Maggio 2nd, 2014 Riccardo Fucile
RAPPORTO CONSIGLIO D’EUROPA: L’ITALIA NELLA TOP TEN DEL MAGGIOR NUMERO DI DETENUTI PER POSTI DISPONIBLI
Solo la Serbia peggio dell’Italia per sovraffollamento delle carceri in Europa.
E’ uno dei dati pubblicati nel rapporto 2012 sugli istituti di pena del Consiglio d’Europa.
L’analisi non fa che confermare che l’Italia deve riuscire a risolvere il problema del sovraffollamento carcerario.
Nel 2012, un anno prima della sentenza Torreggiani con cui la Corte di Strasburgo condannava il nostro Paese per il sovraffollamento carcerario infatti, l’Italia è risultata ancora una volta nella top ten di quelli con il maggior numero di detenuti per posti disponibili. In quel momento, con 66.271 detenuti e 45.568 posti disponibili, c’erano 145 carcerati per ogni 100 posti.
Peggio dell’Italia solo la Serbia, con un rapporto di quasi 160 detenuti per ogni 100 posti.
Il monito di Napolitano.
Nuovi dati che fanno riemergere la questione. Un problema quello del sovraffollamento degli istituti di detenzione che ha sollevato proprio da poco ancora una volta l’attenzione del capo dello Stato.
Giorgio Napolitano ha chiesto alle Camere di fare il punto sulle misure adottate e di rispettare la sentenza di Strasburgo. E a tenuto a ringraziare il Papa per la telefonata a Marco Pannella: il leader radicale che, come ha detto il presidente della Repubblica, “perora la causa dei detenuti anche a rischio della sua salute”.
Detenuti in attesa di giudizio.
Secondo il Consiglio d’Europa, l’Italia con 12.911 detenuti in attesa di giudizio (di cui 10.717 stranieri) è preceduta da Turchia (32.470) e Ucraina (16.281). Ma tra i paesi Ue il nostro paese precede Francia (12.870) e Germania (11.195). Non sono invece pervenuti i dati che riguardano invece la Grecia.
Gli stranieri.
L’Italia nel 2012 è stato il paese del Consiglio d’Europa con il maggior numero di detenuti stranieri nelle sue carceri.
In totale erano 23.773, e rappresentavano quasi il 36% dell’intera popolazione carceraria. Dopo l’Italia i paesi con più detenuti stranieri sono la Spagna (23.423), la Germania (19.303), la Francia (13.707) e l’Inghilterra e il Galles (10.861).
I suicidi.
Nelle carceri italiane nel 2011 si sono suicidate 63 persone e il nostro paese è secondo solo alla Francia, dove nello stesso anno si sono tolti la vita 100 detenuti. Seguono poi le carceri d’Inghilterra e Galles (57), Germania (53) e Ucraina (48).
L’Ucraina è invece lo Stato dove si registra il maggior numero di morti dietro le sbarre, 1009, seguono poi la Turchia (270), la Spagna (204) e Inghilterra e Galles (192).
Le fughe.
Il nostro è uno dei paesi del Consiglio d’Europa con il minor numero di fughe dal carcere o durante il trasporto in tribunale, ad altro istituto penitenziario o all’ospedale. In totale nel 2011 sono riusciti a evadere 5 detenuti.
Il primato per numero di evasioni spetta alla Svizzera (33), seguita dall’Austria (30), Francia (29), Belgio (28), Turchia e Scozia entrambe con 24 evasioni. La maggior parte dei detenuti fugge durante i permessi d’uscita o quando è sotto un regime di semi libertà . Le persone fuggite in Italia in queste circostanze sono state 148 nel 2011. Numero molto distante da quelli riportati per la Spagna (1.510), la Francia (888) o il Belgio (702).
Il costo.
L’Italia ha speso in media 123,75 euro al giorno per ogni detenuto nel 2011, quasi 7 euro in più rispetto all’anno precedente (116,68 euro).
Dallo stesso rapporto del Consiglio d’Europa emerge anche che tra il 2011 e il 2012 è aumentato il numero di guardie carcerarie, mentre al contempo scendeva il numero di detenuti.
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Maggio 2nd, 2014 Riccardo Fucile
MAXI PERDITE MA SUPER STIPENDI: LA CRISI COLPISCE SOLO CREDITO E SPORTELLI
Enrico Tomaso Cucchiani, accompagnato alla porta da Intesa Sanpaolo lo scorso settembre
dopo nemmeno due anni trascorsi al suo vertice, ha potuto consolarsi con 2,1 milioni di stipendio e 3,6 di penale per recesso unilaterale dal contratto.
Per un totale di 5,7 milioni, a cui vanno sommati i 2,6 milioni intascati nel 2012.
E Intesa ha dovuto mettere in conto anche gli 1,6 milioni di stipendio del nuovo amministratore delegato Carlo Messina.
Più sobrietà in casa Unicredit, dove l’amministratore delegato Federico Ghizzoni ha guadagnato, l’anno scorso, “solo” 2,3 milioni.
Niente a che vedere, comunque, con l’austerity che da un paio d’anni vige dalle parti del Monte dei Paschi di Siena (pronto a lanciare un aumento di capitale da 5 miliardi di euro): l’amministratore delegato e direttore generale Fabrizio Viola nel 2013 ha dovuto “accontentarsi” di poco meno di 1,8 milioni euro, mentre il presidente Alessandro Profumo — in passato il banchiere più pagato d’Italia grazie ai lauti bonus riconosciuti da Unicredit — si è fermato a poco più di 87mila euro.
Molti oneri e poco cash, soprattutto se, appunto, si confronta la busta paga con quella che Profumo riceveva quando era al timone dell’istituto oggi guidato da Ghizzoni: dal record di 9,4 milioni nel 2007 (l’anno della discussa acquisizione di Capitalia) ai 3,5 del 2008 ai 4,2 del 2009.
Fino alle dimissioni del 2010, quando ad alleviare l’addio ci pensarono i 38 milioni ricevuti come “incentivo all’esodo” e corrispettivo per l’impegno a non lavorare per altre istituzioni finanziarie nei 12 mesi successivi.
Insomma, basta una rapida somma per scoprire che, nel solo 2013, le prime tre banche italiane hanno versato ai propri amministratori delegati (Cucchiani, Ghizzoni e Viola) un totale di 9,8 milioni.
Cifre che fanno girare la testa. Soprattutto se si confrontano con l’andamento dei risultati di gestione degli istituti stessi: nel 2007 — prima della grande crisi finanziaria — Unicredit, Intesa e Mps avevano segnato a bilancio 16 miliardi di utili complessivi, mentre l’anno scorso, tra accantonamenti e pesantissime svalutazioni, hanno registrato perdite per quasi 20 miliardi (14 per Unicredit, 4,5 per Intesa e 1,4 per Mps).
Non solo: nello stesso periodo il deterioramento delle condizioni dell’economia reale ha fatto lievitare da 40 a oltre 160 miliardi i crediti in sofferenza (cioè difficili o impossibili da riscuotere) in pancia agli istituti.
Dire che gli stipendi dei vertici sono totalmente slegati dai bilanci, però, sarebbe una bugia: nel 2007 — complice il maxi emolumento di Profumo — gli ad dei tre istituti guadagnavano nel complesso quasi 15 milioni.
Quindi il taglio c’è stato, e a colpi di mannaia più che di forbici. Negli ultimi anni, poi, la parte fissa della retribuzione è diventata preponderante rispetto ai bonus. Tuttavia l’abitudine a elargire “premi” non è del tutto tramontata.
Per esempio Carlo Messina – che a onor del vero prende meno della metà del suo predecessore Corrado Passera che ha guidato la banca negli anni di operazioni di sistema come Telecom e Alitalia – per un anno da direttore generale e tre mesi (ottobre-dicembre 2013) da amministratore delegato di Intesa Sanpaolo ha guadagnato 1,2 milioni di euro più 480mila euro di bonus.
E ha preso 640mila euro in più oltre allo stipendio base anche il direttore generale Gaetano Miccichè, responsabile della divisione corporate (credito alle aziende) e investment banking.
Non c’è dubbio poi sul fatto che i valori assoluti restino imponenti. Fattore aggravante, lamentano i sindacati, è che quei valori sono sempre più lontani dalla busta paga di chi in banca, più modestamente, ci lavora come sportellista o impiegato. Come emerso nei giorni scorsi, l’ufficio studi del sindacato di settore Uilca ha calcolato che l’anno scorso il rapporto è stato di 62 a uno: un banchiere, cioè, ha guadagnato mediamente come 62 bancari. Nel 2000 “bastavano” gli stipendi di 42 impiegati per fare quello dell’ad.
La disparità ha poi avuto un picco nel 2007 e 2008, quando la proporzione è stata di 119 a uno e 72 a uno, per ridursi lievemente negli anni successivi, fino al rapporto di 53 a uno del 2012.
Senza arrivare alla cosiddetta “regola Olivetti” (recentemente rispolverata dal presidente del Consiglio, Matteo Renzi), in base alla quale nessun dirigente, neanche il più alto in grado, deve guadagnare più di dieci volte il salario minimo, i sindacati ritengono che il valore corretto sarebbe di venti a uno.
Per di più gli stessi posti di lavoro dei dipendenti sono sempre più a rischio, visto che, messe alle strette dalla crisi e complice il boom dell’home banking, le banche tagliano anche su questo fronte. Intesa prevede di chiudere 800 sportelli nei prossimi tre anni, arrivando a 3.300 dai 6.100 del 2007, Unicredit (che pure ha già pesantemente dismesso sedi negli anni scorsi) punta a ridurli da 4.100 a 3.600 e Mps vuol fare a meno di almeno 200 filiali su 2.300.
“La strategie attuate finora dalle banche italiane e incentrate soltanto su un taglio lineare del costo del lavoro e degli sportelli e sull’outsourcing di attività non hanno portato a un rilancio del settore”, commenta Lando Maria Sileoni, segretario generale della Federazione autonoma bancari italiani (Fabi), definendo i tagli previsti “una iattura” e sottolineando che questi non riguardano solo le aree dove c’è maggior concentrazione di sportelli, ma anche le zone in cui c’è meno sovrapposizione, “proprio dove, fino a pochi anni fa, si diceva che bisognava aprire sportelli per scongiurare l’arrivo di banche straniere”.
La dubbia gestione degli istituti italiani pesa anche sulla disponibilità di credito per famiglie e imprese: nel dicembre del 2007 il totale dei prestiti concessi ammontava a 1.279 miliardi, l’11% in più rispetto a un anno prima, ma dal dicembre 2012 le somme prestate dalle banche (allora a quota 1.474 miliardi) hanno cominciato a calare mese su mese fino ai 1.434 miliardi di febbraio 2014.
Per quanto riguarda i finanziamenti alle famiglie, il calo è evidente soprattutto per i prestiti finalizzati, quelli mirati all’acquisto di un bene specifico.
Un’analisi realizzata da Crif decision solutions, specializzata nelle informazioni creditizie, rivela per questo tipo di finanziamenti una contrazione su scala nazionale del 35% dal 2007 a oggi.
Le banche si difendono ricordando l’aumento delle sofferenze, che zavorrano i bilanci. Ma “se sono in questa situazione, la responsabilità è soprattutto dei vertici”, denuncia il Fabi.
In che senso? A chiarirlo ci pensa uno studio di Unimpresa su dati della Banca d’Italia, che mostra come le somme difficili da recuperare siano legate per la maggior parte non ai piccoli prestiti, bensì (per ben il 66,1%) ai finanziamenti superiori ai 500mila euro.
Detto in altri termini, oltre il 66% dei crediti dubbi fanno capo a una piccolissima percentuale di debitori: il 3,9% del totale.
“Le banche fanno credito senza le dovute garanzie ai soliti noti (vedi Carlo Tassara, gruppo Ligresti e così via)”, è l’accusa del Fabi, “dimenticandosi delle piccole medie imprese. E poi pretendono di fare pagare il conto delle loro inefficienze ai lavoratori”.
Chiara Brusini e Francesco Tamburini
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Maggio 2nd, 2014 Riccardo Fucile
L’ATTACCO IMMOTIVATO A PAPA FRANCESCO SUSCITA DISAPPROVAZIONE UNANIME TRA I CARDINALI
“È stato messo a confronto lo spazio del ‘mio’ appartamento con la presunta ristrettezza della residenza del Papa”. Il cardinale Tarcisio Bertone non riesce a restare in silenzio davanti agli attacchi subiti per il “modesto” attico, a due passi dalla residenza papale di Casa Santa Marta, dove si appresta a traslocare per trascorrere la sua pensione.
L’ex Segretario di Stato ha preso carta e penna e ha inviato una lettera ai settimanali delle diocesi che ha guidato, Vercelli e Genova, prima di essere chiamato, nel 2006, a Roma da Benedetto XVI come suo “premier”.
Nella replica di Bertone, però, più di qualcuno in Vaticano ha letto un attacco a Papa Francesco.
Cosa intende il porporato salesiano quando scrive della “presunta ristrettezza della residenza di Bergoglio”? È la domanda che quasi in modo frenetico viene sussurrata in questi giorni nei sacri palazzi.
Lo stile pauperistico di Francesco, a Buenos Aires prima e a Roma poi, dopo l’elezione al pontificato del 13 marzo 2013 è sotto gli occhi del mondo ed è incontestabile.
E la “santa spending review” messa in atto dal Pontefice argentino insieme al suo “G8” di cardinali è abbastanza evidente.
In Vaticano la disapprovazione per le affermazioni di Bertone è pressochè unanime. “In questo modo — confida un alto prelato — si danneggia il clima nel quale, non senza difficoltà , sta lavorando il Papa per riformare la Curia romana”.
C’è anche chi mette a confronto il comportamento dei due emeriti del precedente pontificato: Benedetto XVI e Bertone. Entrambi, al termine dei loro incarichi di governo, sono rimasti a vivere nel “recinto di San Pietro”, come disse Ratzinger dopo le dimissioni, annunciando che non sarebbe ritornato “a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera”.
Bertone, invece, subito dopo l’inizio della pensione, si è concesso a tutte le interviste dei media, spesso anche da lui sollecitate, intervenendo a numerosi convegni e presentazioni e annunciando l’intenzione di scrivere e pubblicare un libro sulla fede e lo sport (è nota la sua passione calcistica per la Juventus) e un volume di memorie. Quest’ultimo annuncio ha fatto storcere più di un naso all’interno dei sacri palazzi, come se il porporato salesiano volesse riscrivere la storia della vicenda Vatileaks, rispondendo punto su punto alle critiche che gli sono state mosse, dentro e fuori la Chiesa, anche da cardinali molto influenti e vicini a Benedetto XVI, Camillo Ruini in primis, che più volte hanno chiesto invano a Ratzinger di rimuovere Bertone dal vertice della Segreteria di Stato.
Qualche altro osservatore fa notare che la presenza di Bertone viene “tollerata” soltanto alle mega celebrazioni di piazza San Pietro o nella Basilica Vaticana presiedute da Francesco.
Quando, infatti, il 23 dicembre scorso, Bergoglio visitò l’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, di proprietà della Santa Sede, dallo staff papale non fu apprezzata la presenza di Bertone che si fece trovare ad accogliere Francesco accanto al suo successore, all’epoca non ancora cardinale, Pietro Parolin.
Il porporato salesiano comprese subito che la sua presenza non era gradita e lasciò l’ospedale quasi in punta di piedi a metà della lunga visita del Papa che durò quasi tre ore.
L’attenzione di Bertone al mondo sanitario è, infatti, abbastanza nota.
Sua fu la regia del tentativo, poi andato in fumo, di salvare l’ospedale “San Raffaele” di don Luigi Verzè.
All’ex Segretario di Stato era andato meglio con l’ospedale di padre Pio a San Giovanni Rotondo, “Casa Sollievo della Sofferenza”, dove è riuscito a sistemare un uomo a lui vicino, Domenico Francesco Crupi, alla direzione generale
Francesco Antonio Grana
(da “il Fatto Quotidiano“)
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