Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
PAURA DIMISSIONI: INCONTRO AL COLLE PER STABILIRE CHE FARE ADESSO
È arrivato al Colle in tarda mattinata all’apparenza spavaldo e sicuro come al solito, Matteo Renzi.
A Napolitano, ancora una volta, è andato a dire che lui ha intenzione di andare avanti fino al 2018.
Ma i 30 deputati Dem che non hanno votato il Jobs act martedì sera e il crollo di Forza Italia sono elementi di destabilizzazione. E di preoccupazione.
Per Napolitano che teme per la tenuta della legislatura. E per Renzi che si trova in un cul de sac. Il governo rischia la palude progressiva e le riforme il rimando alle calende greche.
E allora, il premier, accompagnato dal ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi è salito al Colle a chiedere una mano.
Le dimissioni imminenti del Capo dello Stato (non si va oltre fine anno o inizio dell’anno nuovo, continuano a ribadire i più vicini al Presidente) rischiano di far fermare chissà fino a quando il percorso.
E allora, sullo sfondo resta la richiesta che sta sempre lì sul tavolo, a Napolitano di restare almeno un altro po’. Magari fino a metà febbraio.
Fino a quando l’Italicum non sarà in sicurezza. Re Giorgio continua a dire di no.
La situazione è complessa. Senza Italicum, l’arma del voto anticipato è spuntata: è quello il sistema che gli permette di prendere tutto.
Ieri al Tg 1, dopo giorni cruciali di inusuale sotto-esposizione mediatica, che rivelano la difficoltà a trovare una strategia sicura, ha ribadito: “Il presidente non ha bisogno di essere rassicurato. Sa perfettamente che se il Parlamento fa le leggi lavorando il sabato e la domenica, e se raggiunge gli obiettivi fissati arriverà alla scadenza naturale del 2018”.
Il punto è esattamente questo: fare le leggi, e farle presto. Un obiettivo che non è proprio semplice.
Ieri Luigi Zanda ha chiesto al presidente del Senato Grasso che sull’Italicum si possa andare avanti anche durante la Stabilità . Per arrivare all’approvazione a Palazzo Madama entro fine anno (o gennaio, nuova scadenza che s’è dato il premier sempre al Tg1) i tempi tecnici, seppur strettissimi, ci sono.
Ma non c’è l’accordo politico. Perchè nessuno vuole regalare a Renzi l’arma perfetta per andare al voto e vincere tutto.
Allora, Napolitano ieri ha chiesto al premier di sgombrare il campo dai sospetti di voto, un’ipoteca sulla legislatura, che rischia di avvelenare il clima. Non a caso la nota del Quirinale parla di un percorso “che tiene conto di preoccupazioni delle diverse forze politiche, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra legislazione elettorale e riforme costituzionali”.
La soluzione potrebbe consistere nell’entrata in vigore del neo-Italicum solo dopo l’approvazione definitiva della riforma del Senato (che richiederà alcuni mesi).
Ieri Calderoli ha presentato un odg che va in questa direzione e la minoranza bersaniana pure.
Ma a Renzi questo quanto conviene? Vuol dire avere un’arma spuntata.
E dunque, si lavora a un’intesa sulla cosiddetta “clausola di salvaguardia” della legislatura.
Da Palazzo Chigi continuano a ribadire che si può votare con l’Italicum alla Camera e Consultellum al Senato.
Quello che può concedere il premier è un accordo politico, più che una legge. Qualcosa che sia vincolante, ma non del tutto. Le elezioni con il Consultellum sono l’ultima ratio.
Convengono più ai piccoli, magari agli scissionisti che a lui. Ma quando tutto diventa ingovernabile, il premier potrebbe pure dimettersi e rischiare il tutto per tutto.
Sullo sfondo, la partita delle partite, quella del Colle: se il patto del Nazareno regge sulla legge elettorale, Berlusconi può restare in gioco anche su questo.
Renzi può provare a scommetterci. Ma regge con Fi a pezzi? E basta, con i giochi di corrente nel Pd?
Le grandi manovre sono già in atto. Anna Finocchiaro è pronta a non mettersi di traverso sull’Italicum per poter ambire al Colle; ieri a lavorare per Romano Prodi sono arrivati a Montecitorio Arturo Parisi e Pierluigi Castagnetti; il nome di Gentiloni torna tra i renziani doc; non è tramontato neanche quello di Graziano Delrio.
Sullo sfondo Walter Veltroni, Dario Franceschini. Ognuno avrà il suo candidato. Vietnam garantito. Perchè, come sintetizza un senatore dem, “Renzi è ancora vincente, ma non onnipotente”.
Wanda Marra
(da “Il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
IL DOCUMENTO DI SQUINZI “PROPOSTE PER IL MERCATO DEL LAVORO” CONTIENE GIA’ TUTTO IL JOBS ACT RENZIANO
Il Centro Studi di Confindustria, per la crescita, ha adottato la politica di Giorgio Gaber sulla rivoluzione:
oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente.
In pratica quest’anno sul Pil non si muove foglia, l’anno prossimo può essere, ma dopo sarà una pacchia.
D’altronde, scrivono gli analisti degli imprenditori, “le riforme strutturali danno frutti nel medio termine, ma nell’immediato rispondono alla domanda di cambiamento del Paese e restituiscono così la fiducia necessaria a rilanciare consumi e investimenti”. Che lo dicano non è così sorprendente se si considera — come vi mostriamo in questa pagina — che l’unica riforma strutturale in dirittura d’arrivo, il Jobs Act, l’hanno scritta loro.
Non è un’esagerazione, ma la lettura comparata tra il testo Proposte per il mercato del lavoro e della contrattazione pubblicato da Confindustria a maggio e il ddl delega uscito dalla Camera: sono uguali.
Esiste anche una conferma negativa: il Jobs Act reale non ha infatti praticamente niente a che fare con le linee guida che Renzi annunciò in pompa magna a gennaio.
Testi a confronto: ecco quello scritto dagli industriali
Sono anni che gli imprenditori tentano di manomettere lo Statuto dei lavoratori, ma non era mai capitato che un governo facesse proprie le loro proposte senza cambiarle di una virgola.
Per esserne certi basta leggere le Proposte di cui sopra.
Il testo si apre con una lamentazione sul declino italiano: c’è stata una perdita di produttività enorme, dice Confindustria, colpa anche di quegli avidi dei lavoratori italiani che hanno ottenuto aumenti di stipendio “che non avrebbero dovuto aver luogo”.
Non solo: “Nel 2010 e 2011, all’accentuarsi della crisi, sia in Germania che in Spagna si è operato un aggiustamento verso il basso del livello delle retribuzioni reali, non così in Italia”.
E quindi? “Questi dati devono guidare le nostre linee di riforma”. Insomma, il fine è tagliare gli stipendi.
Ma quali sono queste linee? Lo spiega senza timidezze il box Interventi sulle tipologie contrattuali: “Occorre rendere più flessibile il contratto a tempo indeterminato”. Tradotto: via l’articolo 18 e libertà di licenziamento.
E come? “Limitare la tutela della reintegrazione ai soli casi di licenziamento discriminatorio o nullo e prevedere la tutela indennitaria” per tutti gli altri. Il Jobs Act — e solo per un emendamento imposto al governo dalla sinistra Pd — cambia la formula aggiungendo la reintegra anche per alcuni licenziamenti disciplinari. Poca roba. Seconda richiesta: “Rendere più flessibile la nozione di equivalenza delle mansioni”. È il famoso de-mansionamento, che ovviamente Renzi ha inserito nel Jobs Act: oggi è possibile dequalificare un lavoratore — col suo accordo o quello dei sindacati — solo in presenza di una crisi aziendale, nel mondo della Leopolda deciderà l’impresa e basta. Terza richiesta: “Aggiornare la disciplina dei controlli a distanza”. Fatto.
Il Jobs Act cancella di fatto l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, che impedisce, per dire, di puntare una telecamera su un dipendente per controllarlo oppure monitorarne le operazioni sul Pc. L’era dei polli da batteria aziendali sta per cominciare.
E ancora: bene il contratto unico a tutele crescenti — scrive Confindustria — però “non può sostituire tutte le altre tipologie contrattuali esistenti”.
Il governo, ovviamente, si adegua e passa dal disboscamento radicale delle attuali 46 forme contrattuali degli annunci di Renzi all’invito al governo a “valutare” la situazione e semmai…
Il premier, ad esempio, dice che cancellerà i Co.co.pro., tipologia contrattuale famosa che però stava già morendo di suo (all’uopo le imprese hanno già il sostituto: il comodissimo “tempo determinato” disegnato dal decreto Poletti).
Finita? Macchè.
Le imprese chiedono — nell’apposita sezione “Ammortizzatori” — l’estensione a tutte le aziende del “contratto di solidarietà espansivo” (meno ore di lavoro e meno stipendio in cambio di qualche assunzione) anche alle aziende che oggi non ne hanno diritto: i criteri sono gli stessi per la concessione della Cig straordinaria. Fatto.
Tutto il sistema comunque, dice Confindustria, va “riformato profondamente”. Il primo passo? Bisogna “porre fine subito all’esperienza degli ammortizzatori sociali in deroga”. Fatto pure questo.
Memorabilia: Così la pensava Matteo a gennaio
Si potrebbe continuare con le coincidenze tra il ddl delega del governo e le Proposte di Confindustria, ma lo schema è chiaro.
Più curioso che il Jobs Act reale sia invece solo un lontano parente di quello che Renzi presentò in gennaio, quand’era segretario del Pd da un mese e a Palazzo Chigi c’era Enrico Letta : in quel testo, peraltro, tutta questa roba confindustriale non c’era. A gennaio, il primo punto all’ordine del giorno era scrivere (“entro 8 mesi”) un Codice unico del lavoro con le norme esistenti in modo che fosse traducibile in inglese: è passato un anno…
Il punto due era invece la “riduzione delle varie forme contrattuali che hanno prodotto uno spezzatino insostenibile” per andare verso “un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti”.
E l’articolo 18? Neanche una parola: d’altronde per il Renzi pre-Chigi si trattava di “un falso problema”.
Al punto 3 Renzi proponeva un “assegno universale” di disoccupazione. Nella delega l’impegno c’è, ma si dice che i soldi verranno stanziati con altri interventi nel bilancio dello Stato: peccato che nel ddl Stabilità attualmente in Parlamento a questo fine non c’è un euro.
Rispettato invece l’impegno a istituire un’Agenzia unica per gestire le politiche attive del lavoro (anche qui però mancano i soldi), mentre “l’obbligo di rendicontazione online” per chi usa soldi pubblici per la formazione e la sospirata “legge sulla rappresentanza sindacale” il povero Renzi se le è proprio dimenticate, come pure i “sette piani industriali dettagliati per settore” con cui creare “nuovi posti di lavoro”.
È un vecchio adagio: si fa campagna elettorale in poesia e si governa in prosa.
E a Confindustria hanno degli ottimi prosatori.
Marco Palombi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
BERLUSCONI STOPPA SALVINI: “NON SARA’ IL NOSTRO LEADER”… FITTO: “SILVIO CI FAI MORIRE”
La mezza investitura che già sapeva di bluff 24 ore prima, è subito tramontata.
Salvini leader? «Ma no, le mie parole sono state strumentalizzate, ho detto che Matteo è un potenziale leader, ma non che sarà lui, in campo resto io».
Silvio Berlusconi impiega pochissimo a compiere un’inversione delle sue, di fronte agli affondi di Raffaele Fitto e dei suoi nel secondo tempo dell’ufficio di presidenza. In questa partita l’ex premier si gioca l’unità del partito, in seconda battuta la tenuta del patto del Nazareno con Renzi che non vuole tradire, costi quel che costi, insomma, in ballo c’è la sua stessa leadership.
«Non possiamo tradire quel patto – è la tesi che il capo ribadisce davanti a decine di dirigenti – perchè è un patto con gli italiani. Rischiamo di restare fuori dalla scelta del Quirinale: dalle notizie che ho, Napolitano ha intenzione di dimettersi il 20 gennaio. I tempi sono dunque serrati».
E torna a ringraziare Denis Verdini, poco distante da lui, «per il lavoro eccellente che ha fatto sulle riforme, è lui che mi ha riportato al centro della vicenda politica».
Nel parlamentino di Palazzo Grazioli, va quindi in scena per tre ore la seduta di psicanalisi collettiva sulla sconfitta ancora calda di domenica.
Fitto, che non aveva potuto partecipare il giorno prima, si presenta col biglietto da visita dell’intervista mattutina a Radio24 in cui ha già alzato il tiro: «Le primarie? Nel partito devono valere per tutti, anche per Berlusconi, ma io non esco, resto e mi batto».
Uscita che porta subito la temperatura al punto di cottura. Poco dopo le 17 prende la parola per un quarto d’ora davanti al capo e attacca a testa bassa.
«Se il partito deve chiudere ce lo devi dire, Forza Italia deve tornare in mano agli elettori attraverso le primarie e non può essere gregaria di nessun Matteo, nè di Renzi nè di Salvini».
Il cahier de doleance è lunghissimo. Parla di «errori nella costruzione delle alleanze e nella scelta delle candidature». E poi, «il goleador deve essere della tua squadra, non puoi investire un altro».
La linea politica è «schiacciata sul governo, altre volte troppo aggressiva, confondiamo gli elettori».
Infine l’organizzazione del partito «è un problema grandissimo, vanno azzerate tutte le nomine, serve uno choc, bisogna affidarci ai nostri elettori, altrimenti alle primarie ci trascineranno gli alleati».
L’azzeramento delle cariche lo chiederanno in sequenza altri fittiani, Saverio Romano, Daniele Capezzone.
Il presidente della commissione Finanze il più duro. «I risultati sono l’anticamera della sparizione, siamo vicini alla quota Martinazzoli, l’11 per cento che precede l’estinzione. Presidente, dovresti essere grato a Raffaele perchè lui sta mantenendo un gruppo di senatori che altrimenti sarebbero già andati via».
Ma è quando Capezzone denuncia l’ostracismo nei suoi confronti che a Berlusconi saltano i nervi. «C’è una black list, nomi ai quali impedite di andare in tv. Io non sono in condizione di dire la mia, Mediaset e il Giornale sono appiattiti su Renzi e il governo».
A quel punto il leader sbotta: «Ma che dici? Io non controllo nulla, non decido io chi deve andare in tv, sono i conduttori che ormai chiamano in base agli ascolti, su Mediaset e il Giornale poi non ho voce in capitolo».
A differenza dell’altra volta, Berlusconi resta al tavolo della presidenza, tra i capigruppo Brunetta e Romani, non punta il dito e non si scaglia contro Fitto.
Anzi, incassa per amor di patria. Dice che la sconfitta è legata alla sua assenza forzata e alle dinamiche locali. Invita tutti a non dichiarare fuori da lì.
Cosa che invece l’eurodeputato pugliese fa puntualmente davanti alle telecamere appena uscito. «Mi sembra che noi ci vedremo domani a pranzo» è l’invito che l’ex Cavaliere gli porge sottovoce al momento del commiato.
Oggi dunque nuovo chiarimento. Ma Fitto conferma comunque la kermesse del pomeriggio sulla manovra di Renzi al Tempio di Adriano, con la quarantina di parlamentari a lui vicini e centinaia di supporter. La sfida ormai è lanciata.
Nel comitato di presidenza in tanti prendono la parola per sbollire gli animi e ripetere che il leader è solo Berlusconi, nessun leghista.
La Gelmini, Matteoli, Rotondi, Gasparri. C’è anche la Biancofiore che mette in guardia il capo dal perdono ad Alfano: «Caro Silvio, il ministro dell’Interno ti vuole in galera».
Ce n’è abbastanza, può scendere il sipario. «Abbiamo iniziato una riflessione, l’ufficio di presidenza continua la prossima settimana» dice Giovanni Toti lasciando il palazzo. All’ordine del giorno sempre il rilancio del partito. Fuori, lontano, il “goleador” Salvini si schermisce: «Tengo i piedi per terra, troppo presto».
La candidatura d’altronde è già in pista.
Carmelo Lopapa
(da “La Repubblica”)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
SULLE COSE SERIE L’ITALIA NON DELOCALIZZA
La notizia è di quelle che massaggiano il cuore: il novanta per cento della produzione mondiale di euro
fasulli è fabbricato in Italia, per la precisione in una stamperia di Napoli e in una zecca nei pressi di Roma.
Perchè sulle cose serie il Made in Italy non delocalizza. Anzi, si appoggia a una manodopera altamente specializzata, nel solco di una tradizione manifatturiera che discende da Totò e Peppino.
Novanta per cento. Un monopolio conquistato sul campo che restituisce al nostro Paese quel ruolo di guida continentale che ci era stato ingiustamente scippato dai tedeschi.
Ci davano per spacciati, loro. E invece siamo stati noi a spacciare in Germania una banconota da trecento euro, mai esistita prima.
Abbiamo saputo costruire una Bce alternativa, molto più creativa e ramificata dell’originale, grazie all’apertura di filiali in tutta Europa.
Una sorta di Erasmus parallelo in cui i migliori esperti del settore vanno a tenere lezioni di contraffazione.
I soliti gufi che amano parlare male dell’Italia rimarranno stupiti dall’efficienza della filiera produttiva, composta da undici associazioni a delinquere, ciascuna delle quali dedita armonicamente a un singolo aspetto della lavorazione: lo stoccaggio, il trasporto, la vendita al dettaglio.
Anche noi, quando serve, sappiamo fare squadra.
La nobile funzione sociale dell’impresa — aumentare le dosi di denaro in circolazione per stimolare la crescita — ha lasciato insensibili i carabinieri, che ieri hanno arrestato cinquantasei liberi professionisti.
Il patriota Salvini potrebbe liberarli al più presto per riconvertire la produzione dai falsi euro alle false lire.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
LADDOVE L’URLO LEGHISTA CADE NE VUOTO E RENZI APPARE A DISAGIO
Negli ultimi anni tutti i governi hanno fotto poco e male per il Sud.
Non solo hanno spostato altrove le risorse destinate al Mezzogiorno, ma non hanno avuto nessuna vera idea per governare in maniera intelligente i tanti Sud che abbiamo nel nostro Paese.
L’idea ossessiva è che bisogna rimettere in moto la crescita, e poi, una volta che riparte la locomotiva Italia, il Sud non può che accodarsi.
Si tratta di un’idea che da troppo tempo viene smentita dalla realtà dei fatti.
Non si può considerare il Sud come un semplice vagone da agganciare a una motrice. C’è bisogno di politiche costruite sui singoli territori. La democrazia locale e quella centrale devono lavorare assieme: intimità e distanza.
Un lavoro che possa incrociare gli interessi di chi vive in un luogo con gli interessi generali della Nazione.
La società meridionale purtroppo è ferma al lamento.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al Governo come si fa a stanziare il 98 per cento dei soldi per i treni al Nord.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perchè non fa davvero un piano straordinario per il Sud, un piano che riduca il ruolo delle mafie ed esalti le tante energie positive che ci sono nei diversi territori.
Chi vota Pd dovrebbe chiedere al governo perchè non usare il flusso dell’immigrazione per dare nuova linfa al Sud interno: terre e case vuote che diventano sempre più vuote.
Mentre la politica da discount di Salvini fa il pieno di voti, la gran parte dei politici e intellettuali meridionali cercano di posizionarsi in modo da ricavare qualcosa per sè e per la propria famiglia.
Il familismo amorale è ovunque e continua a dominare la vita sociale delle regioni più povere.
Nei paesi non si eleggono le persone migliori, ma quelle che sembrano più disponibili all’intrallazzo. Ed è impressionante anche il silenzio e la rassegnazione dei ragazzi meridionali.
La lotta sarebbe la sola strada per ottenere il rispetto dei propri diritti, ma non si lotta da nessuna parte. Ci si applica di più per mantenere una certa fedeltà al disimpegno dai propri doveri.
Ovviamente non è così in tutte le zone. La Puglia non è la Calabria, Martina Franca non è Napoli, Matera non è Marsala.
E forse bisognerebbe partire proprio dal modello di Sud che s’intravede a Matera: scrupolo e utopia, la forza del passato e la passione del futuro.
Il Sud ha straordinari pensatori politici. Franco Cassano, Piero Bevilacqua, Isaia Sales, solo per citarne alcuni.
Forse sarebbe il caso che loro ed altri si mettessero insieme per spiegare al governo cos’è il Sud oggi, io direi perfino dov’è.
Ho l’impressione che Renzi abbia un’idea vaghissima del Mezzogiorno. A lui piace parlare con Marchionne e Draghi più che con Fabrizio Barca.
Quando scende sotto Roma sembra a disagio. La sua politica alla fine vuole globalizzare l’Italia, Sud compreso, senza capire che la forza del Sud è proprio nel fatto che la globalizzazione non ha attecchito.
Bisogna spiegare a Renzi e ai suoi sostenitori che la specificità dell’Italia è la sua disunità , la sua diversità .
Matera oggi può essere considerata nello stesso tempo un paese lucano e una città europea, a Matera c’è un sapore che non c’è a Pescara.
E allora, oltre che finanziare in maniera equa i diversi territori italiani, occorre finanziarli per far luccicare la loro specificità , non per omologarli.
Il Nord, se vuole, si affidi pure a Salvini. A noi piacerebbe un Sud eretico (erede di Giambattista Vico, di Giordano Bruno), un Sud insofferente ai tamburi ciarlieri dell’attualità , un Sud che sa costruire il suo futuro senza accettare i luoghi comuni da cui è sommerso.
Franco Arminio
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
ISTAT: IN QUATTRO ANNI MENO BIG STRANIERE DEL 5,7% E DIMINUISCONO GLI OCCUPATI
I grandi imprenditori stranieri stanno fuggendo dall’Italia. 
In cinque anni, dal 2008 al 2012, i big esteri sono diminuiti del 5,7 per cento.
Una riduzione che si traduce in meno posti di lavoro, che sono calati del 10,7 per cento.
È la fotografia dell’Istat sui gruppi di impresa in Italia che crescono in numero ma non in termini di occupati.
Più di 90mila gruppi con oltre 206mila imprese attive e 5,6 milioni di addetti. E mentre è cresciuto il numero delle aziende rispetto al 2011 (+1,5%), non si è avuto alcun beneficio sul numero dei posti di lavoro, diminuiti dello 0,9 per cento.
Dando uno sguardo generale, più della metà degli addetti lavora in gruppi con più di 500 dipendenti.
Infatti, pur essendo queste aziende solo l’1,5% occupano più di 3 milioni di addetti, il 57% del totale.
Secondo l’Istat cresce il numero complessivo delle imprese, quindi, ma ci sono meno big sul territorio italiano.
Rispetto al 2011, il numero di gruppi con più di 500 addetti si riduce dello 0,1% in termini numerici e dell’1,2% in termini di addetti.
Ma l’andamento negativo dei grandi gruppi che operano in Italia emerge con più chiarezza se si considera un intervallo temporale più ampio: rispetto al 2008 il numero dei gruppi con almeno 500 addetti sono diminuiti del 2 per cento. Un cambiamento che ha portato una riduzione del 4% degli addetti.
In particolare, mentre i gruppi a controllo italiano si riducono in termini di numerosità dello 0,1% e in termini di addetti dell’1%, quelli a controllo estero rispettivamente del 5,7% e del 10,7%.
Il numero di imprese attive residenti appartenenti ai grandi gruppi subisce in media un calo del 21% (21,2% per i gruppi a controllo italiano e -20,2% per i gruppi a controllo estero).
Rispetto alla tipologia delle imprese, in generale il 75,5% dei gruppi ha una struttura elementare costituita da una o due imprese attive, mentre quelli con strutture più articolate (più di 10 imprese residenti) sono la minoranza ma rivestono un ruolo decisivo dal punto di vista dell’occupazione, con quasi due milioni di addetti.
In media, i gruppi di impresa hanno una struttura organizzativa semplice, svolgono poco meno di due attività diverse e sono presenti in una sola regione.
Anche se il 10,4% dei gruppi con almeno una impresa attiva residente è controllato da un soggetto non residente, sono quindi filiali di multinazionali estere e occupano il 22,9% degli addetti.
Il settore dell’intermediazione monetaria e finanziaria mostra, in termini occupazionali, una presenza rilevante di società di capitali appartenenti a gruppi (87,8%); seguono il settore dell’industria (57,2%) e degli altri servizi (54,4%).
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
DOPO IL GENEROSO PRESTITO CONCESSO DALLA BANCA DI PUTIN AL FRONT NATIONAL, LA PROSSIMA SETTIMANA SALVINI VOLA A MOSCA PER SONDARE SE E’ RIMASTO QUALCHE RUBLO PER LUI… E I CAMERATI CHE LO APPOGGIANO POTRANNO GIOIRE DI AVER REALIZZATO UN SOGNO: RICEVERE AIUTI DALL’IMPERIALISMO SOVIETICO E DAGLI OLIGARCHI CHE LUCRANO PROFITTI DALLA GAZPROM SOTTRATTI AL POPOLO RUSSO
Il ben informato “Huffingtonpost” anticipa che domani Matteo Salvini riunirà a via Bellerio la segreteria federale, per un serrate i ranghi generale (l’unico avversario rimastogli, Flavio Tosi, è stato avvertito: “Chi litiga è fuori”) e una possibile riorganizzazione degli organismi dirigenti.
Sabato volerà a Lione, da Marine Le Pen. Con lei parlerà del nuovo gruppo a Strasburgo (la francese è convinta di riuscire a vararlo entro gennaio), del suo progetto italiano e di quello strano rapporto a tre con la Russia di Vladimir Putin che si sta saldando in queste settimane.
Politica, sì, ma anche denaro.
Il Front National ha ricevuto nelle scorse settimane un generoso prestito di una banca vicina a Mosca. La Lega sta sondando se vi sia un’analoga possibilità , per dare fiato alle casse di partito in grande difficoltà .
Poi, la settimana prossima, volerà nuovamente a Mosca. Quasi un segnale a Berlusconi, che con “l’amico Vladimir” oggi può trattare anche lui, senza bisogno di intermediari.
La notizia rallegrerà certamente i coerenti camerati nostrani che dopo aver passato una vita a gridare “Europa nazione” e sbandierato tricolori senza per questo usarli come carta igienica, dopo aver atteso per anni che i leghisti “li venissero a cercare casa per casa”, dopo aver difeso l’unità nazionale e lottato contro tutti gli imperialismi, dopo aver manifestato contro l’invasione sovietica in Ungheria e dedicato canzoni ai martiri magiari, oggi si ritrovano a fare da lacchè a un partito che in tempi normali avrebbero demolito a sprangate.
E dato che il motivo di schierarsi con la sacra Russia sarebbe quello di lottare contro lo strapotere delle banche, eccoli serviti: i loro miti vanno giusto a cercare soldi dalle banche (russe o americane non ha rilevanza).
In attesa che Salvini con quei rubli rubati al popolo russo dagli oligarchi di Mosca possa assumere non solo la moglie in Regione, ma estendere la gratifica anche ai parenti acquisiti.
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Novembre 27th, 2014 Riccardo Fucile
BERLUSCONI IN DIFFICOLTA’, IL PARTITO RISCHIA DI SFUGGIRGLI DI MANO… E OGGI FITTO RIUNISCE I DISSIDENTI
È rivolta, dentro Forza Italia. 
Contro Silvio Berlusconi e contro il “Patto del Nazareno”, la cui “bontà ” e intangibilità viene ribadita dal leader nella sua relazione di apertura dell’atteso ufficio di presidenza.
È durissimo l’intervento di Raffaele Fitto, il capo dei “ribelli” la cui massa d’urto nei gruppi parlamentari aumenta di giorno in giorno.
Il suo intervento suona come un processo a Berlusconi e alla sua linea portata avanti fin qui, imposta senza discussione democratica e troppo appiattita sul Nazareno che, dice Fitto, ha portato a una sconfitta “enorme”.
Al Cavaliere, che ieri ha spiegato come si debba al tempo stesso aprire a Salvini e votare l’Italicum di Renzi, dice: “Siamo apparsi o troppo schiacciati sul governo Renzi o troppo aggressivi, ma così confondiamo i nostri elettori. Commentiamo l’attività degli altri anzichè essere protagonista Forza Italia non può essere il gregario di nessun Matteo, non ci può essere nè Forza Renzi nè Forza Salvini. Basta renzologia e salvinologia”.
La sua proposta è quella di uno choc organizzativo con le primarie: “Noi puoi indicare – scandisce rivolgendosi a Berlusconi – come centravanti uno che non è del tuo partito. Il centravanti lo devono scegliere gli elettori”.
Più in generale occorre, da subito, un cambio di atteggiamento: “Va bene – dice – stare nel patto del Nazareno con la schiena dritta”. Sottotesto: senza subire i continui prendere o lasciare di Renzi, come accaduto fino a ieri.
Un brivido scende lungo la schiena di Berlusconi, che prova a imporsi una calma olimpica.
Evita di usare il pugno di ferro con i ribelli e minimizza il suo endorsement a Salvini: “Le mie parole sono state strumentalizzate, non ho mai detto che sarà lui il leader ma ho solo detto che è uno dei potenziali”.
Resta però, alla fine della riunione, un problema enorme.
Perchè quelle di Fitto non sono solo parole, sia pur pesanti.
Dietro le parole ci sono numeri altrettanto pesanti nei gruppi parlamentari.
Da giorni a palazzo Grazioli sono ricomparsi, come ai tempi delle conte cruciali, gli elenchi con i parlamentari fedeli a Berlusconi e con quelli in bilico.
Il foglio più aggiornato dice che Fitto è andato ben oltre il gruppo pugliese.
Alla Camera i berlusconiani su cui mettere la mano sul fuoco sono 36. I sospetti “32”, di cui i pugliesi sono solo la metà .
A palazzo Madama, su 60 senatori una ventina stanno con Fitto, ma il malessere verso il Nazareno è assai più diffuso.
Un caso per tutti Minzolini, dato per incontrollabile sulle partite che stanno a cuore a Berlusconi, pur non essendo un fittiano puro.
Ecco perchè l’ex premier è preoccupato davvero.
La sua idea di proporre a Renzi un grande scambio tra il sì all’Italicum e un nome “condiviso al Quirinale” registra l’opposizione della metà dei suoi gruppi.
Per questo alla fine sceglie di mandare segnali ai ribelli, o quantomeno a parole “apre” annunciando un nuovo ufficio di presidenza per per raccoglier le idee su come “rifondare” Forza Italia.
Non è la prima volta che lo promette. Stavolta, per sedare la rivolta deve mettere sul tavolo il potere decisionale vero all’interno del partito come fa capire Fitto all’uscita da palazzo Grazioli: “Ritengo sia doveroso un azzeramento delle cariche per mettere in campo un sistema di elezione della nostra classe dirigente che sia un sistema dal basso”.
Non è escluso che i due possano incontrarsi a pranzo giovedì, per tentare l’ennesimo chiarimento.
Da segnalare come, proprio in vista del grande risiko quirinalizio, Angelino Alfano abbia deciso di accelerare, dopo una riunione di ieri con Quagliariello e Cesa, sulla nascita del gruppone di centro che metta assieme i parlamentari di Ncd e quel che resta di Udc e Scelta civica.
Sono un centinaio, praticamente come quelli di Forza Italia.
E nella partita sul Quirinale rischiano di essere per Renzi più affidabili degli azzurri.
Anche perchè la conflittualità interna è destinata ad aumentare. Fitto, al momento, ha confermato che domani al Tempio di Adriano terrà , di fatto, la riunione per battezzare il suo correntone con i parlamentari a lui vicini.
(da “Huffingtonpost“)
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