Agosto 7th, 2015 Riccardo Fucile
E ORA SPUNTA IL NOME DELL’ASSESSORE DI MARINO
Chi ha davvero trascinato con sè Salvatore Buzzi? 
E fin dove la Procura è disposta a credergli?
Il 23 luglio, nell’ultimo dei cinque interrogatori nel carcere di Cagliari, Buzzi è costretto dai pubblici ministeri a mettere un punto.
A indicare una volta per tutte il ruolo del suo complice chiave (Massimo Carminati) e il dettaglio della sua tela di corruttore.
Trenta politici: 2 assessori della giunta Alemanno, 5 assessori, 18 consiglieri comunali e 5 presidenti di municipio della stagione Marino. È un redde rationem.
La “delusione” Carminati
Di Massimo Carminati, Buzzi ha paura. Dunque, pattina.
“Devo dire – esordisce – che sono rimasto molto deluso dal suo comportamento, perchè è emerso che ha commesso svariati reati, mentre a noi ci rassicurava del fatto che non li commettesse”.
Il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il pm Paolo Ielo lo interrompono: “Lei ha confessato dei reati che ha commesso insieme a lui. Quindi…”.
Buzzi prova ad arrabattarsi. “È vero, però nella mia idea si tratta di reati meno gravi. Non violenti o mafiosi”.
Quindi aggiunge: “E comunque non ho difficoltà a riferire i flussi economici con cui avevamo definito i nostri reciproci rapporti di dare e avere. Erogammo alla coop Cosma che era a lui riconducibile 140 mila euro e comunque il rapporto di fiducia reciproco cresceva anche perchè lui ci affidava tutte le decisioni da prendere relative ai suoi interessi. Addirittura, per i 200 mila euro del debito “Misna” (progetto di assistenza di minori non accompagnati, ndr ), ci disse che un terzo avrebbe dovuto essere destinato a Fabrizio Testa (detenuto dal dicembre scorso, ndr ), un terzo lo avrebbe preso lui e un terzo lo avrebbe lasciato in cooperativa. (…) I rapporti con Carminati si sarebbero legalizzati presto e sarebbe diventato socio della “29 giugno””.
Per i pm, una solenne sciocchezza: “Come fa a parlare di “legalizzazione dei rapporti”, dal momento che usavate un jammer per impedire la captazione di conversazioni?”.
“Era Carminati a volerlo usare – rincula Buzzi – Perchè aveva paura delle indagini su Finmeccanica. E comunque a noi andava bene perchè sapevamo che i nostri accordi di cartello con altre imprese erano reati”.
La lista dei corrotti
I pm sollecitano quindi Buzzi a indicare una volta per tutte chi avrebbe corrotto.
“La nuova Amministrazione Marino – dice lui – mi aveva posto a carico i costi di 4,5 assessori, 18 consiglieri comunali, 4, 5 presidenti di municipi”.
E, questa volta, lascia scivolare il nome dell’assessore ai lavori pubblici della Giunta Marino, Maurizio Pucci, un pisano classe ’54, ex agente assicurativo Unipol, legatissimo al sindaco e, tra gli anni ’90 e il 2000, uomo chiave delle giunte Veltroni e Rutelli in Ama e nei cantieri del Giubileo, prima di diventare responsabile della protezione civile regionale con Marrazzo.
“Il primo degli assessori della giunta Marino con cui ho avuto rapporti di tale natura – dice infatti Buzzi a verbale – è Maurizio Pucci, durante la campagna elettorale del 2006, quando gli erogammo finanziamenti e gli mettemmo a disposizione un’autovettura che lui non voleva più restituire. Nell’ultima consiliatura, però, non ci sono state altre erogazioni”.
“Poi?”, chiedono i pm.
“Vi sono state tre assunzioni richieste da Luigi Nieri (ex vicesindaco, ndr ). Non normali, nè amicali, ma immediate, al costo di 110, 120 mila euro annui, e fatte in una logica di scambio”.
Buzzi prosegue: “Per le deliberazioni per il debito fuori bilancio ho promesso a Mirko Coratti (ex presidente dell’assemblea capitolina ndr ) e Francesco D’Ausilio (ex capogruppo Pd in Campidoglio, ndr ) 100 mila euro. Che hanno accettato, ma che non ho fatto in tempo a pagare perchè sono stato arrestato. Alfredo Ferrari (consigliere Pd, ndr ) e Luca Giansanti (capogruppo della lista Marino, ndr ) hanno accettato una promessa di 30 mila euro, 15 mila a testa, mentre con Ferrari mi sono accordato per un compenso tra il 5 e il 10% di un debito fuori bilancio da 400 mila euro. Poi ci sono state le tre assunzioni chieste da Massimo Caprari (consigliere di Centro democratico, ndr ). Anche Fabrizio Panecaldo (capogruppo Pd, ndr ) mi chiedeva assunzioni. Assentivo ma non si è mai fatto nulla”.
Nei ricordi di Buzzi, c’è qualcosa di nuovo anche sul conto del Pdl Giordano Tredicine. “Gli promisi il 10% su uno stanziamento di 2 milioni di cui avevano disponibilità in bilancio”.
E su Lucia Funari, assessore alla casa con Alemanno. “Le davo 10 mila euro al mese per ottenere le proroghe dei servizi dell’emergenza alloggiativa. Complessivamente, le ho portato in ufficio 100 mila euro”.
I “finanziamenti legali”
C’è infine il capitolo dei finanziamenti in chiaro e delle “altre utilità ” alla politica.
Dice Buzzi: “Ho finanziato Erica Battaglia (presidente della commissione politiche sociali del comune, ndr ), mentre al consigliere Pd Athos De Luca ho garantito presenze agli eventi per la campagna elettorale. Ho finanziato Alemanno per le europee e feci un’assunzione ma non con caratteri di scambi per Fabrizio Ghera (capogruppo in Campidoglio di “Fratelli d’Italia”, ndr )”.
Le bugie della destra
L’interrogatorio si chiude qui. Ma Buzzi non porta a casa quel che cerca.
La Procura gli contesta che quanto ha ascoltato per cinque giorni – il 23 e il 24 giugno, il 21, 22 e 23 luglio – “è scarsamente credibile”.
Per più di una ragione. “Per la scarsa plausibilità logica – si legge nel verbale – della ricostruzione dei rapporti con Alemanno, delle erogazioni nei suoi confronti di utilità economiche che non avrebbero avuto ragione se non in forza di un’esplicitazione di un accordo corruttivo”.
“Per la scarsa plausibilità logica e per il contrasto con alcune conversazioni intercettate nella ricostruzione dei suoi rapporti con Carminati”. “Per le versioni sui rapporti e gli interventi minacciosi nei confronti di Riccardo Mancini (ex ad di Ente eur e tesoriere di Alemanno, ndr )”. “Per la scarsa plausibilità logica dei rapporti con la criminalità calabrese”.
Carlo Bonini e Maria Elena Vincenzi
(da “La Repubblica”)
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Agosto 7th, 2015 Riccardo Fucile
TASSE PIU’ ELEVATE E SERVIZI MEDIOCRI: LE PIAGHE DEL MEZZOGIORNO
La luce va via sei volte più spesso nelle città del Sud, i bambini di Napoli “valgono” un terzo dei bambini delle città del Nord, le università meridionali fanno i conti con tagli maggiori rispetto a quelle settentrionali.
Quello che c’è tra Nord e Sud non è un divario ma un abisso.
Secondo quanto riporta un’inchiesta del Mattino firmata da Marco Esposito, atenei, tassazione Irap, la Sanità e l’Istruzione, la qualità dei servizi energetici e dei trasporti sono le sette piaghe che dividono in due il nostro Paese.
Mancanza di equità e di strategia hanno quindi causato quella situazione desolante ben fotografata dal rapporto Svimez di qualche giorno fa.
Non è un problema di forma ma di sostanza. Il Sud è diventato una grande area con fiscalità di svantaggio, dove a maggiore pressione fiscale corrisponde una precaria erogazione di servizi: nel 2015 una nuova impresa, una startup, è esente dall’Irap in Lombardia mentre paga il 4,82% in molte regioni del Sud (con un picco del 4,97% in Campania).
Questo perchè lo Stato “ha continuato a chiedere a cittadini e imprese le stesse tasse di un tempo, però per risparmiare non ha più girato risorse a sufficienza agli enti locali, chiedendo a Regioni e Comuni di arrangiarsi aumentando le imposte locali”.
Non solo, scrive il Mattino: “Non sono mai stati fissati dal governo i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in tutto il territorio nazionale”, perchè incerti sulla capacità di tenere fede agli impegni.
Il caso più clamoroso è nell’attribuzione dei fabbisogni standard comunali per asili nido e istruzione.
Soltanto per queste due voci, infatti, invece di calcolare il fabbisogno comune per comune della popolazione, si è considerato il livello di servizi erogato nel 2010 con il paradosso che laddove il livello è nullo o insufficiente, si è considerato quel livello minimo zero come il reale fabbisogno.
In altre parole, se una città come Catanzaro non aveva asili nido nel 2010, si è sostenuto che non ne ha bisogno neppure oggi, riducendo il fabbisogno complessivo di quel comune.
A Napoli per asili nido e istruzione è stato assegnato un fabbisogno di 72 euro per abitante, contro i 187 di Roma e i 237 di Milano.
In pratica è come dire che i bambini di Napoli valgono un terzo degli altri”.
Non c’è equità neanche sul fronte universitario, scrive il Mattino, “un campo nel quale il prestigio degli atenei del Sud era indiscusso: si pensi a quanti meridionali hanno fatto carriera fino alla Corte Costituzionale dopo una laurea in Giurisprudenza alla Federico II”.
Una quota crescente del Fondo di finanziamento ordinario (FFO) è distribuito in base a indici valutativi, i quali dovrebbero misurare lea qualità della didattica e della ricerca.
Tuttavia, anche per difficoltà a trovare parametri oggettivi, nei fatti tali misurazioni non fanno che certificare il dualismo territoriale riproducendolo e amplificandolo, come un taglio del Fondo FFO che dal 2008 supera il 10 per cento al Sud mentre è sotto il 5 per cento al Centronord.
Sul fronte energetico, secondo i calcoli dell’Autorità per l’energia, ” fronte di un 4% di clienti trattati male al Centronordi si registra un 23 per cento al Sud”.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 7th, 2015 Riccardo Fucile
TRE BRACCIANTI MORTI IN PUGLIA MENTRE RACCOGLIEVANO FRUTTA E VERDURA
Il terzo bracciante a crollare per la fatica e per il caldo si chiamava Zaccaria, era tunisino e doveva
mantenere 4 figli.
Si è sentito male martedì 3 agosto in tarda mattinata alla fine del turno di lavoro nei campi dove caricava cassette di uva. Si trovava a Polignano a Mare.
A differenza di Paola, la raccoglitrice di uva stroncata da un infarto alla fine di una lunga giornata di lavoro, sul corpo di Zaccaria, 52 anni, verrà eseguita l’autopsia.
La Procura di Bari vuole capire se la morte sia stata conseguenza di un infortunio sul lavoro, un approfondimento di indagine che nel caso della bracciante italiana non c’era stato.
La storia di Paola, infatti, è emersa soltanto grazie al lavoro dei cronisti e della Flai-Cgil pugliese che hanno raccontato l’ultima giornata di questa donna di San Giorgio Jonico, madre di 3 figli, che quotidianamente si alzava nel cuore della notte per raggiungere le campagne di Andria dove era impegnata nella acinellatura dell’uva, un lavoro massacrante eseguito sotto un tendono dove la temperatura può raggiungere in questo periodo i 40 gradi.
Un lavoro che però viene pagato molto poco, circa 30 euro a giornata nonostante il contratto nazionale stabilisca che siano almeno 52.
“Paola ha fatto 15 anni di duro lavoro nei campi – dice ancora Deleonardis, responsabile Flai-Cgil regionale – dall’alba fino a quando fa buio. Si alzava alle 2 di notte a San Giorgio Jonico, in provincia di Taranto, arrivava sui campi di Andria alle 5, rientrando nel primo pomeriggio a casa, dopo circa cinque ore di viaggio fra andata e ritorno”.
Le accuse lanciate dalla Cgil sono pesantissime: sembra che in ospedale non sia mai arrivata.
Il carro funebre l’ha portata direttamente dal campo di lavoro alla cella frigorifera del cimitero di Andria, dove il marito e i figli l’hanno trovata
Paola è deceduta il 13 luglio, e prima di lei è toccato a Mohammed, sudanese di 47 anni, crollato a terra sotto il sole cocente mentre raccoglieva pomodori nella campagna tra Nardò e Avetrana.
“Li fanno vivere peggio delle bestie. Mio marito dormiva su un materasso poggiato su un balcone, in mezzo alla sporcizia: se l’avessi saputo, non l’avrei mai lasciato venire qui”, ha dichiarato la moglie a Repubblica Bari.
Il proprietario dell’azienda agricola dove era impiegato Mohammed è ora indagato per omicidio colposo insieme a un altro dipendente e a un uomo sospettato di essere il caporale.
Il caporalato – o intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – è diventato reato nel 2011 dopo il reportage giornalistico di Fabrizio Gatti, che si era finto raccoglitore di verdura nei campi pugliesi, e dopo uno sciopero degli stessi braccianti agricoli stranieri a Nardò.
Le associazioni che difendono i diritti dei migranti hanno spesso criticato la norma poichè non prevede tutele per lo straniero senza documenti che eventualmente decide di denunciare.
Negli ultimi mesi è emerso che i caporali preferiscono le donne italiane agli uomini stranieri, poichè i secondi ormai si ribellano quando le condizioni di lavoro diventano molto pesanti. E nonostante a Lecce sia entrato nel vivo un processo contro il caporalato, il fenomeno è ancora esteso, vivo e vegeto:
L’inchiesta sulla morte di Mohamed, il sudanese di 47 anni deceduto mentre lavorava in un’azienda agricola, ha riportato alla luce l’esistenza di un’organizzazione criminale viva e vegeta. Che nel 2012 ha traballato grazie all’operazione Sabr (che portò in carcere 22 persone accusate di riduzione in schiavitù) e oggi è più solida che mai.
Al punto da poter disporre delle case abbandonate nelle campagne fra Copertino, Nardò, Galatone, Porto Cesareo — e poi su, verso Avetrana — a proprio piacimento. Con il placet dei proprietari, che hanno più paura di mettersi contro i “capi neri” che di infrangere la legge italiana.
(da “Huffingtonpost”)
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Agosto 7th, 2015 Riccardo Fucile
IL RAGAZZO DI DUBLINO CHE HA SALVATO LA VITA A UN UOMO CHE STAVA PER BUTTARSI DAL PONTE
Cosa farei se vedessi un uomo sul cornicione di un ponte con i piedi pronti al grande balzo?
Jamie Harrington, dublinese di sedici anni, è salito sul ponte, si è seduto accanto all’aspirante suicida e gli ha gettato al collo solamente due parole: «Stai bene?».
Per tutta risposta l’uomo si è messo a piangere.
In tre quarti d’ora di monologo ha concentrato le miserie di una vita.
La sensazione di essere invisibile, inutile, inadeguato.
Jamie gli ha lasciato finire il racconto e poi ha detto: «Stanotte non riuscirei a dormire se ti sapessi in giro da solo per la città . Chiamerò un’ambulanza perchè ti porti in ospedale».
L’uomo alla deriva si è lasciato trarre in salvo: più per non deludere il nuovo amico che per altro.
Si sono scambiati i numeri di telefono. A tre mesi da quella notte lo smartphone di Jamie ha suonato e lui ha subito riconosciuto la voce: «Stai bene? Sono state quelle due parole a salvarmi».
«Com’è possibile che ti siano bastate due parole?», gli ha chiesto Jamie.
«Immagina se per tutta la vita non te le avesse rivolte mai nessuno».
Stai bene. Nel comunicare col prossimo, persino con le persone amate, si preferisce usarne altre più intrusive. «Come è andata?», «Con chi sei stato?».
E quando si chiede a qualcuno come sta è solo per recitare una formula di cortesia che spesso non prevede di prestare attenzione alla risposta.
Eppure, se pronunciate a cuore aperto, quelle due parole pare facciano miracoli. L’uomo che voleva togliersi la vita ne ha appena creata una nuova, con la collaborazione decisiva di sua moglie.
Dice che aspettano un maschio e che lo chiameranno Jamie.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa“)
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Agosto 7th, 2015 Riccardo Fucile
NELLA COLONIA PENALE TOSCANA TRA I DETENUTI IN SEMILIBERTA’ CHE LAVORANO PER PRESERVARE UN GIOIELLO DELL’ARCHITETTURA
Lo sguardo dello spazzino è pieno di serena malinconia. 
“Una volta c’era un sacco di gente”, dice. Una volta era tanti anni fa, quando è arrivato nella colonia penale di Pianosa, nell’arcipelago toscano.
Lo spazzino è un uomo di quasi settant’anni e ne ha passati 42 qui. Una vita per riparare a un errore. Ma ora, a differenza di prima, lo sta facendo da detenuto libero.
Il Comune di Campo dell’Elba, di cui l’isoletta fa parte, l’ha assunto part time per tenere pulite le strade di uno dei paesi più piccoli e suggestivi del Mediterraneo.
Un gioiello splendente dell’architettura eclettica dell’Ottocento, oggi quasi completamente disabitato, dove si è consumata una delle vicende umane più incredibili della nostra storia
Di uomini che come quello spazzino stanno scontando una pena da detenuti liberi a Pianosa ce ne sono trenta.
Alcuni di loro erano già passati da lì quando c’era il carcere: anzi, i carceri, perchè di penitenziari ne esistevano un tempo ben cinque.
Altri, quasi tutti, sono arrivati da Porto Azzurro. Li seleziona una commissione che ne esamina il profilo psicologico e umano, valutando le attitudini per questo esperimento che non ha uguali, nei modi in cui viene attuato a Pianosa, nel nostro ordinamento carcerario.
C’è chi ha ucciso, chi ha rapinato, chi ha trasportato droga.
C’è il cinese che insieme al rumeno si occupa dell’orto dove si producono la verdura e la frutta per Porto azzurro e per il ristorante, l’unico dell’isola in gestione a una cooperativa. C’è il siciliano mago dei motori, capace di rimettere in sesto indifferentemente una Panda e una ruspa.
C’è il pugliese spazzino. Ci sono il sardo e il sudamericano ormai specialisti della ricostruzione dei muri a secco che a Pianosa sono un’autentica opera d’arte.
E poi chi serve ai tavoli del ristorante. Chi ti fa il caffè all’unico bar. Chi pulisce la spiaggia. Chi rifà le camere all’unico alberghetto. Chi accudisce i cavalli e guida la carrozza che porta i turisti in giro per l’isola.
E qui sta il salto. Sono detenuti che scontano una pena in un regime di semilibertà e lavorano regolarmente retribuiti.
Come prevede appunto la legge, articolo 21 dell’ordinamento carcerario.
Non sono in vacanza. Ma in questo caso interagiscono con la gente assolvendo un compito che va ben oltre la rieducazione: tengono in vita e contribuiscono a preservare questo angolo di paradiso terrestre.
Adesso Pianosa fa parte del parco dell’arcipelago toscano, è una riserva integrale. La proprietà è demaniale, la competenza ambientale è dell’ente parco della regione Toscana, quella amministrativa è del Comune.
Le barche non si possono avvicinare, la pesca è tassativamente vietata entro un miglio dalla costa.
Si può fare il bagno solo alla spiaggia di sabbia bianchissima separata con il piccolo paese dal resto dell’isola completamente piatta come dice il suo nome, che era tutta una colonia penale agricola, da un enorme barriera di cemento armato, ormai quasi più diroccata di tanti muri di sassi e mattoni.
Non altra funzione se non quella intimidatoria: nelle torrette di sorveglianza non è mai salita una guardia. Quel muro gigantesco era stato tirato su più di trentacinque anni fa, dicono per volontà del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, quando venne costruito sul vecchio sanatorio il carcere di massima sicurezza nel quale furono rinchiusi prima i brigatisti, quindi dopo il 1992 i mafiosi.
Era il luogo del famigerato (per i criminali) 41-bis.
A Pianosa fu il momento più brutto dell’età moderna. Non che non ne avesse vissuti di peggiori.
I romani vi confinarono l’ultimo e più problematico nipote di Ottaviano, Agrippa Postumo, che si fece costruire una residenza con le terme in riva al mare, e i resti sono ancora lì; ma pare che avesse anche una splendida villa all’interno, si mormora proprio sotto l’ex carcere di massima sicurezza non a caso battezzato “Diramazione Agrippa”.
Ci sono catacombe cristiane che si estendono sotto gran parte dell’isola, con 700 tombe già scoperte.
E nel 1553 i pirati turchi invasero Pianosa sterminando la popolazione. Per più di due secoli, da allora, rimase un deserto. Fino a quando nell’Ottocento riprese a vivere e il Granduca di Toscana la trasformò in una colonia penale agricola.
Era la nostra Cajenna, al pari della Gorgona e dell’Asinara.
Da cui qualcuno, emulando Papillon, cercava sempre di scappare. Ma con scarsa fortuna. Un galeotto attraversò le otto miglia di mare che separano Pianosa dall’Elba con la camera d’aria di una ruota di trattore ma trovò i carabinieri ad aspettarlo.
Poi con il supercarcere diventò un inferno. Dentro e fuori. Dentro, centinaia di detenuti. Fuori, centinaia di guardie carcerarie con le famiglie.
Il paesino meraviglioso intasato dalle macchine perennemente in sosta, con le persone sedute negli abitacoli e i finestrini abbassati che si parlavano da un’auto all’altra.
Pianosa era arrivata ad avere anche 2.500 abitanti, ma in una condizione assurda.
Tutti erano prigionieri. Nessuno era felice.
L’inferno durò quasi vent’anni. Il 28 giugno del 1998, improvvisamente, scattò l’ora X.
Il governo di Romano Prodi decise di chiudere il penitenziario e Pianosa fu evacuata in un solo giorno. Forse l’unica fuga di massa di detenuti e secondini con le loro famiglie che la storia ricordi.
A testimonianza di quell’incredibile episodio c’è una caserma della polizia nuova di zecca, comprensiva di una enorme centrale termica, mensa, cucina e circolo ufficiali, costata miliardi e mai aperta: è lì, con le piante di cappero che penetrano nelle fessure spaccando gli intonaci ancora immacolati, entrano nei quadri elettrici, coprono i marciapiedi.
Ci fu chi perfino chi lasciò la casa aperta con i letti sfatti e la pastasciutta calda nei piatti. E l’isola fu di nuovo un’isola deserta. Come di fatto è ancora oggi.
Fa impressione il porticciolo, perfetto nelle proporzioni e nelle sagome, che fu definito da qualcuno il più bello del mondo, senza una barca: a parte quella dell’unico residente isolano nato a Pianosa, il custode delle catacombe Carlo Barellini.
Fanno impressione le spettacolari merlature smozzicate dalla salsedine, le case lesionate, i due piccolissimi alberghi Trento e Trieste affacciati sulla piazzetta del porto dove i bambini giocavano con il pallone che finiva sempre in acqua, ormai cadenti.
E le strade deserte, dopo le cinque di sera quando il battello dei turisti giornalieri torna a Marina di Campo.
Consola soltanto il pensiero che lì altri danni l’uomo non ne sta facendo, e che se non ci fosse stato il carcere Pianosa avrebbe avuto un destino ben diverso: probabilmente non dissimile da quello di tanti altri luoghi incantati della nostra Italia ora sbranati dal cemento e dalla speculazione.
E ti viene in mente che forse la strada giusta per preservare ancora tutto sia puntare su questo singolare e straordinario compromesso.
Soltanto con un po’ di buonsenso in più. Da parte di tutti. Forse è giusto spendere milioni per ripristinare le antiche specie animali autoctone: c’è un progetto con fondi europei gestito dall’ente parco.
Ma sarebbe forse ancora più giusto salvare prima la splendida roccaforte del porticciolo costruita sul disegno fatto da Napoleone Bonaparte durante i suoi cento giorni all’Elba, che sta cadendo a pezzi.
Con tutti i denari che si buttano per cose inutili, davvero è impossibile trovare qualche risorsa da investire nel recupero di parte almeno di quelle architetture uniche al mondo?
Energie umane per uno sviluppo sostenibile di Pianosa, come dimostra l’esperimento che si sta facendo qui, non mancherebbero.
Le regole per i detenuti liberi, intendiamoci, sono rigide: non potrebbe essere diversamente. Ognuno ha un ruolo preciso.
Hanno il telefonino e possono parlare con il figlio o la fidanzata. Ma finita l’attività , a sera, devono rientrare. Non nelle celle, perchè il carcere non c’è più da 17 anni, bensì in una vecchia prigione riadattata ad alloggi dagli stessi detenuti: si chiama “Diramazione Sembolello” ed è il posto dov’era stato rinchiuso durante il fascismo Sandro Pertini. Tutto è secondo la legge.
I detenuti hanno anche la possibilità di ricongiungersi con gli affetti familiari, come prevedono appunto le norme. Per gli incontri c’è una piccola residenza risistemata sempre in economia, battezzata “la casa delle mosche”.
Reggere una situazione del genere non è facile. I soldi sono pochissimi e si fa quasi tutto cannibalizzando le vecchie strutture carcerarie.
Un aiutino arriva dall’ente parco. Qualcosina anche dal Comune. Ma oltre al fisico, ci vuole anche una passione bestiale.
Quella che non manca a Claudio Cuboni, assistente capo delle guardie carcerarie (quattro in tutto) di stanza a Pianosa.
Un ragazzo sardo di cinquant’anni con l’hobby (o forse anche qualcosa di più) della scultura, capace di gestire con umanità e rigore un equilibrio sottilissimo.
Forse anche perchè sta a Pianosa da ventitrè anni. Forse perchè ha visto com’era prima e com’è adesso.
Forse perchè sa che per una volta tanto un articolo della nostra Costituzione può essere rispettato: il 27, quello secondo cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Dice la statistica che commette di nuovo un reato il 68 per cento di chi sconta la pena in carcere normale.
Dal 2004 sono passati a Pianosa 120 detenuti e quelli che dopo aver terminato qui la pena lavorando ci sono ricascati sono solo tre. Il 2,5 per cento.
E questo vale più di ogni altra cosa
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera”)
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