93/109/CE del Consiglio del 6 dicembre 1993), paventando un simile stratagemma, infatti, prevede che il cittadino dell’U.E. che vuole candidarsi in uno Stato membro di residenza di cui non ha cittadinanza deve, a pena d’inammissibilità , presentare “un attestato delle autorità  amministrative competenti dello Stato d’origine che certifichi che egli non è decaduto dal diritto di eleggibilità  in tale Stato o che a dette autorità  non risulta che il cittadino sia decaduto da tale diritto” (art. 10.2).
A tal fine lo Stato membro di residenza è tenuto a verificare “che il cittadino dell’Unione che abbia manifestato l’intenzione di esercitare il proprio diritto di eleggibilità  non sia decaduto da tale diritto nello Stato membro d’origine per effetto di una decisione giudiziaria individuale o di una decisione amministrativa, purchè quest’ultima possa essere oggetto di ricorso giurisdizionale” (art. 6.2).
Due tentativi il cui esito positivo, dunque, appare altamente improbabile.

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A ISOLA CAPO RIZZUTO CROLLA L’IPOCRISIA: “LIBERA” CHE FARA?

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

“DOPO L’ARRESTO DEL SINDACO “ANTIMAFIA” E’ TEMPO DI DENUNCIARE CHI USA L’ANTIMAFIA PER COSTRUIRSI UNA PATENTE DI CREDIBILITA'”: LA PROPOSTA DELLA “CASA DELLA LEGALITA'”

La ‘ndrangheta, come ogni altra organizzazione mafiosa, sia Cosa Nostra o Camorra, ha capito da tempo che deve saper “fare antimafia”.
Ciò soprattutto attraverso i politici, gli amministratori pubblici. A volte anche con associazioni, comitati e gruppi che si professano antimafia su un particolare territorio. Usare “l’antimafia” per costruirsi patentini di credibilità . Usare “l’antimafia” per salvaguardare i propri sporchi interessi.
Questo è un elemento che se si vuole fare antimafia sul serio, nel concreto, dal punto di vista sociale, culturale, nella cosiddetta “società  civile”, non si può ignorare. €
Se lo si ignora si rischia di generare mostri. Di farsi, più o meno consapevolmente, strumento delle organizzazioni mafiose per perseguire i propri affari.
Più volte noi abbiamo denunciato il rischio di “accreditare” con patentini antimafia soggetti, a partire da politici ed amministratori pubblici, che di antimafia non avevano proprio nulla, ed anzi vedevano la presenza di pesanti ombre se non ben altro di peggio.
Questo mettere in guardia, questo indicare alcuni casi verificatisi, è stato inutile. La risposta, ad esempio, di “Libera” è stata quella di querelarci…
Dopo i fatti di Isola Capo Rizzuto, dell’ex sindaco Carolina Girasole, arrestata questa mattina per i legami con la cosca degli Arena finalizzati alla sua elezione, quella stessa Girasole eretta da Libera a “simbolo dell’antimafia” in Calabria, se Libera vuole fare quel bagno di umiltà  che suggerivamo recentemente e sedersi ad un tavolo con gli “altri” dell’antimafia, per cambiare radicalmente ed eliminando certe storture, noi siamo disponibili, come pensiamo lo siano anche altri.
Garantire alle strutture che fanno “antimafia” gli anticorpi necessari ad evitare contiguità  con i contigui, e collaborazioni con soggetti tutt’altro che limpidi ed in certi casi complici veri e propri delle mafie, è un dovere, crediamo, a cui non ci si può sottrarre.
Così come crediamo sia da considerare un dovere il rifiutare finanziamenti da chi non è trasparente o coerente, come anche eviatare di ‘”abbracciare” strutture o singoli che è opportuno tenere (e, nel caso, mettere) ben alla larga.
Libera ha querelato noi ed altri che hanno osato indicare il problema. Con il blocco politico-economico con cui ha scelto di operare, facendosi “di parte”, ha cercato di annientare, isolare e delegittimare chi osava non allinearsi indicando certe incongruenze, come, ad esempio, l’accettare finanziamenti da chi limpido non era. Crediamo che quanto accaduto ora imponga davvero un cambio di passo.
Noi, per gli attacchi e gli insulti subiti (tutti documentati) non abbiamo mai fatto querela a Libera ed ai suoi esponenti. Non dobbiamo quindi da sotterrare alcuna “ascia di guerra”.
Se loro vogliono ritirare la querela contro di noi, perchè si era osato metterli in guardia indicando certe storture, noi accetteremo la remissione e saremo a quel punto pronti ad un dialogo e confronto costruttivo che è quello che, da sempre, abbiamo auspicato, nel solo interesse, lo ripetiamo, dell’eliminare le storture utili alla mafia e non certo all’antimafia.
Ma attenzione: un dialogo e confronto serio aperto a tutti, non solo a noi, ma anche agli altri che in questi anni sono stati messi al bando da Libera, che ha preferito tenere rapporti con certi amministratori pubblici e politici, nonchè anche con certi meccanismi assai discutibili.
La pari dignità  deve essere la base perchè anche da questo approccio passa l’assunzione di corresponsabilità  che impone a tutti, senza esclusione alcuna, di fare la propria parte per evitare lo “stupro” dell’antimafia.
Ognuno di noi ha propri metodi di lavoro e di azione, in alcuni casi molto diversi, anche radicalmente diversi. Ognuno di noi ha convinzioni diverse, ad esempio, anche sulla gestione dei beni confiscati, che noi vediamo viziata di troppe storture dettate dalla sete di business e viziate da un pericolo clientelismo.
Noi non vogliamo imporre il nostro punto di vista, il nostro essere, ad altri.
Ma confrontarsi, in un Paese civile, nelle differenze, anche con toni accesi, dovrebbe essere la prassi. Rispettarsi dovrebbe essere la norma.
Si voleva dipingere Libera come un santuario imbiancato che non sbaglia mai. Non lo è. Tutti sbagliano. Tutti sbagliamo.
Si è assistito ad una volontà  di isolare, delegittimare ed annientare chiunque fosse “altro” da Libera. Si è posto sul banco degli imputati chi indicava i problemi, anzichè affrontare e risolvere i problemi indicati.
La questione è accettare che esistano “altri”. Altri soggetti. Altri metodi. Altre convinzioni. Altre sensibilità .
Ascoltandole si possono correggere errori, sbandamenti e superficialità . Si possono quindi evitare conseguenze devastanti che rischiano di spezzare la speranza di tanti ragazzi che credono e vogliono un’antimafia vera e concreta.
Speriamo che con l’ipocrisia caduta a Isola Capo Rizzuto si volti pagina. Questa svolta è necessaria anche per quei ragazzi e quelle ragazze che si sono visti presentare la Girasole – così come, in altri territori, altri soggetti imprensantabili – quale simbolo dell’Antimafia.
C’è chi come noi, svolgendo l’attività  di contrasto alle mafie, sente, da sempre, come primo dovere quello di evitare di essere “usati”, altri hanno chiuso gli occhi e si sono fatti usare, hanno permesso l’abuso della fiducia di tanti.
E’ ora che chi ha chiuso gli occhi li apra.

Casa della Legalita’
Ufficio di Presidenza

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IL TAGLIO ALLE PROVINCE RISCHIA LA MORTE IN CULLA

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

LA RELATRICE (DI FORZA ITALIA) SI DIMETTE, LA RAGIONERIA HA DUBBI E NCD STA VALUTANDO

Doveva essere il primo spiraglio di luce sull’abolizione delle province. Rischia ancora la morte in culla, tra dubbi di incostituzionalità  e di generare ulteriori costi anzichè risparmi. Certo sarà  il primo banco di prova dei nuovi squilibri che attraversano parlamento e governo.
Comunque sia è iniziata in salita ieri alla Camera la discussione generale sul fantomatico “riordino” degli enti dopo che Forza Italia ha annunciato l’intenzione di votare contro, togliendo definitivamente il proprio appoggio al testo elaborato dal ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Graziano Delrio.
Il relatore di maggioranza Elena Centemero (Fi) si è dimessa dall’incarico, celebrando di fatto il primo atto parlamentare di rottura tra ex alleati di larghe intese e il passaggio all’opposizione dei berlusconiani.
A stretto giro arriva anche il no, scontato, della Lega e perfino qualche settore di Ncd mostra reticenze anche se diversi esponenti assicurano di tener fede all’impegno.
Nessuna apertura dai Cinque Stelle che parlano apertamente di “farsa e di finta abolizione”.
Parla di “requiem” della riforma del titolo V Arcangelo Sannicandro di Sel.
Mercoledì la discussione va avanti ma visti gli ultimi sviluppi non è escluso che Pd e governo restino col cerino in mano e il voto, calendarizzato per giovedì, possa riservare ancora sorprese.
Alla fine della discussione Delrio, che ci ha messo la faccia, non nasconde il rischio che, se salta tutto, tocca ripartire da zero. Di nuovo.
Qualcuno, distratto, potrebbe restare sorpreso: ma come, se ne parla da anni e siamo ancora all’inizio della discussione e con la riforma ancora in mezzo alle onde?
Così è, nonostante i fiumi d’inchiostro spesi e le promesse degli ultimi governi.
Vero è che il testo è molto lontano dall’abolizione auspicata per la quale servirà  un disegno di legge costituzionale che è ancora ai blocchi di partenza, vista la bocciatura del “Salva Italia” attrezzato a suo tempo da Monti da parte della Consulta.
La Corte aveva contestato la decretazione d’urgenza per questa materia (e Brunetta ieri ha rilanciato il bastone nell’ingrannaggio presentando una questione pregiuziale sul punto).
E così, tra veti incrociati e aporie costituzionali, ha preso quota la soluzione intermedia del ddl Delrio che demansiona le province ma non le cancella.
Per il momento — se l’iter andrà  avanti — la riforma riduce le loro funzioni, le rende enti di “area vasta” con funzioni di coordinamento. I consiglieri provinciali non verrano più eletti direttamente dai cittadini, ma fra i Comuni stessi.
Di più, per ora, non si poteva.
Raggiungere un testo condiviso in commissione, sostiene chi è intervenuto ieri, è stato già  un calvario. Anche perchè, va ricordato, il tempo stringe.
Con un emendamento in Senato alla legge di stabilità  è stata prorogata fino al 30 giugno la scadenza naurale di 54 province.
Anche qui sta il nodo politico, difficile da confessare, che farà  la differenza giovedì.
Il vicepremier Angelino Alfano, per dire, da Padova aveva ammonito: “Non è che aboliamo le Province per creare degli enti di secondo livello in cui vince a tavolino la sinistra e non accetteremo mai di mandare a casa i presidenti di centrodestra nelle aree metropolitane per sostituirli con i sindaci dei relativi capoluoghi, tutti di sinistra”.
Mentre Roberto Formigoni ieri ha ribadito: “Noi siamo per l’abolizione totale. Punto”.
Il Pd che non si aspetta scherzi mette comunque le mani avanti: “Sarebbe ben strano se Ncd che con 5 ministri del governo ha approvato il testo ora si tirasse indietro”, dice Matteo Richetti.
Resta da chiarire se la riforma porterà  risparmi. Un sospetto che ha trovato addentellati importanti nella bocciatura della Corte dei Conti che ha manifestato dubbi sugli effetti determinati dal temporaneo passaggio di funzioni dalle province alle città  metropolitane. Il ministro Delrio ha ribadito ieri che “certamente sulle funzioni generali di amministrazione e controllo che oggi valgono due miliardi e qualche decina di milioni di euro e che solo per 900 milioni di euro sono a carico del personale potremo fare grandi risparmi”.
Ma dai banchi dell’opposizione le cifre vengono contestate. Dalila Nesci (M5S), sostiene che lo “svuota province” sia un pallido ricordo delle promesse di abolizione.
L’Unione delle Province, il rischio che la misura-cuscinetto comporti addirittura più costi, rilevando come da tre città  metropolitane si sia passati a 10 nel testo del governo e poi 15, con non precisate ricadute in termini di finanze pubbliche.
Ieri , per dire, alla notizia che Catania poteva saltare Enzo Bianco è volato a Roma per perorare la causa e ricevere assicurazioni.
Nelle stesse ore c’è stato anche il giallo sul parere che la Ragioneria Generale dello Stato ha fornito alla Commissione bilancio circa le necessarie coperture rispetto al patto di stabilità  interno.
Ma a stretto giro è arrivato il nullaosta dalla commissione Affari Costituzionali.
E dunque si procede tra i dubbi.

Thomas Mackinson
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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TRENI, CORSE LOCALI TAGLIATE IN DIECI REGIONI, MA IL MINISTERO FA SCONTI SUL’ALTA VELOCITA’

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

TRENITALIA E NTV PAGHERANNO IL 15% IN MENO PER LA RETE, MENTRE MORETTI VUOLE TASSARE I PENDOLARI… RISCHIO PROCEDURA INFRAZIONE UE: “PASSEGGERI POCO TUTELATI”

I nuovi orari arriveranno solo il 15 dicembre, ma il trasporto ferroviario locale vive settimane di fibrillazione per le annunciate soppressioni di corse e tratte: nuove cancellazioni all’orizzonte in 10 Regioni stanno provocando proteste tra i pendolari e sono oggetto di interrogazioni e interpellanze parlamentari.
Il fenomeno dura da anni: secondo Legambiente, in 13 Regioni tra il 2011 e il 2012 si è assistito ad un taglio di treni e corse in media del 5% ogni anno, che ha toccato punte del 15% in Puglia. Ferrovie dello Stato annuncia l’arrivo di nuove carrozze destinate alle tratte locali, ma da sempre più parti si punta il dito contro l’alta velocità : “Si dà  priorità  ai treni veloci, investendo e migliorando i tratti extra-urbani della rete — spiega Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente — per quelli urbani, invece, i fondi latitano e ritardi e disagi aumentano”.
Il tutto mentre il governo fa uno sconto del 15% sul canone per l’uso dell’infrastruttura per l’Alta Velocità  a Trenitalia e Ntv e l’Europa pressa l’Italia perchè si adegui alle direttive comunitarie sui diritti dei passeggeri: Roma è a rischio deferimento davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Gli ultimi tagli alle tratte locali
A ottobre varie Regioni hanno deciso di usare le forbici. Il Piemonte ha annunciato nuovi tagli per risparmiare 5 milioni: a meno di ripensamenti, dal 14 dicembre cesseranno il servizio 18 treni che collegano la regione con la Liguria, creando disagi a oltre 2mila pendolari. Esemplare, poi, la vicenda degli interregionali Milano-Venezia.
A luglio la Regione Veneto ne aveva soppressi 8, sostituendoli con i più lenti regionali e creando disagi a circa 10 mila utenti.
“Ora la Lombardia ha ripristinato la tratta, ma solo fino a Verona — spiega Dario Balotta, responsabile trasporti Legambiente della Lombardia — e non garantendo le coincidenze. Così per andare a Venezia ed evitare il trasbordo a Verona, i 4mila pendolari giornalieri tra le due regioni saranno costretti a servirsi dei Frecciabianca, che costa dal doppio al triplo di un interregionale. Un vero favore all’Alta velocità ”.
A settembre, invece, era toccato alla Calabria: 14 i treni locali soppressi, decisione che aveva spinto il Pd a presentare un’interrogazione alla Camera.
La scure si è abbattuta anche sugli Intercity: a fine ottobre Trenitalia ha deciso di tagliarne 12 tra la Toscana e altre 8 Regioni, dal Friuli alla Campania.
I pendolari sono scesi sul piede di guerra e la politica si è mossa: il 24 ottobre i governatori interessati hanno scritto al presidente del Consiglio Enrico Letta e il Pd ha presentato un’interpellanza alla Camera.
“Durante il periodo natalizio il servizio sarà  assicurato”, ha fatto sapere il sottosegretario ai Trasporti, Erasmo D’Angelis. Ma per l’anno nuovo non c’è certezza.
Ma il ministero fa lo sconto a Trenitalia e Ntv
Un decreto del ministero dei Trasporti datato 10 settembre 2013, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 19 settembre, taglia del 15% le tariffe di pedaggio per l’Alta Velocità  pagate da Trenitalia e Ntv al gestore dell’infrastruttura, Rete Ferroviaria Italiana.
A proporre lo scontro, si legge nel testo, era stata la stessa Rfi.
La motivazione: gli utili del biennio precedente erano stati più alti del previsto e i conti dell’azienda “devono presentare un tendenziale equilibrio tra i ricavi da riscossione dei canoni, le eccedenze provenienti da altre attività , i contributi pubblici” da un lato, e “i costi di gestione” dall’altro.
“Non è accettabile — ha spiegato l’assessore ai trasporti della Regione Toscana, Vincenzo Ceccarelli — che da un lato si taglino servizi essenziali per i cittadini e dall’altro si emani un decreto per fare sconti agli operatori dell’alta velocità , che genereranno minori introiti per 70 milioni a Rfi e risparmi per 50 e 20 milioni a Trenitalia ed al gestore privato”.
Decisione che ha fatto infuriare il governatore Enrico Rossi, che il 21 novembre è tornato a ricordare che secondo la legge il pedaggio dovrebbe essere ulteriormente tassato e non scontato: il decreto 98 del 6 luglio 2011, infatti, introduce a partire “dal 31 dicembre 2011 un sovrapprezzo al canone dovuto per l’esercizio dei servizi di trasporto di passeggeri” dell’Alta Velocità  da destinare al sistema ferroviario regionale.
“Ma il decreto non è stato mai applicato perchè manca un decreto attuativo”, fanno sapere dalla Regione.
Fino al 15% di corse tagliate in un solo anno
Intanto i tagli ai treni locali non conoscono sosta. Legambiente ha fatto il conto dei treni soppressi negli ultimi 2 anni nel rapporto Pendolaria 2012.
Qualche esempio: in Abruzzo i servizi sono stati tagliati del 10% nel 2011 e di un altro 10% nel 2012; identiche le percentuali in Campania, dove i tagli “hanno toccato il 90% dei treni sulla Napoli-Avellino e il 40% sulla Circumvesuviana“.
Si viaggia peggio anche in Liguria (-12% nel 2011, -10% nel 2012), Marche (-13% nel 2011) e Puglia (-15% nel 2012).
In Piemonte, poi, le corse sono state ridotte del 5% sia nel 2011 che nel 2012 e “sono state chiuse 12 linee”.
In totale “i convogli regionali di Trenitalia in circolazione sono oggi circa 6.800 mentre nel 2010 erano oltre 7.100, con una diminuzione di circa il 5%”.
Gli unici a crescere sono stati i prezzi dei biglietti: nel 2012 +20% in Abruzzo e Toscana, +15% nel Lazio, +10% in Liguria. “Aumenti che si sommano a quelli del 2011 in Campania, Emilia-Romagna, Liguria, Piemonte, Veneto e Lombardia, dove le tariffe erano salite del 23,4%. L’aumento medio complessivo è stato del 10%”.
L’Italia a due velocita’
“Le risorse nazionali per il trasporto ferroviario, erogate dallo Stato alle Regioni, sono diminuite a partire dal 2010 — spiega ancora Zanchini — e a subirne le conseguenze sono i treni locali e gli intercity”.
Il risultato è un Paese a due marce: da un lato i pendolari costretti a viaggiare nell’inferno delle tratte locali in treni lenti, sporchi e sovraffollati; dall’altro i passeggeri dell’Alta Velocità , coccolati da standard di qualità  elevati e in costante miglioramento.
“Per far capire la differenza — si legge ancora su Pendolaria 2012 — tra Roma e Milano nel 2007 i collegamenti Eurostar al giorno erano 17 mentre nel 2012 sono ben 76 le corse di Frecciarossa, a cui si sommano le 8 Italo.
Sull’Alta velocità  l’aumento dell’offerta in 5 anni è pari a +395%”.
Poi c’è il trasporto pubblico locale: “Nello stesso periodo a Genova i treni che attraversano la città  da Voltri a Nervi sono passati da 51 a 35, su una linea percorsa ogni giorno da 25mila pendolari con ulteriori tagli effettuati anche quest’anno.
A Roma, i 65mila pendolari della linea Fiumicino Aeroporto-Fara Sabina hanno visto cancellare 4 treni, quando la linea è progettata per 50mila viaggiatori al giorno”.
La ricetta di Moretti: “Tassare i pendolari”
Mauro Moretti, ad di Trenitalia, non ne ha mai fatto mistero: il trasporto locale è un problema, perchè non si ripaga con i biglietti.
Se nel 2012 minacciava di interrompere il servizio (“Nel 2013, se non ci saranno soldi a bilancio, non faremo il servizio regionale“) qualche settimana fa l’ad di Trenitalia ha spiegato la propria ricetta: tassare i pendolari per fare cassa e svuotare i treni locali.
Come? Istituendo “fasce tariffarie differenziate come ci sono negli altri Paesi, con sistemi di incentivazione e disincentivazione di certi orari”, dichiarava Moretti il 7 novembre.
Tradotto: i biglietti dei treni più affollati dovrebbero costare più degli altri. “Stiamo investendo 3 miliardi per comprare treni locali — concludeva l’ad — peccato che dalla politica non abbiamo visto un centesimo”.
Per gennaio il gruppo ha annunciato l’arrivo di 70 nuovi treni per il trasporto locale in Piemonte, Lazio, Umbria, Marche, Abruzzo e Calabria, per un investimento di 450 milioni di euro.
L’Ue: “Italia a rischio deferimento”
Per ora però a rimetterci in tutto ciò sono gli utenti. Il 20 novembre l’Italia è finita nel mirino della Commissione Ue per lo scarso interesse mostrato verso le condizioni di vita dei suoi 3 milioni di pendolari. Bruxelles ha inviato a Roma un parere motivato (secondo stadio della procedura di infrazione) perchè lo Stato, a 4 anni dal regolamento che avrebbe dovuto essere attuato entro il 3 dicembre 2009, non ha ancora istituito un’agenzia nazionale permanente per vigilare sulla corretta applicazione dei diritti dei passeggeri nelle ferrovie, nè stabilito norme volte a sanzionare le violazioni della legislazione comunitaria.
Se l’Italia non provvederà  entro 2 mesi, la Commissione potrà  decidere di deferire lo Stato alla Corte di Giustizia del Lussemburgo.

Marco Quarantelli
(da “il Fatto Quotidiano“)

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CETO MEDIO TARTASSATO: META’ IRPEF DAL 10% DEI CONTRIBUENTI

Dicembre 3rd, 2013 Riccardo Fucile

SU 4 MILIONI DI CITTADINI LA GRAN PARTE DELL’ONERE FISCALE… A PAGARE DI PIU’ SONO I REDDITI INTORNO A 2.000 EURO NETTI

Il ceto medio è letteralmente stritolato dalle tasse. La riprova sta nelle analisi statistiche sulle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2012 (imponibile 2011) e recentemente rielaborate per «contribuente tipo» sul sito del ministero dell’Economia. In Italia ci sono 41,3 milioni di contribuenti soggetti all’Irpef.
Da mesi non si discute che di Imu sulla prima casa, un’imposta che toglieva dalle tasche dei proprietari 4 miliardi e mezzo di euro l’anno.
Bene, l’Irpef ne ha sottratti 152,2 di miliardi, ai quali vanno aggiunti 14,4 miliardi di addizionali regionali e comunali.
Totale: 166,6 miliardi, 37 volte il gettito dell’Imu prima casa.
Vale allora la pena di guardarla meglio la principale imposta italiana.
Su 41,3 milioni di contribuenti 9,8 milioni non pagano nulla.
In pratica, uno su quattro versa zero Irpef o perchè sta dentro la no tax area (8 mila euro i lavoratori dipendenti, 7.500 i pensionati, 4.800 gli autonomi) o perchè annulla l’imposta con le detrazioni, per esempio le spese mediche.
Del resto, secondo l’Istat, in Italia ci sono 9 milioni e mezzo di cittadini in condizioni di povertà  relativa, cioè che vivono in famiglie dove non si spende più di 990 euro al mese in due.
I conti, quindi, più o meno tornano. Purtroppo è il caso di dire, visto che il 16% degli italiani se la passa maluccio.
Ma vediamo quelli che stanno meglio e l’Irpef la pagano.
Tolti i 9,8 milioni che non pagano, a versare i 152,2 miliardi di euro di Irpef nazionale sono 31 milioni e mezzo di contribuenti, in base a 5 aliquote: il 23% sui redditi fino a 15 mila euro lordi, il 27% tra 15 mila e 28 mila, il 38% tra 28 mila e 55 mila euro, il 41% fra 55 mila e 75 mila, il 43% oltre 75 mila euro.
Che l’81,5% dell’Irpef, cioè 124 miliardi di euro, sia pagato da lavoratori dipendenti (85 miliardi) e pensionati (39 miliardi) è abbastanza noto.
Meno conosciuti invece sono gli effetti della progressività  del sistema.
Ecco qualche dato, preso dalla tabella che scompone i contribuenti in 20 gruppi di reddito crescenti: il primo ha un reddito annuo lordo fino a 542 euro, l’ultimo, il ventesimo, raggruppa chi ha redditi di almeno 49.114 euro l’anno, che più o meno corrispondono a circa 2.600 euro netti al mese.
Costoro hanno versato 58 miliardi e mezzo di Irpef, cioè il 38,4% del totale.
Ora vi chiederete quanti sono quelli che stanno sopra 2.600 euro netti. Appena due milioni di contribuenti. Quindi il 5% più ricco paga da solo il 38,4% dell’Irpef.
Vogliamo scendere a redditi un po’ più bassi?
Prendiamo chi ha un lordo annuo superiore a 35.601 euro, cioè uno che prende come minimo circa 2 mila euro netti al mese.
Sapete quanti sono? 4,1 milioni di contribuenti, cioè il 10% del totale.
Che ha versato però il 51,7% di tutta l’Irpef nazionale, ovvero 78,7 miliardi.
Per essere più chiari: più di metà  dell’Irpef pagata in un anno pesa sulle spalle di 4 milioni di lavoratori, pensionati e imprenditori che guadagnano almeno 2mila euro al mese.
L’altra metà  se la suddividono 27 milioni e mezzo di contribuenti, cioè il 90% di coloro che pagano l’Irpef. Si dirà  che costoro guadagnano, appunto, meno di 2mila euro e quindi non si può pretendere di più.
Ma, anche accettando questo ragionamento – e prescindendo dal fatto che la fotografia dell’Irpef, a causa di una enorme evasione, offre un’immagine abbastanza falsata dei redditi – forse è arrivato il momento di chiedersi se sia giusto chiedere così tanto a chi, pur prendendo più di 2 mila euro al mese, non è certo un nababbo, mentre gli evasori continuano a sottrarre all’erario 120 miliardi di euro all’anno.
Prendiamo il caso più eclatante, la fascia di coloro che stanno tra 2.000 e 2.600 euro netti al mese: sono circa 2 milioni di contribuenti, cioè il 5% del totale e hanno pagato 20,2 miliardi, ovvero il 13,2% di tutta l’Irpef, sborsando in media 9.800 euro a testa. Saranno anche una minoranza, ma sono – eccetto l’ultimo ventile – quelli più oppressi da un fisco che uccide il ceto medio.
Un ceto sul quale, più che altrove, si scaricano anche gli altri prelievi.
Non solo le stesse addizionali Irpef regionali e comunali, ma anche i contributi sociali, l’Imu, le ritenute su risparmi e investimenti, le accise sui carburanti, l’Iva sulle bollette e sui consumi in genere, il canone tv (per chi lo paga), le imposte sulla Rc auto.
E chi più ne ha più ne metta.

(da “il Corriere della Sera“)

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