Destra di Popolo.net

“NOI SINTI CI SENTIAMO PIU’ ITALIANI DEI LEGHISTI”

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

NEL CAMPO ROM DI BOLOGNA: “LAVORIAMO QUASI TUTTI E CHIEDIAMO RISPETTO: IL COMUNE CI DA’ SOLO UN CONTRIBUTO PER LE BOLLETTE PERCHE’ L’IMPIANTO NON E’ A NORMA”… “SE SALVINI TORNA LO CACCIAMO NOI”

Bologna In questi giorni hanno visto e sentito di tutto. Coinvolti in una campagna elettorale costruita su sparate acchiappa titoli ed eventi ad alto impatto mediatico.
Ed è forse anche per questo che alle porte del loro campo di via Erbosa, a Bologna, lo stesso dove sabato era atteso il leader della Lega Nord, Matteo Salvini, hanno piazzato una bandiera italiana.
L’hanno appesa in bella vista, all’entrata, per spazzare via gli appellativi e le definizioni da propaganda xenofoba.
“Quando i leghisti ci chiamano profughi o rom ci viene da ridere. Io sono nato a Crevalcore, a due passi da Bologna, e miei genitori sono di Torino. Siamo tutti sinti, sì, ma italiani. Anzi italianissimi”.
Chi parla si chiama Matteo. Matteo e basta: come altri, preferisce tacere sul cognome per paura di ritorsioni sul lavoro. “Alcuni padroni non ci vedono di buon occhio”.
Ha 53 anni, venti dei quali passati in questo fazzoletto di terra non asfaltata ai piedi di un traliccio e poco distante dalla tangenziale di Bologna.
Accanto alla sua casa mobile, una scatoletta dalle pareti chiare ben tenuta, abita un’altra cinquantina di persone.
Sono discendenti di storiche famiglie di giostrai, gli Orfei in particolare. Hanno nomi italiani e cognomi pure. E quasi tutti lavorano.
Barbara ha 44 anni e due figlie: “Faccio le pulizie, ma nessuno conosce le mie origini. Temo che mi mandino via”
Gli uomini raccolgono il ferro, mestiere tradizionale di questa comunità . Alcuni sono traslocatori. C’è anche chi ha aperto una pizzeria in una frazione di Bologna.
“I leghisti? Brutte persone. Sono razzisti e vogliono dividere il mondo in noi e loro, solo per guadagnare voti sulla nostra pelle. Non hanno alcun rispetto. Prendete il caso della consigliera Lucia Borgonzoni. È volato uno schiaffone quando è venuta qui, è vero. Ma lei è entrata a casa nostra, con macchine fotografiche e telefonini, dopo averci insultato. Cosa avremmo dovuto fare? ”
Guardano il taccuino con diffidenza, ma poi si lasciano andare.
“I ragazzi dei centri sociali non li conosciamo, ma hanno fatto bene a contestare Salvini. Spero non torni, siamo pronti a cacciarlo via di nuovo”.
Ci tengono a smontare gli argomenti usati dal Carroccio, che a giorni alterni invoca lo sgombero del campo. In particolare lo slogan che li vorrebbe a carico delle casse pubbliche.
“Il Comune ci dà  un contributo sulle bollette, perchè gli impianti non sono a norma. Questo è uno spazio provvisorio”.
Nelle roulotte e nelle case mobili hanno solo luce e acqua. Per riscaldarsi usano stufette: niente gas, sarebbe pericoloso.
Per capire perchè vivono proprio qui bisogna tornare indietro nel tempo, fino agli anni della banda della Uno bianca.
Il campo fu assegnato nel 1991, dall’allora sindaco Renzo Imbeni, ai sinti italiani, parenti delle vittime della strage di via Gobetti del 1990. Altri tempi, altra politica. “Ce lo ricordiamo bene Imbeni, era un gran sindaco. Veniva a trovarci, sempre senza giornalisti a seguito. Portava pane e vestiti. In tanti, qui, abbiamo pianto al suo funerale”
Il campo di via Erbosa doveva essere una soluzione a tempo, per mettere al sicuro le famiglie. Ma negli anni, a causa della mancanza fondi, la sistemazione è diventata definitiva. Anche se il campo non è mai stato e mai potrà  essere a norma.
Per questo, oggi, l’amministrazione comunale sta lavorando per trovare un’alternativa. E i contributi stanziati per le utenze non sono voci a parte, ma rientrano nella spesa complessiva che Palazzo d’Accursio sostiene per dare una mano ai bolognesi in difficoltà  economiche.
Che vivano in case popolari o in casette mobili.
“Non chiediamo niente di particolare. Solo rispetto e civiltà ”.

Giulia Zaccariello
(da “il Fatto Quotidiano”)

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ARRIVA LA STANGATA REGIONALE: IN PIEMONTE IRPEF AI MASSIMI

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

CHIAMPARINO PROVA A TAMPONARE I TAGLI DEL GOVERNO E IL DEFICIT DI 2,5 MILIARDI

La stangata fiscale che la giunta Chiamparino ha messo in campo perchè la regione Piemonte possa sopravvivere ad un deficit di 2,5 miliardi salva le imprese (non ci sarà  aumento dell’Irap) e circa 2 milioni di contribuenti con un reddito inferiore a 28 mila euro (la loro addizionale Irpef resta invariata) ma si abbatte, come una mannaia, sul ceto medio-alto che dovrà  fare i conti con un aumento che parte da 52 euro l’anno e sale progressivamente fino a 1068 euro per coloro che dichiarano 150 mila euro.
La giunta di centrosinistra ha deciso di applicare l’aliquota massima concessa dal federalismo fiscale arrivando ad imporre un’addizionale del 3,33% per chi supera i 55 mila euro.
Per chi si ferma prima (ma resta sopra i 40 mila euro) c’è un rincaro minore, lo 0,44%.
A rendere meno pesante la manovra fiscale per tutti i contribuenti dovrebbe poi arrivare la maggiorazione della detrazione per i figli a carico.
La giunta ha messo da parte un tesoretto di 7 milioni che sbloccherà  dopo l’accordo con l’agenzia delle Entrate.
Chiamparino conta di risparmiare dall’incremento della tassazione centomilioni, 73 arriveranno dall’Irpef, 20 dall’incremento del 10% della tassa di circolazione per le auto sopra i 100 cavalli e il resto dalla delega sul “bollino blu” per gli impianti termici e dall’aumento dei canoni concessori sulle grandi produzioni di energia idroelettrica. Altri cento milioni saranno recuperati dal taglio delle spese.
«Così — spiega il presidente — non ci presentiamo al governo con il cappello in mano per chiedere l’elemosina ma con un piano serio per dimostrare che abbiamo intenzione di risanare i nostri conti».
Il Piemonte si aspetta dal governo il congelamento delle quote di capitale sul debito per il 2015 e il 2016 che significa avere a disposizione 250 milioni da spendere sul welfare, il diritto allo studio, le politiche per lo sviluppo.
I consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle l’hanno subito ribattezzata la «Chiampa-Tax» ma lui non ci sta: «Se c’è qualcuno in grado di mettere in campo proposte alternative in grado di permettere al Piemonte di garantire con 70 milioni servizi che finora sono costati 58 milioni mi faccio subito da parte».
Ma aggiunge: «Siamo pronti ad accettare delle proposte alternative, purchè i saldi restino invariati».
Se ne parlerà  in Consiglio regionale nelle prossime settimane ma Chiamparino si dice convinto che le «scelte fatte sono in grado di conciliare crescita e coesione sociale». Difficile che il ceto medio piemontese possa condividere queste affermazione.
Ci sono almeno 400 mila contribuenti che sopporteranno il grosso della manovra fiscale decisa in poche settimane mentre i consiglieri regionali hanno impiegato più di sei mesi per tagliarsi del 10 per cento l’indennità  lorda.
Perchè? «Si tratta — spiega il presidente — di un primo passo ed entro la fine dell’anno il taglio arriverà  al 30/40 per cento e questo permetterà  di risparmiare 2 milioni l’anno».
Ma in cambio di questo contributo che cosa arriverà  ai piemontesi? «Questa decisione ci permette di salvaguardare le imprese e la stragrande maggioranza dei contribuenti. In questo modo possiamo trovare le risorse per garantire interventi che altrimenti sarebbero stati azzerati, penso al welfare e all’assistenza, al diritto allo studio e agli interventi di programmazione economica».
Attenzione, però, «questa manovra — avverte il presidente — avviene al netto della trattativa tra Stato e regioni sul patto di stabilità ».
Tradotto vuol dire che da Roma arriveranno altri tagli ai trasferimenti e che un’altra manovra potrebbe arrivare a breve per i piemontesi.

Maurizio Tropeano

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CHIAMPA CAVALLO: RENZI E LA MUFFA DELLE CHIACCHIERE

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

I TAGLI AGLI ENTI LOCALI SI TRAMUTANO IN AUMENTO DELLE TASSE AI CITTADINI

Per tagliare le tasse ai cittadini il governo toglie i soldi alle Regioni, che per recuperarli aumentano le tasse ai cittadini.
Carta vince, carta perde: e a perdere siamo sempre noi.
Mentre un Chiamparino allegro come il cielo di novembre annunciava i ferali ritocchi all’addizionale Irpef e al bollo auto dei piemontesi, mi è tornato alla mente quando Corrado Guzzanti, nei panni del ministro Tremonti, teorizzava lo schemino di cui sopra.
Ma per un contribuente cosa cambia, chiedeva la Dandini.
E lui: «Niente. Ma poichè negli enti locali comanda la sinistra, noi potremo dire che il governo di destra ha abbassato le tasse e che ad alzarle sono stati i comunisti». L’unica differenza tra la satira profetica e la realtà  è che al governo e agli enti locali adesso c’è lo stesso partito.
Affiora l’essenza politica di Renzi: talentuosa e superficiale.
Ci vuole del talento per capire che i pezzi ingordi delle istituzioni possono essere indotti a cambiare dieta solo se vengono resi ancora più odiosi ai cittadini: senza i denari statali a coprire loro le spalle, le burocrazie locali sono costrette a scegliere tra il taglio del superfluo e il taglio dei voti alle prossime elezioni.
Ma ci vuole della superficialità  per mettere sullo stesso piano le Regioni sprecone e quelle virtuose (ancorchè appesantite come il Piemonte da un deficit frutto di errate speculazioni finanziarie).
Se togli i soldi a uno sprecone, lo induci a ridurre gli sprechi.
Ma se li togli a chi sprechi non ne fa, lo costringi a tagliare i servizi.
Oppure a farseli pagare con un aumento delle tasse che ridurrà  gli effetti del cambiamento annunciato alla solita muffa di chiacchiere.

Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)

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IL DILEMMA DI BERLUSCONI: “DEVO SALVARE L’INTESA SENZA SPACCARE IL PARTITO”

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

CHIEDERA’ L’APPARENTAMENTO PER IL BALLOTTAGGIO…OGGI IL VERTICE DEL PARTITO

«Non voglio passare per perdente, ma non posso dire no a Renzi».
Il dilemma di Silvio Berlusconi non prevede vie d’uscita. Tutto o niente, pace o guerra. «Dobbiamo tenere in piedi il patto del Nazareno, senza spaccare il partito ».
È la via stretta che il Cavaliere è chiamato a percorrere oggi, dopo ventiquattr’ore spese ad Arcore in compagnia della famiglia e dei vertici aziendali: «Tu, noi – è il martellante suggerimento – non possiamo rompere con il governo ».
Placare il caos interno diventa allora l’obiettivo del vertice ristretto convocato a Roma, per preparare l’ufficio di Presidenza delle 17.
Ci sarà  di certo Raffaele Fitto, poi si aggregheranno gli altri big di Forza Italia. Sul tavolo l’ex premier è pronto a mettere anche una correzione capace di far digerire ai malpancisti azzurri l’odiato premio di lista: l’apparentamento al ballottaggio.
La strada verso il sì è ancora minata. E per tutto il pomeriggio di ieri è sembrata davvero in salita. Berlusconi, prigioniero di mille dubbi, ha tentato di mettere assieme i cocci: «Potrei dire che il patto regge, ma che Renzi non deve mortificare Forza Italia e che le modifiche vanno bene solo se concordate».
E il contestatissimo premio di lista? «Quello – ricorda Giovanni Toti – non è stato concordato»
Poi però è sceso in campo Denis Verdini: «Presidente, Matteo è pronto a concederti al massimo ventiquattro ore. Sta a te scegliere. Vuoi diventare irrilevante?».
Di più l’ex coordinatore del Pdl non riesce a dire, mentre implora il Capo di non dare retta ai cattivi consiglieri. «Ricordi in che condizioni eri dieci mesi fa, vero? ».
L’ex premier lo ricorda bene, eppure tentenna. «Se cedo adesso, dovrò cedere sempre. Mi tratteranno da perdente». La tenaglia comunque si stringe.
La primogenita Marina, Gianni Letta e Fedele Confalonieri lo pregano di non mandare a monte il patto del Nazareno, rammentano al Fondatore gli interessi di Mediaset e tutti i rischi di una riforma del sistema radiotelevisivo portata avanti da un governo ostile.
E così, a sera, perde slancio la corte di Arcore guidata da Maria Stella Gelmini. E arranca pure Renato Brunetta, che in trance agonistica intasa il centralino di villa San Martino: «Matteo bluffa, non farti ingannare»
Blindato in Brianza, Berlusconi esamina mille ipotesi. «È una partita da 1 X 2…», scherza un tifoso del Nazareno come Ignazio Abrignani.
Eppure il Cavaliere sa che non può permettersi lo strappo, al massimo un doppio salto carpiato per non scontentare troppo la “resistenza” interna.
«E se chiedessimo un nuovo incontro a Renzi?». Importante, anzi fondamentale è tenere unito un movimento senza timoniere. «Guarda che a Palazzo Chigi basta poter contare sulla metà  dei nostri senatori per riuscire a compensare i dubbi della sua minoranza », lo tranquillizza pragmaticamente Verdini
Resta la grana interna più preoccupante. Si chiama Raffaele Fitto e guida un terzo dei gruppi parlamentari.
Per blandirlo, l’ex premier ha mandato domenica scorsa la fidata senatrice Maria Rosaria Rossi a una convention del big pugliese. E per questo lo riceverà  oggi a Palazzo Grazioli, dopo un lunghissimo gelo.
L’hanno preallertato, attende solo una telefonata per fissare l’orario. È pronto ad incassare il primo dividendo politico dopo mesi di guerriglia interna. Con un’idea fissa, consegnata ai suoi uomini: «Sono disposto a ragionare di ogni aspetto della legge elettorale, ma il Presidente deve allargare il discorso anche al partito. Deve lanciare segnali sulla democrazia interna».
Dopo il summit di oggi, al Cavaliere toccherà  affrontare anche i gruppi parlamentari. Lì i numeri sono decisamente meno solidi, per questo occorre il consenso della corrente fittiana. E per la stessa ragione l’ex premier chiederà  ai suoi parlamentari di tenere a mente l’imminente avvicendamento al Colle.
Non sono concessi strappi, anche per non inverare la previsione di Verdini: «Possiamo anche far saltare tutto, così al Quirinale ci ritroviamo Prodi. Poi però non venite a lamentarvi con me!».

Tommaso Ciriaco
(da “La Repubblica”)

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SMETTO QUANDO VOGLIO

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

IL PRESIDENTE SE NE VA E NESSUNO SA COSA METTERSI

Oddio, Napolitano se ne va e nessuno sa cosa mettersi.
Come se non bastassero tutte le cause fisiologiche che fanno fibrillare la politica italiana, se ne aggiunge una patologica: i boatos sulle imminenti dimissioni del presidente della Repubblica. Non si tratta del solito gossip dei retroscenisti appostati nei corridoi dei palazzi: a scrivere che entro fine anno, o al massimo a gennaio, Re Giorgio annuncerà  o addirittura rassegnerà  le dimissioni sono stati non solo il Fatto (notoriamente poco gradito sul Colle più alto), ma anche due fra i giornalisti più introdotti al Quirinale: Stefano Folli su Repubblica e Marzio Breda sul Corriere.
Domenica, dopo 24 ore di silenzio, è arrivata la “nota del Colle”, al solito sibillina e fumantina. “Nè si ha da smentire nè da confermare” alcunchè, ma sia chiaro che “le decisioni che riterrà  di dover prendere” sono “esclusiva competenza del capo dello Stato”.
Quindi è tutto vero, ma Napolitano non gradisce che se ne parli adesso ed è furibondo con i giornali e le tv che danno “ampio spazio a ipotesi e previsioni sulle eventuali dimissioni”.
E a cosa dovrebbero dare ampio spazio, di grazia?
Sta per accadere un fatto mai visto prima: le dimissioni di un presidente (e che presidente: il monarca padrone dell’esecutivo, delle Camere, del Csm e ogni tanto della Consulta, che da 8 anni e mezzo fa e disfa i governi a prescindere dagli elettori e dà  ordini e moniti a tutto su tutti) appena un anno e mezzo dopo la sua elezione, destinate a terremotare per mesi e mesi la vita politica con una serie di ripercussioni a catena prevedibili e già  tangibili sul governo, sul Parlamento, sulla nuova legge elettorale, sulla nuova Costituzione, sulla “riforma” della giustizia, sulle alleanze fra i partiti, sulle tentazioni di elezioni anticipate, sulla Borsa, sui rapporti internazionali.
E di che dovrebbe parlare la stampa? Di Balotelli che torna in Nazionale? O di Razzi che va all’Isola dei famosi?
Vengono rapidamente al pettine i nodi che — in beata solitudine — il nostro giornale evidenziò fin da subito, all’indomani della precipitosa rielezione di Napolitano il 20 aprile 2013 per scongiurare l’ascesa al Colle di un vero cultore della Costituzione come Stefano Rodotà , tradire l’ansia di rinnovamento uscita due mesi prima dalle urne e imbalsamare l’eterno inciucio fra il centrosinistra e Berlusconi.
Tralasciando le bugie di Napolitano, che per un anno aveva detto e ripetuto che mai e poi mai avrebbe accettato la riconferma, scrivemmo che il suo discorso di reinsediamento a Montecitorio poneva ufficialmente sia lui sia la Repubblica fuori dalla Costituzione.
Il Ripresidente disse infatti che sarebbe rimasto “fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo suggerirà  e comunque le forze me lo consentiranno”.
E solo a patto che Pd e Pdl si mettessero subito insieme per fare ciò che avevano giurato agli elettori di non fare: un governo di larghe intese per le cosiddette “riforme”, cioè per manomettere la seconda parte della Costituzione e anche la giustizia.
Espropriando il Parlamento, unico titolare del potere legislativo, il Presidente Monarca espose alle Camere il suo personale programma politico e le minacciò di andarsene se non avessero obbedito: “Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità  come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese”. Dunque il governo e i partiti dovevano ripartire dai “documenti dei due gruppi di lavoro da me istituiti il 30 marzo”: i 10 fantomatici “saggi” extraparlamentari che, alle dipendenze del Quirinale e senz’alcuna legittimazione popolare, avevano scritto il programma del nuovo governo prim’ancora che nascesse.
Insomma, in barba alla Costituzione che prevede un mandato pieno e incondizionato (art. 85: “Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni”), Napolitano fece sapere che il suo era “a tempo” e “a condizione”.
E quando il suo ex portavoce Pasquale Cascella si lasciò sfuggire a La Zanzara che se ne sarebbe andato ben prima della scadenza del settennato, Re Giorgio con l’aria di smentirlo confermò quel che era chiaro a tutti: “Ho legato la mia rielezione al raggiungimento dell’obiettivo delle riforme e anche alla capacità  delle mie stesse forze. Ma nessuno certo è in grado di prevederne la durata, sia per l’uno che per l’altro aspetto”.
Quell’albero marcio, trapiantato un anno e mezzo fa su un Paese ansioso di cambiare, produce oggi i frutti marci che tutti possono vedere a occhio nudo.
Napolitano e chi lo rielesse sapevano benissimo che il suo secondo mandato sarebbe finito presto, per ovvi motivi anagrafici.
Ma la fregola di mummificare il sistema contro ogni cambiamento fu più forte di ogni buonsenso. E anche dello spirito e della lettera della Costituzione (quella vera, quella del 1948) che, precisa come un cronometro svizzero, prevede un ordinato e sereno funzionamento delle istituzioni, con tempi certi e scadenze prevedibili.
Il presidente dura in carica 7 anni perchè si deve sapere quando inizia e quando finisce: negli ultimi sei mesi (il semestre bianco) non può sciogliere le Camere (a meno che la sua scadenza coincida con quella della legislatura) affinchè il Parlamento sia libero di prepararne la successione senza condizionamenti, con la dovuta calma e serenità .
Strano che l’unico presidente ad aver giurato due volte sulla Costituzione non lo sappia, o se ne infischi. Infatti fa sapere che se ne va quando vuole lui e ce lo farà  sapere quando pare a lui. Niente semestre bianco, e Parlamento sotto ricatto fino all’ultimo giorno.
La bomba a orologeria delle sue dimissioni anticipate seguiterà  a ticchettare per settimane, forse per mesi, ben nascosta sotto le istituzioni, destabilizzandole vieppiù con uno stillicidio di indiscrezioni, moniti e finte smentite.
Intanto l’Italia resterà  appesa agli umori e ai malumori di un vecchietto bizzoso e stizzoso che cambia idea a seconda di come si sveglia.
Nessuno, tranne lui, sa quando finirà  il toto-Quirinale. Forse finirà  soltanto quando Sua Maestà  avrà  qualche finto successo da sbandierare (una legge elettorale, una riforma della Costituzione, del lavoro e della Giustizia purchessia) per mascherare il misero fallimento del suo bis; e magari anche la garanzia che il suo successore sarà  un suo clone e non farà  nulla per riportare l’Italia dalla monarchia alla Repubblica. Solo allora abdicherà  e, quando lo farà , sarà  sempre e comunque troppo tardi.

Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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DOMUS AUREA, AFFARI D’ORO, MA SOLO PER I PRIVATI: LE “LARGHE INTESE” DELLA CULTURA

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

LA VILLA DI NERONE REGISTRA IL TUTTO ESAURITO… LO STATO HA SPESO 18 MILIONI PER I LAVORI MA IL GROSSO DELL’INCASSO VA AI CONCESSIONARI: ELECTA DELLA FAMIGLIA BERLUSCONI E COOPCULTURE AFFILIATA ALLA LEGACOOP

«Per riaprire la Domus Aurea ci vogliono 31 milioni di euro. Lo Stato non si sottrarrà  ma è scandaloso se non intervengono i privati. Rivolgo un appello a tutte le imprese perchè intervengano».
Il ministro Dario Franceschini ha invocato il mecenatismo per riportare allo splendore la villa imperiale di Nerone, che nel sito internet dedicato al cantiere prevede anche una sezione apposita per le donazioni online.
Intanto nel complesso monumentale, che da fine ottobre apre le porte ai visitatori ogni fine settimana, il successo è innegabile.
Maltempo permettendo (lo scorso week end l’area è stata chiusa per la pioggia dei giorni precedenti) le visite guidate in italiano – una ventina fra il sabato e la domenica, ciascuna da 25 persone – registrano il sold out: lunedì 10 novembre, quando l’Espresso ha provato a trovare uno spazio libero, ce n’era qualcuno solo per la giornata di sabato 15. Poi tutto esaurito fino a fine anno.
Va un po’ meglio per i tour in inglese e spagnolo, che comunque già  hanno 1.500 posti prenotati su circa duemila disponibili. Numeri alla mano, l’incasso si aggira sui 10 mila euro a weekend
Insomma, un affare anche dal punto di vista economico. A saperlo sfruttare.
Già , perchè mentre Franceschini chiede soldi ai privati, il paradosso è che del denaro che entra da ogni visitatore (10 euro per la visita guidata più 2 per la prevendita), solo una parte minoritaria finisce nelle casse esangui del ministero.
«Una royalty del 30,2 per cento per il servizio e il 50 per cento dei diritti di prenotazione» puntualizza la soprintendente Mariarosaria Barbera.
In pratica 4 euro a ingresso, un terzo del totale.
Così, nonostante lo Stato dal 2006 a oggi abbia speso per i restauri 18 milioni di euro e di fatto metta “a disposizione” la Domus per le visite guidate, a brindare sono i due concessionari privati della Soprintendenza archeologica, cui vanno i restanti due terzi degli introiti: Electa-Mondadori della famiglia Berlusconi e Coopculture, affiliata alla rossa Legacoop.
A Roma le larghe intese – soprattutto nel campo della cultura – non sono una novità .
VISITE GUIDATE, FORTUNE PRIVATE
A paradosso si aggiunge paradosso: per poco che appaia, il 33 per cento dei proventi delle visite guidate è un gigantesco passo avanti.
Da questa redditizia voce, infatti, fino a tre anni fa la Soprintendenza non incassava assolutamente nulla. Nel 2011, ad esempio, nei siti di sua competenza i tour accompagnati furono 284 mila e fruttarono un milione e mezzo.
Ebbene, nelle casse del ministero non finì neppure un euro perchè l’accordo con i concessionari non lo prevedeva.
Qualcosa ha iniziato a muoversi nel 2012, in base a una modifica dell’accordo.
Quasi del tutto irrilevante, però. A fronte di un incasso da visite guidate salito a 1,7 milioni alla Soprintendenza andarono appena 43.350 euro: il 2,55 per cento.
E l’anno scorso è andata un po’ meglio con 158 mila euro su 1,3 milioni di introiti (il 12 per cento).
Ma le audio guide, un altro settore che continua a macinare incassi, continuano a essere un terreno di caccia pressochè libero: nel 2013 fra il Colosseo e il Foro romano hanno fruttato 2,3 milioni.
Soldi finiti ai concessionari, perchè nemmeno in questo caso al ministero non è andato nulla.
Del resto di che meravigliarsi se proprio l’Anfiteatro Flavio frutta pochissimo rispetto a quanto potrebbe?
L’anno scorso fra visite guidate, audioguide, libri, gadget e prevendite ha incassato 9,2 milioni. Ma alla Soprintendenza è andato 1 milione e 210 mila euro: il 13 per cento.
CALMA PIATTA
Si dirà : basterebbe fare nuove gare e trovare nuovi concessionari, magari più generosi. Una parola. L’affidamento del servizio, risalente al 2001, è scaduto nel 2009 e da allora si va avanti di proroga in proroga (la prossima, la sesta, dovrebbe arrivare a giorni).
E quando si è provato a indire le gare, con nuove linee-guida, i bandi sono stati impugnati e i ricorsi hanno bloccato tutto.
Adesso Franceschini ha affidato la palla alla Consip, la società  del ministero per l’Economia che supporta lo Stato nell’acquisto di beni e servizi. Intanto il tempo passa e si fa sempre più concreto il rischio dell’apertura di un’infrazione per violazione della concorrenza da parte dell’Unione europea.
Non solo. Anche conoscere le condizioni del contratto che da quasi 15 anni lega la Soprintendenza a Electa-Mondadori e Coopculture, pur nelle numerose proroghe e modifiche intervenute, è praticamente impossibile.
La legge sulla trasparenza obbliga le amministrazioni pubbliche a pubblicare su internet le informazioni sugli appalti relativi alle concessioni.
A Roma, però, nessuno sembra essersene mai curato.

Paolo Fantauzzi
(da “L’Espresso”)

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VERTICE DI MAGGIORANZA: RENZI CEDE SU PREFERENZE E SOGLIA SBARRAMENTO AL 3%

Novembre 11th, 2014 Riccardo Fucile

OBIETTIVO LEGGE ELETTORALE ENTRO FEBBRAIO 2015

Renzi blinda la riforma elettorale e ottiene dalla maggioranza l’impegno a portare avanti la legislatura e il programma di governo fino al 2018.
L’affollato vertice di palazzo Chigi tra le delegazioni dei partiti che sostengono l’esecutivo Renzi è durato tre ore e si è concluso con un documento sotto il quale compaiono le firme di tutti i capigruppo di maggioranza.
Nel documento ci sarebbe dunque l’impegno nero su bianco che si andrà  alle elezioni soltanto dopo il referendum sulle riforme costituzionali.
Il presidente del consiglio avrebbe chiesto e ottenuto l’impegno degli alleati anche sui tempi della riforma elettorale, sul sostegno allo Jobs Act, sulla delega fiscale e sulle riforme costituzionali.
Renzi ha ribadito che l’obiettivo primario è far approvare la Legge di stabilità  dal Parlamento e incardinare l’Italicum in aula al Senato entro la fine dell’anno per ottenere il via libera definitivo della Camera entro febbraio.
Nel merito, secondo quanto riferito da alcuni parlamentari, il premier avrebbe aperto alle richieste degli alleati sia sull’introduzione delle preferenze che sull’abbassamento al 3% della soglia di sbarramento, mentre sarebbe fissato al 40% il premio di maggioranza.

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