Novembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
L’ACQUA SI SCATENA DA PONENTE E INVESTE LA REGIONE: UNA TRAGEDIA ANNUNZIATA
Non c’è rifugio. Non c’è posto dove nascondersi. 
Non la strada che sembra un fiume, non la tua casa che poggia sulla terra sempre più molle, inconsistente.
Senti un boato forte, che ti entra dentro, e non sai se è un tuono o la collina che ti crolla addosso.
Puoi solo aspettare, tu, i tuoi figli. Puoi pensare, uno per uno, alle persone che conosci, che ami, chiederti dove sono adesso.
È successo ancora una volta. E non ti ci abitui mai. Mai.
L’orizzonte che scompare come inghiottito dalle tenebre, le case in lontananza che svaniscono, poi anche quelle più vicine come cancellate.
Alla fine il cielo ti piomba addosso, la luce del sole si spegne e tu sei solo nella tua casa, chiuso nella stanza più in alto.
Aggrappato al nulla.
Cade un fulmine, spacca l’aria e il respiro. Poi una tromba d’aria squassa gli alberi, addosso ti si riversano tonnellate d’acqua. Non capisci più dove ti trovi.
Il Nord, il mare, dove sono? Il cerchio della paura si stringe: prima temi per l’auto, mentre vedi in lontananza le macchine trascinate come Lego.
Poi pensi alla casa. Infine alla vita.
Ancora un’alluvione. Ma stavolta la Liguria non ce la fa più.
Non ce la fa più la terra intrisa d’acqua. E non ce la fanno più gli uomini, le città deserte come per un attacco aereo.
Guardi le luci della casa di fronte, pensi che non sei solo. Telefoni a raffica ai genitori, agli amici, poche parole, essenziali, “Tutto bene?”, poi cerchi gli altri. Ancora e ancora.
Da Imperia a Savona, da Genova alla Spezia. Non si salva nessuno.
È cominciato a Ponente. Poi via via in tutta la regione. Il panico che arrivava prima delle nubi, annunciato dalle immagini internet dei paesi colpiti prima del tuo.
Certo, c’erano stati gli allarmi, ma qui ormai non c’è più allerta che tenga. “Non uscite di casa”, avverte il sindaco di Genova, Marco Doria. L’assessore alla Protezione Civile della Regione, Raffaella Paita, lancia appelli alla Protezione Civile. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, promette l’intervento dell’esercito.
Ma ci sono anche sindaci che chiedono l’impiego dei cassintegrati. Tentativi di evitare la tragedia che, però, rivelano ormai l’impotenza.
Se qualcosa c’era da fare — smetterla col cemento, bonificare la terra malata, investire miliardi per ridisegnare i fiumi invece che in grandi opere — bisognava pensarci prima, anni fa.
La mano scura del ciclone prima passa su Imperia, poi attacca Albenga, Savona, Albisola. Il fiume si gonfia, si gonfia.
La gente cerca rifugio, si muove come può: vedi ragazzi con la muta da sub, addirittura su un surf che galleggia per strada.
Genova aspetta, è solo questione di tempo , lo sai. Tocca prima all’entroterra, a Busalla: acqua, dappertutto. Il metanodotto che si spezza.
Esondano — che parola fredda, inadeguata per descrivere questa distruzione — il Cerusa e lo Stura. Il vortice frusta le alture, Borzoli e Mignanego. Piomba sulla Val Polcevera, sul Ponente di Genova.
A Serra Riccò un uomo di 66 anni resta intrappolato nell’auto trascinata via. Trecentocinquanta millimetri d’acqua cadono, corrono sul cemento, in pochi minuti fanno scoppiare il torrente, trascinano auto, camion.
A Cornigliano sfiorano tre operai che si salvano per un soffio. In strada nessuno: solo le casacche gialle di polizia, protezione civile, vigili, a lavorare a due passi dall’acqua e dalla terra.
E già siamo oltre, in Val Bisagno , ancora una volta: il Fereggiano sale, sale. Questione di centimetri e sarebbe il disastro. Dal Comune partono 109mila telefonate e 120mila sms di allarme.
La gente è barricata nelle case, interi condomini si rifugiano ai piani alti: tutti insieme, famiglie riunite dalla paura, ad ascoltare tv e internet, a scambiarsi messaggi su Facebook per non sentirsi soli.
Via, via, siamo già a Sturla, Quarto, Nervi. C’è un vento che ti strappa da terra, il mare picchia sulla costa, respinge indietro l’acqua dei torrenti, aumenta il disastro. Dappertutto cadono massi, si aprono frane (oltre cento), la terra non sta più insieme. “Dio mio, il raccolto!”, urla Gianni Marsano, contadino, e col suo trattore corre verso l’orto.
Non ha senso, lo sa benissimo, ma infila le mani nella terra ridotta a poltiglia.
“Non sai nemmeno che cosa pregare… che vada via… ma dove, sulla testa di quei poveri cristi del Tigullio?”, respira veloce Teresa De Santis, 77 anni. Trema.
Guarda Genova che si intravvede dalla sua finestra. Le strade vuote, le insegne assurde dei negozi che lampeggiano in una città deserta, le sirene che si rincorrono.
È finita? Non illudetevi. Ecco un altro scroscio. Un boato, tremano i vetri: “Scappiamo?”, chiede Giovanni, 9 anni.
Già , ma dove? Chiuse le autostrade, bloccati i treni che corrono nelle montagne disfatte, scappati gli aerei.
Puoi solo restare con il viso appoggiato al vetro, come Giovanni e i fratelli: guardare, e aspettare.
Ferruccio Sansa
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
METTERE IN SICUREZZA IL TERRITORIO COSTEREBBE 1,2 MILIARDI L’ANNO PER VENTI ANNI, NE SPENDIAMO 3,5 OGNI ANNO PER TAPPULLARE I DANNI… IN 25 ANNI HANNO SULLA COSCIENZA 970 MORTI
Il disastro annunciato che colpisce l’Italia a ogni botta di maltempo innesca ogni volta gli stessi effetti: i primi giorni pianti e lacrime, imprecazioni, ipotesi di mega- piani risolutori.
Subito dopo, le chiacchiere si dissolvono nel nulla e si torna alla consueta strategia dell’oblio. Eppure quel che è in ballo è la vita dei cittadini, la salute del territorio, la salvaguardia delle generazioni future.
Viceversa, ci industriamo a sbandierare alibi: cambiamenti climatici, bombe d’acqua, il fato, la sfortuna.
Ma non ci sono scuse: non è vero nè che questi disastri siano imprevedibili, nè che siano recente novità , dato che già negli anni 1985-2011 si sono verificati in Italia 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti (rapporto Ance-Cresme)
È vero invece che i governi d’ogni segno chiudono gli occhi per non vedere che l’Italia è il Paese più fragile d’Europa, col 10% del territorio a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mezzo milione di frane in movimento.
Un solo rimedio è possibile: mettere in sicurezza il territorio, programmare e avviare grandi opere di manutenzione e salvaguardia.
Fare, per quel corpo di tutti che è l’Italia, quello che ognuno fa per il proprio corpo: non aspettiamo una malattia grave per andare dal medico, corriamo ai ripari da prima, sappiamo che prevenire è meglio che curare.
Non si eviteranno tutti i danni, ma se ne ridurrà enormemente il numero, la frequenza e la portata
Quali sono i costi di questa mancata manutenzione?
Secondo il rapporto Ance-Cresme, non meno di 3,5 miliardi di euro l’anno, senza contare morti e feriti.
E quanto ci vorrebbe per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano? Qualcosa come 1,2 miliardi l’anno, per vent’anni.
Dunque l’opera di prevenzione, nei tempi lunghi, non è solo un investimento, è un risparmio.
Ma proprio questo è il problema: i nostri governi rifuggono dai tempi lunghi, sono anzi afflitti da cronica miopia.
Non sanno guardare lontano, non praticano la nobile lungimiranza predicata da Piero Calamandrei («la Costituzione dev’essere presbite »).
Sono afflitti da strabismo, anche: davanti ai peggiori disastri, ne distolgono lo sguardo e sognano “grandi opere” (cioè grandi appalti), proclamando che da lì, e da lì solo, verrà l’agognato benessere
E la storia si ripete: nel 2009, dopo la frana di Giampilieri (Messina) che seppellì 39 cittadini, il sottosegretario Bertolaso sostenne che era impossibile finanziare la messa in sicurezza dell’area, e due giorni dopo il ministro Prestigiacomo proclamò che bisognava affrettarsi a fare (su quelle frane) il Ponte sullo Stretto.
Con identica sequenza, a far da contrappunto ai lutti in Liguria è venuta la dichiarazione del ministro Lupi alla Camera (10 novembre): «Io sono sempre favorevole alla realizzazione del Ponte e credo sia un tema che qualunque governo dovrebbe porsi».
Anzichè leggere i segni premonitori dei prossimi disastri nel paesaggio deturpato, nell’assenza di piani paesaggistici regionali (invano prescritti dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio), nella mancanza di una carta geologica aggiornata (per il 60% del territorio dobbiamo accontentarci di quella del 1862!), ci stracciamo le vesti a ogni disastro, come se i colpevoli non fossimo proprio noi.
Questa incuria, che coinvolge anche un’opinione pubblica incline a distrarsi, è ormai “strutturale”, un dato fisso dell’orizzonte politico italiano.
A chi giova? A chi pratica una selvaggia deregulation, che nega ogni pianificazione di lungo periodo e in nome della libertà delle imprese e di uno “sviluppo” identificato con la speculazione edilizia calpesta i diritti dei cittadini e la tutela del territorio.
Nessun governo ha finora avuto il coraggio di fare una spregiudicata analisi degli errori, prerequisito indispensabile di ogni capacità progettuale.
Anzi, nel recente Sblocca- Italia si prevede per la manutenzione del territorio un contentino di 110 milioni, a fronte di quasi 4 miliardi di spese in nuove “grandi opere” che accresceranno la fragilità del territorio.
Dopo la Bre-Be-Mi, autostrada fallimentare e semivuota, avremo dunque la Orte-Mestre, con un beneficio fiscale di quasi due miliardi per le imprese costruttrici.
Verrà perfino ripresa la costruzione della Valdastico, già nota come Pi-Ru-Bi (Piccoli- Rumor-Bisaglia), e lasciata poi cadere perchè superflua.
Ma l’unica, la vera “grande opera” di cui il Paese ha urgentissimo bisogno (e che genererebbe moltissimi posti di lavoro) è la messa in sicurezza del territorio.
Per imboccare questa strada manca a quel che pare l’ingrediente essenziale: un’idea di Italia, un’idea declinata al futuro.
Salvatore Settis
(da “La Repubblica“)
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Novembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
MAI DICHIARATO LO STATO DI CALAMITà€, MAI VISTI I 12,5 MILIONI STANZIATI DA PALAZZO CHIGI, BUIO PESTO SU RISARCIMENTI E MESSA IN SICUREZZA
Genova, cantava Fossati, si vede solo dal mare. 
Matteo Renzi invece la guarda in tv:
“Non vado a fare passerelle — ha detto dopo la prima alluvione del 9 e 10 ottobre — Vado a Genova quando son partiti i lavori e non le chiacchiere”.
Atteggiamento meritorio, per carità , anche se ai tempi del ritorno in porto della Concordia la passerella a Genova la fece volentieri.
Insomma, il problema non è tanto stare sul posto — per quanto pure i gesti simbolici contano — quanto un’impressione di generale inattività del governo rispetto a un disastro che continua a ripetersi: il suo volto, per ora, è solo quello della Protezione civile regionale e dei militari (90 fino a ieri, 140 in tutto da oggi) che sono lì a dare una mano.
EMERGENZA?
Viene da chiedersi cosa si intenda a palazzo Chigi con questa parola: l’esecutivo, infatti, non ha ancora trovato il modo — a un mese dai morti della prima alluvione — di proclamare per Genova “lo stato di emergenza per calamità naturale”.
Pure i dodici milioni e mezzo di euro stanziati per “la prima assistenza alla popolazione, il soccorso e le somme urgenze” in città non si sono ancora visti.
La cosa, peraltro, assume una coloritura persino farsesca se si pensa che l’annuncio dello stanziamento scatenò parecchie polemiche perchè i fondi erano insufficienti: “Le somme per ristorare i danni subiti nella recente alluvione appaiono assolutamente insufficienti alla luce del bilancio che andiamo facendo”, scrisse il sindaco Mario Doria ai parlamentari (secondo stime governative ne servivano almeno 60).
La squadra di Matteo Renzi non s’è fatta mancare nemmeno la figuraccia tecnica: nel decreto che ha sospeso il pagamento dei tributi fino al 20 dicembre, il ministero dell’Economia s’è scordata le ritenute d’acconto e ha dovuto metterci una pezza l’Agenzia delle Entrate facendo sapere che “valuterà la possibilità di non applicare le sanzioni ai sostituti d’imposta in caso di loro impossibilità a effettuare i versamenti (…) a causa dei disagi procurati dal maltempo a stretto ridosso della scadenza” (il che peraltro significa a ottobre — “stretto ridosso” — non il 20 dicembre).
I SOLDI
“Un pensiero particolare ai commercianti che avevano avuto già il negozio distrutto dall’acqua tre anni fa. Erano ripartiti e adesso si sono ritrovati di nuovo in ginocchio. Vorrei rassicurarli sul fatto che il governo troverà le soluzioni, non lasceremo soli coloro che vogliono ripartire”.
Così Matteo Renzi su Facebook dopo la prima ondata d’acqua e così, più o meno con le stesse parole, s’era commosso ospite di Barbara D’Urso a Domenica Live.
Il conto da pagare è stato già compilato dalla regione: “Servono 150-200 milioni e non per gli interventi di messa in sicurezza, ma per le famiglie, le imprese, i Comuni che altrimenti non si rialzano più”, ha messo a verbale il presidente Claudio Burlando.
Al momento, ovviamente, non s’è visto un euro (d’altronde non c’è ancora l’emergenza, no?) e pure per il futuro le previsioni non sono positive: “L’impegno del governo c’è ma non sono in grado di dire quante risorse riusciremo a dare”, ha detto il ministro Gian Luca Galletti.
I LAVORI.
Burlando, che pure sta lì da parecchio, aveva promesso basta coi veti: rompo i sigilli e faccio partire i lavori di messa in sicurezza del Bisagno e tutto quel che serve. Il governo parla più volentieri del suo programma nazionale contro il dissesto idrogeologico da 9 miliardi in sette anni (giovedì c’è una riunione a palazzo Chigi di sindaci e governatori con Erasmo D’Angelis, capo della Struttura di missione #italiasicura).
Sul caso specifico, invece, ieri l’assessore alle Infrastrutture Raffaella Paita ha spiegato che il governo è d’accordo a inserire “il terzo lotto del Bisagno e la realizzazione dello scolmatore (un canale che dovrebbe diminuire la portata del torrente, ndr) tra i progetti cantierabili subito” per cui sono disponibili 9 miliardi.
Si vedrà . Per ora, comunque, non s’è mossa neanche una ruspa.
Marco Palombi
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
FRENATA TATTICA PER PLACARE I DISSIDENTI… APPELLO AL NCD: RIUNIAMO IL CENTRODESTRA
Il doppio binario di Silvio Berlusconi. Frenare sull’Italicum versione-Renzi per rassicurare i suoi, ma blindare col premier il patto del Nazareno, nel giorno in cui Bersani spara a pallettoni.
«Durerà a lungo», scommette il leader di Forza Italia.
Del resto, con quel presidente del Consiglio che per «adesso è di là , ma vediamo come si evolve la situazione », vuole concorrere eccome alla scelta del prossimo capo dello Stato. Adesso lo dice anche in pubblico.
Milano, presentazione del libro di Michaela Biancofiore, si presenta con occhiali scuri da uveite, aria piuttosto stanca.
«Sono venuto in canotto, ad Arcore c’era il lago» scherza. È vittima dell’infezione all’occhio recidiva, «quella maledetta statuetta mi ha fatto saltare quattro denti e quasi un occhio», dice ricordando l’aggressione del 13 dicembre 2009.
La sala dell’Unione del Commercio diventa la tribuna per annunci importanti.
Troppe tensioni in Forza Italia, bisogna arginare chi, come Fitto, ormai controlla il 30 per cento delle truppe parlamentari.
E allora ecco che si spiega l’inversione a “U” nei rapporti con Angelino Alfano e il suo Ncd. Dopo aver chiuso le porte ai «traditori», fino a poche settimane fa, l’ex Cavaliere sostiene adesso che «riunire il centrodestra oggi diviso non è una necessità , ma un dovere e anche un mio augurio: per il bene del Paese queste strade si devono ricongiungere. Credo che dopo le vicende personali che hanno provocato divisioni, si debba arrivare a un confronto tutti insieme per ragioni superiori».
Proposta di alleanza, non riannessione, per ora.
Un sostanziale sì alle avances che nelle ultime ore sono state recapitate, in vista delle regionali, proprio dal ministro dell’Interno.
Anche se Fabrizio Cicchitto frena: «Sbaglia se pensa a una riunificazione per costrizione, con premio alla coalizione e sbarramento alto ».
Berlusconi fa un ragionamento spiccio, lo schieramento «è in difficoltà nel confrontarsi con la sinistra che ha un nuovo protagonista», bisogna dunque attrezzarsi. A patto che la sua leadership però non venga messa in discussione. Non può farlo nemmeno quel Salvini che sogna la scalata, «non vedo nessuno in grado di sostituirmi».
Certo, c’è anche da tenere unito il partito che non vede affatto di buon occhio la nuova versione dell’Italicum.
Ecco perchè l’ex premier prende le distanze dalla soglia di sbarramento al 3 per cento e dal premio alla lista, chiedendo a Renzi di «rispettare i patti».
Ma sono tatticismi che rientrano in una trattativa in realtà più che avviata con Palazzo Chigi.
«Il Nazareno non è un male – chiarisce – e se si mantenesse nello spirito che lo ha prodotto, potrebbe portare a un ammodernamento del Paese. Tutti guardiamo con interesse a chi governa. Se son rose fioriranno ».
E risponde a Bersani che il patto del Nazareno «non riguarda Mediaset, l’azienda soffre per il calo di pubblicità »
Con Renzi, quindi, conta di eleggere anche il prossimo presidente della Repubblica. Senza un briciolo di diplomazia dà per scontate le dimissioni di Napolitano a fine anno.
«È pensabile e augurabile che centrodestra e centrosinistra convergano per eleggere al Quirinale qualcuno che dia ad entrambi garanzie di saggezza e di equilibrio», dice Berlusconi che non fa nulla per nascondere il timore del possibile abbraccio Pd-M5S. «Con quello che abbiamo visto accadere, Dio ce ne scampi e liberi» taglia corto.
Il leader forzista, davanti a una platea di aficionados, non nasconde le difficoltà del suo campo. «Serve un leader maximo, ma ancora non lo vedo».
L’accordo con la Lega è alla portata, ma il giovane Salvini viene stoppato da Berlusconi: «Bossi ha già detto no quando ha affermato che il leader sono ancora io». Guai metterlo in discussione.
Carmelo Lopapa e Andrea Montanari
(da “La Repubblica”)
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Novembre 16th, 2014 Riccardo Fucile
RENZI AVEVA PROMESSO CHE I CITTADINI AVREBBERO SCELTO I PROPRI PARLAMENTARI, E’ FINITA CHE SONO QUASI TUTTI NOMINATI DAI PARTITI
Dopo fiumi di parole sul Patto del Nazareno che “tiene”, anzi “è più forte che mai”, con relativi commenti,
analisi, interviste, dichiarazioni, compiacimenti, salamelecchi e supercazzole, un cittadino normale potrebbe porre a Renzi una domanda facile facile: la legge elettorale falla un po’ con chi cazzo ti pare, ma mi dici che cazzo di legge elettorale hai pensato col tuo socio per noi?
La risposta è complicata: un terzo Italicum, diverso da quello uscito dal Nazareno primigenio (18 gennaio) e da quello approvato dalla Camera il 12 marzo.
Che, per giunta, riguarda solo la Camera: il Senato non è neppure considerato, dando per scontato che alle prossime elezioni sarà già legge la mirabolante riforma costituzionale del Senato delle Autonomie, il dopolavoro per sindaci e consiglieri regionali che si nomineranno da soli (il che non è scontato per nulla: mancano tre-quattro letture, con intervallo di 9 mesi; ragion per cui alle prossime elezioni si potrebbe scoprire che per il Senato, in mancanza di meglio, vale il Consultellum, cioè il proporzionale puro disegnato dalla Corte costituzionale).
Dunque: l’Italicum passato alla Camera otto mesi fa conservava le liste bloccate del Porcellum, solo un po’ più corte.
L’Italicum riscritto da Renzi, B., Alfano e frattaglie varie, che ora va al Senato e poi torna alla Camera, di bloccato ha “solo” i capilista, che usciranno in automatico in ciascuno dei 100 collegi previsti: cioè nominati dai leader dei partiti, anche se nessuno li voterà (tanto non saranno sottoposti alla preferenza).
Gli altri candidati invece dovranno sudarsi l’elezione con la preferenza, ma saranno pochissimi.
La cosa ha suscitato gridolini di giubilo fra i turiferari del renzusconismo: evviva, l’Italicum è migliorato, gli elettori potranno scegliersi i propri rappresentanti. Balle. Due senatori della minoranza Pd, Fornaro e Pegorer, hanno calcolato quanti capilista nominati dai vertici dei partiti andranno alla Camera all’insaputa degli elettori: il 60,8%, cioè 375 su 630 (nei 100 collegi nazionali, se si votasse oggi, passerebbero i 100 capilista del Pd, i 100 del M5S, i 100 di FI, più quelli della Lega nelle regioni del Nord e degli altri partiti che supereranno qua e là la soglia di sbarramento).
Questi fortunati vincitori andranno ad aggiungersi ai 100 senatori dopolavoristi, nominati pure loro.
Cioè: nel nuovo Parlamento, che eleggerà i presidenti della Repubblica e parte dei membri della Consulta e del Csm, siederanno 475 nominati (due terzi) e 242 eletti (un terzo).
Casta batte cittadini 2-1. Record antidemocratico di tutto l’Occidente.
I laudatores nazareni sostengono che i capilista bloccati riproducono il sistema maggioritario uninominale, dove in ogni collegio i partiti candidano un solo candidato.
Storie: nell’uninominale l’elettore sceglie barrando il nome del candidato preferito; nell’Italicum2.0 l’elettore vota il partito, non il capolista, e se vuole aggiunge la preferenza a un altro candidato dal numero 2 in giù.
E poi l’uninominale alla francese consente le primarie automatiche: al primo turno voti il candidato più vicino a te, magari di un piccolo partito, e nel ballottaggio, se il tuo preferito non è fra i primi due, puoi scegliere tra quelli il meno lontano da te. Nell’Italicum invece le primarie (spesso peraltro truccate o pilotate) non sono nè obbligatorie nè regolate nè controllate per legge, ma affidate al buon cuore dei singoli partiti.
E il ballottaggio serve solo ad attribuire il premio di maggioranza al partito più votato, non a scegliere i candidati: quelli si decidono tutti al primo turno.
A questo punto non si vede perchè non azzerare tutto e ripristinare il Mattarellum o virare sul sistema francese, anzichè pasticciare un Italicum all’italiana che produce un deputato eletto ogni due incostituzionali.
Non era Matteo Renzi a dire “vogliamo dimezzare subito il numero e le indennità dei parlamentari e sceglierli noi con i voti, non farli decidere a Roma con gli inchini al potente di turno” (18-10-2010)?
O quello era izneR oettaM, buono solo per fregare la gente?
Marco Travaglio
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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